Gli attori della giustizia
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Pensieri su Andrea Sclafani

Pensieri su Andrea Sclafani di Carlo Sabatini, Nicola di Grazia, Riccardo Rosetti, Stefano Filippini e Dino Petralia

Andrea e i suoi sorrisi di Carlo Sabatini               

Ho avuto la fortuna di conoscere tanti sorrisi di Andrea.

Da ragazzi, al Mamiani, lui giocava a pallavolo: era bravo e forte. Veniva sempre convocato nelle partite ‘vere’, i tornei interni, ma anche quelli con altre scuole, ed era bello vederlo danzare intorno alla rete. Sapeva però essere modesto, aveva sempre una parola, e un sorriso, per chi era molto meno bravo e forte, compariva di sfuggita, raramente giocava titolare. ‘Dai, alleniamoci insieme, proviamo: divertiamoci un po’.

Nel 2010, forse luglio, (ero in applicazione a Reggio Calabria, avevo preso una casa nel borgo di Scilla/Chianalea) Andrea mi chiama: erano lui, Maria, Raffaella, passavano di ritorno da Bagnara ‘ti passo a trovare, voglio vedere come ti sei sistemato’. Sono abbastanza sicuro che portassero anche un’ospite, una ragazza amica di Raffaella. Con me c’era mio figlio Lorenzo, circa coetaneo di Raffaella: avevamo preparato un aperitivo sulla terrazza, volevamo fare bella figura. Luminarie e salumi calabresi.

Al quarto stuzzichino è venuto giù il diluvio universale; vedevamo le trombe d’aria e d’acqua, sullo stretto, verso la Sicilia. In quel caso, il suo sorriso è stata la risata che ci siamo fatti tutti, perché la ‘apericena trendy’ che avevamo cercato di mettere su era stata sconfitta, e annientata, dalla forza della natura.    

In tutti questi anni, negli incontri associativi, anche quando non stava bene, Andrea veniva: ed era rassicurante nelle aule di piazzale Clodio – gelate o roventi, secondo stagione – mentre redigevamo i comunicati ‘fondamentali’, partecipavamo alle estenuanti discussioni su ‘linee politiche’ più o meno lucide, incrociare ogni tanto il suo sguardo. E il suo sorriso, in cui c’erano certo la passione della partecipazione, vera e forte; ma anche la sana ironia, del non prenderci poi troppo sul serio.

E si poteva fare affidamento su di lui, per affiggere l’ennesima locandina alla Sorveglianza.

Ciao Andrea, grazie dei tuoi sorrisi!

L’esempio di Andrea di Nicola Di Grazia    

Andrea è stato il fratello maggiore che non ho avuto.

C’era sempre, col suo sguardo limpido che dissipava qualsiasi nube; e gli bastava un attimo per farlo.  

Una volta - eravamo molto giovani e ancora molto incoscienti - facemmo un viaggio lungo e pericoloso in centroamerica, dove cercavamo anche altro dalle spiagge tropicali. Ci ritrovammo a un certo punto, proprio per quella curiosità, in Nicaragua, in un periodo ancora turbolento di quel Paese.

Mi capitò improvvisamente, una mattina, di dovermi staccare dal gruppo durante il viaggio verso Leon, la città universitaria che ci sembrava imperdibile per capire quello che stava accadendo; sarei rimasto da solo ad aspettare la successiva corriera lungo una strada dissestata, che attraversava una foresta fitta e completamente deserta.

Andrea non ci pensò un momento, prese il suo zaino, disse agli altri di proseguire e restò con me. 

Rimanemmo soli a parlare per ore e non passò nessuno.

Poi mi salì una forte ansia, perché mi resi conto della situazione, e ricordo di avergli chiesto angosciato come avremmo fatto se la corriera del pomeriggio non fosse passata. Lui mi tranquillizzò, sempre sorridendo, dicendomi banalmente “prenderemo la corriera di domani!”.  

Ecco, Andrea era cosi: attraversava le difficoltà prima di tutto preoccupandosi di chi aveva al fianco e mantenendo fisso il suo sguardo sulla persona che aveva di fronte.

Ti guardava e capiva quello che provavi, perché voleva sinceramente comprendere l’altro.

Così ha sempre fatto il magistrato: sempre predisposto all’ascolto, senza mai un momento di protervia personale o intellettuale.

