Gli attori della giustizia
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La semplice verità di Michele Taruffo

La semplice verità di Michele Taruffo

di Andrea Apollonio e Carlo Vittorio Giabardo  

In questo ultimo frammento d’anno ci ha raggiunto la notizia della scomparsa del Professor Michele Taruffo; un autentico Maestro, di quelli, per davvero, in grado di fare la differenza per chi avesse avuto l’occasione, e il privilegio, di incontrarlo sulla propria strada.

Ci lega, in particolare, un ricordo molto nitido di Michele Taruffo; lo conoscevamo, ciascuno per averlo incontrato su strade diverse: ma lo incontrammo insieme, in una fredda giornata milanese del 2015, nel suo studio, dove ci siamo messi a parlare fino a perdere la cognizione del tempo. Parlammo di diritto certo - egli stava preparando una conferenza in lingua spagnola sul ruolo della verità nella transitional justice, cioè dell’importanza sociale dell’accertamento veritiero dei fatti nei momenti successivi a una dittatura, tema poco ortodosso per un processualista, ma di fondamentale importanza nel dibattito internazionale - ma anche di vita; e discorrendo con lui ci fu evidente che, tra le due cose, non vi era opposizione, ma mutuo arricchimento. Il diritto, per Michele Taruffo, non è mai stato, nemmeno per un momento, statico formalismo, vuoto dogmatismo, ma autentica esperienza piena di complessità (declinata storicamente, comparativamente, filosoficamente, politicamente, ecc.). Poi passammo nella sua abitazione, attigua, e chiacchierammo fino a sera inoltrata assieme alla Professoressa Cristina De Maglie, moglie devota e innamorata (lo erano molto, l'uno dell'altra), incontrata tempo prima nei corridoio dell'Università di Pavia.

Lo avremmo incontrato poi altre volte (a Pavia, a Girona), ma questo piccolo grande ricordo congiunto di quella giornata, terminata con un gin-tonic, che Taruffo preparava - sotto gli occhi indulgenti della moglie - in maniera eccellente, forse troppo forte, rimane speciale.

Della figura di Michele Taruffo un aspetto in particolare non ha smesso di affascinarci: la sua enorme influenza al di fuori dai confini italiani, dall’Europa, specialmente in Spagna, all’America latina intera (dove era letteralmente osannato[1]), dagli Stati Uniti (dove aveva co-autorato, tra le altre cose, un fortunato manuale di American Civil Procedure[2]) fino, ultimamente, alla Cina (dove era stato Professore presso l’Institute of Evidence Law & Forensic Science, a Pechino), egli aveva dato un contributo fondamentale alla scienza giuridica. Cosa rarissima per un giurista italiano, e doppiamente complicata per un processualista: primo, perché già di per sé il diritto, si sa, è un campo di studio inevitabilmente connesso al proprio Paese di origine, e secondo, perché – tra tutte le materie – il diritto processuale civile, avendo a che fare (nell’immaginario collettivo, certo!) con corti nazionali e prassi giudiziali, appare quella più di altre legata al proprio contesto domestico, la meno “universalizzabile” di tutte.

Ebbene: leggere Michele Taruffo, conversare con lui, ascoltarlo, aveva la stessa funzione dell’aprire una finestra e fare entrare una ventata di aria fresca e ventosa nella stanza chiusa e appesantita del diritto (processuale civile) inteso principalmente come insieme di regole tecniche e pratiche forensi. Forse i fogli ordinati sulla scrivania ne risultano scompigliati, ma almeno si respira. I problemi ai quali egli si era dedicato erano infatti slegati dal qui e ora, ma parlavano a tutti, ai giuristi di tutte le latitudini, perché toccavano i nodi cruciali del mondo della giustizia civile. Basti pensare a un “suo” tema, tra i molti, che ci ha fatto pensare, riflettere, discutere più di altri: quello della Verità (non della verità processuale, giacché non esistono più verità, ma solo una), specialmente con riferimento al ragionamento probatorio e quindi al giudizio di fatto, alle cui infinite pieghe e ai cui infiniti risvolti epistemologici, logici, e poi anche politici, Taruffo aveva dedicato praticamente tutta la sua vita. Un tema che a noi - inizialmente, digiuni - appariva semplice, e che semplice, infatti, è – come del resto Taruffo stesso ha messo in luce nel suo assai filosofico libro La semplice verità[3]– ma che, nella sua semplicità appunto, ha aperto (e ci ha aperto) un mondo. Per noi, Taruffo era, e rimarrà, il teorico della Verità.

I temi della giustizia così trattati trascendono la dicotomia processo civile/processo penale, ed è per questo che abbiamo trovato nella Sua opera un terreno comune. Quando si parla della funzione del giudicare, del giudizio inteso come attività logica, della prova nella sua dimensione epistemica, e poi del ruolo del giudice e delle corti nella società, è chiaro che la distinzione perde di importanza (d’altronde, sia in Spagna sia in molte parti dell’America latina esiste il professore di diritto processuale senza ulteriori specificazioni, proprio a indicare l’assoluta somiglianza, se non identità, di molte delle questioni che si agitano nel processo civile e in quello penale). I suoi insegnamenti, quindi, si rivolgono tanto al processualcivilista come al processualpenalista, all’accademico tanto quanto al magistrato – anzi, forse soprattutto a quest’ultimo, chiamato direttamente a compiere quei complessissimi giudizi di fatto e di diritto, la ricostruzione dei fatti di causa e l’interpretazione e applicazione del diritto, al fine di rendere una decisione giusta (non a caso