E così ha continuato ad essere anche durante una lunga malattia che avrebbe piegato chiunque verso altri modi di vivere.

Chiunque, ma non lui.

Grazie Andrea per il tuo esempio.

Il mio amico Andrea di Riccardo Rosetti        

Ho incontrato Andrea Sclafani nel 1999, quando ho preso servizio nella mia prima sede, il Tribunale di Isernia, come giudice civile. Andrea era più grande di me e già da qualche anno lavorava in quella sede, in Procura come sostituto.  

Senza ancora conoscerci condividevamo tanto, eravamo cresciuti nello stesso quartiere di Roma e avevamo frequentato lo stesso liceo: l’amicizia tra di noi nacque spontanea e immediata, prendemmo a viaggiare insieme tra Roma e Isernia (guidava sempre lui!) e ricordo la sua casa in Molise bella, ordinata e con una vista su una valle verdissima, nella quale era sempre pronto ad accogliere gli amici. Furono anni felici, Andrea si sentiva a suo agio in quella città, era già sposato con Maria e faceva da fratello maggiore a noi colleghi più giovani.

Con Andrea era facile condividere momenti di svago e di sport, tanto spesso correvamo insieme in campagna e quando potevamo raggiungevamo le montagne vicine per una sciata insieme.

Era felice del suo lavoro, era proprio quello che voleva. Prima della magistratura aveva vinto il concorso alla Banca d’Italia e aveva preso servizio nell’Istituto, ma aveva lasciato senza esitazioni una carriera pur prestigiosa e remunerativa per essere magistrato.

Lui non ha fatto il magistrato, lui è stato un magistrato. Ha sempre custodito un concetto elevatissimo della convivenza civile, delle regole, è stato in modo naturale un uomo dello Stato. Nel lavoro come nei rapporti umani, Andrea era severo con se stesso e indulgente con gli altri.

E’ stato un pubblico ministero equilibrato, tenace, preparatissimo.

Nel 2003 fu trasferito alla Procura di Tivoli e lasciò Isernia con dispiacere,  ma era nata Raffaella, Maria lavorava a Roma e si trattava di una scelta dettata da solide ragioni familiari. La nostra amicizia proseguì strettissima negli anni, ci vedevamo a Roma, in vacanza e quando possibile tornavamo insieme nel Molise dove Andrea aveva lasciato del suo passaggio un ricordo bellissimo e alcuni amici con i quali è rimasto unito per la vita.  

Andrea fu colpito, nel 2004, da una malattia crudele ma da subito mostrò un coraggio eccezionale: era lucidissimo e capì fin dall’inizio che non sarebbe guarito, ma comprese, anche, che vivere più o meno a lungo sarebbe dipeso dalla sua capacità di fronteggiare il male. E volle combattere fin dall’inizio per stare accanto a Maria e aiutarla a crescere Raffaella. E così non è mai arretrato di un passo, ha voluto prolungare insieme la sua vita e la sua sofferenza lottando per anni. Ha affrontato operazioni, analisi, terapie di ogni sorta, prove durissime. Ha convissuto per anni con il senso della morte imminente, privato della principale illusione della quale godiamo tutti, quella di pensare che la morte non ci riguardi.

Ma, nonostante tutto, Andrea è vissuto con una forza d’animo, con un sorriso e con un equilibrio che lo hanno reso un uomo unico; non ha mai recriminato sulla sfortuna che lo aveva colpito, non si è mai ripiegato su se stesso, è rimasto sempre disponibile per gli altri: un amico insostituibile, il primo ad accogliere e a sostenere chi  fosse in difficoltà.  

Andrea ha dimostrato con i fatti il senso etico che attribuiva all’essere magistrato.

Divenne giudice della sorveglianza a Roma e in questa funzione ha dato il meglio di sé stesso benché attraversasse gli anni più difficili.

Sempre ha trattato le istanze dei detenuti con partecipazione, con piena umanità, mai in modo burocratico. Coltivava il dubbio, leggeva e rileggeva le lettere che i detenuti gli indirizzavano. Si faceva carico del male, del dolore, della pazzia degli autori dei delitti più efferati: perché Andrea credeva nella funzione rieducativa della pena, perché sapeva guardare nell’abisso con il suo animo pulito.  

Il suo sguardo sulla vita e sul lavoro divenne sempre più essenziale; si impegnava nell’associazionismo giudiziario, ma guardava alle contese, alle carriere dei colleghi con distacco e ironia, ci aiutava ad attribuire valore alle poche cose fondamentali e del lavoro custodiva il senso etico più profondo.  

Non ha mai smesso di lavorare nonostante la malattia, lenta ma inesorabile, fosse giunta negli ultimi anni a prostrarlo. Gli si prospettavano il congedo, la pensione, per preservarlo, ma lui ha sempre rifiutato ogni comoda soluzione. Ha lavorato fino all’ultimo giorno della sua vita, e nell’ultimo giorno ha ricevuto gli amici più stretti con i fascicoli sul tavolo, fascicoli che, non riuscendo più a sedere davanti allo schermo, trattava con l’aiuto della sua amata moglie Maria e del suo carissimo fratello Francesco: per Andrea dare il suo contributo come magistrato e vivere erano la stessa cosa.  

Per tutto questo Andrea lascia una traccia profonda e un esempio prezioso.  

Il male non ha vinto di Stefano Filippini  

Andrea non è riuscito a sconfiggere la malattia, ma il male non ha prevalso sul suo animo nobile.  

La mia amicizia con Andrea è nata nel 2009; in precedenza, le nostre strade si erano già incrociate più volte, di sfuggita, già ai tempi del liceo -in occasione di qualche partita di pallavolo- o a lezione all'università, come pure, dopo essere divenuti magistrati, in qualche assemblea o riunione associativa.  

Nel 2009 invece, annus horribilis per tutti coloro che, come me, vivevano a L'Aquila, la sorte mi ha inaspettatamente regalato l’opportunità di approfondire la conoscenza di Andrea, fino a stringere con lui un’amicizia che mi ha dato moltissimo.

La diaspora che ha fatto seguito al terremoto aquilano mi ha portato a Roma, mia città natale, dove, appena arrivato, ho dovuto cercare una qualche sistemazione abitativa per me e famiglia, pur non sapendo bene in quale zona stabilirmi e per quanto tempo impegnarmi: fu allora che, tramite alcuni dei tanti amici e colleghi che mi sono stati vicini in quei momenti, giunse inaspettata la generosa offerta di un aquilano (di origine) che voleva fare del bene ad altri aquilani (seppure solo di adozione); era Andrea, che disponendo di un appartamento vuoto proprio nel quartiere dove sono nato e cresciuto, lo metteva a mia completa disposizione, per tutto il tempo che mi poteva servire.

Nonostante la mia iniziale ritrosia, dettata dalla volontà di non arrecare disturbo, alla fine accettai, sfinito dalla stanchezza del peregrinare di quei momenti e convinto dalle tante insistenze di Andrea: fu da allora che entrai, a pieno, nel gruppo di coloro ai quali Andrea ha dedicato le sue attenzioni e le sue premure.

E il gesto della casa, non è certo cosa da poco: anche a prescindere dal fatto che io per lui, all’epoca, ero poco più di un estraneo, si trattava proprio dell’appartamento dove aveva vissuto suo padre, morto solo da pochi mesi a causa di un incidente stradale. Era dunque un luogo del cuore, al quale lui era particolarmente affezionato, che tuttavia non ha esitato a svuotare degli oggetti più cari per metterlo a disposizione di chi in quel momento ne aveva bisogno. 

Fu allora, in occasione di uno dei tanti trasbordi di masserizie, ai quali Andrea non si è mai sottratto, che notai una sua leggera difficoltà di movimento ad una gamba; ma alle mie domande in merito, Andrea rispondeva solo in maniera evasiva, come per pudore, o forse per proteggere gli altri dall’enorme preoccupazione che lo assillava per quella malattia terribile, difficile da sconfiggere.  

Restai solo pochi mesi a casa di Andrea, ma il rapporto tra noi si era oramai saldato: le tante conoscenze in comune a L’Aquila, la partecipazione alla vita associativa, gli interessi lavorativi condivisi, il comune sentire su molte questioni, hanno fatto da collante per un rapporto di amicizia che, nato da una occasione di mia particolare necessità, ha poi saputo crescere e svilupparsi anche tra le pieghe dell’ordinaria frenesia quotidiana.  

Pure in questa seconda fase Andrea è stato grande; anzi, sembra incredibile, è stato ancora più straordinario: nonostante il progredire della malattia e il crescere delle preoccupazioni per la sorte sua e della sua famiglia, man mano che aumentavano le limitazioni fisiche e le sofferenze, mai ha perduto le sue attenzioni verso gli altri, mai si è richiuso nel dolore, mai si è abbandonato allo sconforto o all’autocommiserazione.  

Il lavoro giudiziario, portato avanti con attenzione e coinvolgimento emotivo non comuni, ha rappresentato la sua stampella dopo essere stato la sua missione.

Le persone più care, come la moglie Maria e la figlia Raffaella, sono costantemente rimaste al centro delle sue attenzioni e dei suoi pensieri.

Ma non è mancato lo spazio per gli altri: anche quando le sue giornate erano sempre più spesso vissute solo all’interno delle mura domestiche, perché gli spostamenti erano divenuti troppo dolorosi o faticosi, mai è mancato lo sguardo all’esterno, l’interessamento per gli altri, la voglia di sapere, di essere informato, di conoscere i bisogni e le aspirazioni di tutti coloro che rappresentavano il suo mondo e le sue relazioni. E per tutti aveva una parola di comprensione, di stimolo, di conforto. Mai di astio, di invidia, di biasimo.  

Lui, che tanto avrebbe avuto bisogno del sostegno e dell’aiuto degli altri, non solo non lo cercava per sé, ma lo offriva generosamente a chi gli stava intorno. Con occhi sereni e cuore aperto, era sempre pronto a confortarti, a dare consigli, a condividere problemi; insomma, ad esserti accanto veramente.  

Tutto ciò mi pare davvero eccezionale, quasi sovrumano. Tutti noi conosciamo persone colpite dalla malattia o da disgrazie; per molte di queste, come è assolutamente comprensibile, è spesso inevitabile il chiudersi in sé stessi o il maturare sentimenti di rabbia o rancore per la salute, la felicità o  la serenità perdute.  Nulla di tutto ciò è accaduto ad Andrea, che fino all’ultimo ha saputo mostrarsi fiducioso e riservare un sorriso o una parola di comprensione per tutti coloro ai quali voleva bene.  

Questo, dunque, è stato il suo essere: forza d’animo e calma interiore, anche nelle traversie; disponibilità verso l’altro e costante ricerca di ciò che rasserena e conforta, pur quando sperare non è più concesso. Sempre con sguardo sereno e rassicurante.  

Per questo credo di non sbagliare quando mi ripeto che il male, quello interiore, quello che avvelena l’anima, quello che guasta il ricordo, su Andrea non ha vinto; e che a spuntarla sia stato, ancora una volta, il suo cuore generoso.  

Cose che restano di Dino Petralia

Ho poco o nulla da raccontare di Andrea.

Più grande di lui, d’estrazione geografica diversa e lontana, colleghi sì ma non diretti.

Eppure...eppure...ci sono cose della vita che restano al di là della frequenza del rapporto con chi le vive. Sono cose - e intendo momenti di vita - che quando accadono invitano alla benevolenza, ad una grazia esistenziale conciliante e mite.

Ebbene, conoscere Andrea mi è rimasto ed è stato un passaggio d’umanità.

Placido e istintivamente affettuoso, come fossimo amici da sempre, con un sorriso sincero e leale, pronto più all’ascolto che alla parola, Andrea mi è subito sembrato un collega splendido e peraltro in un’occasione di conoscenza densa di fugacità, di troppe persone e troppe parole.

Lo rividi anni dopo e seppi che non stava bene. Ma non riconobbi nessun segno visibile e invisibile della malattia, se non un lieve pallore, probabilmente frutto più della suggestione di chi sa che di un’effettiva compromissione del fisico.

Scambiammo convenevoli affettuosi e riavvertii quella soavità d’indole che la malattia non aveva piegato in rassegnazione o rinuncia.

Nei nostri nondetto tutta l’accorata normalità di una sottintesa consapevolezza; nei nostri brevi e gentili resoconti di vita lo sforzo di ridurre a zero la pena della sofferenza.

Ricevetti in seguito i suoi affettuosi saluti e gliene ricambiai diversi soprattutto tramite l’amico comune Nicola.

Nulla più di Andrea...e adesso il ricordo di un’illesa clemenza di sé come patto d’amicizia con la vita che gli è stata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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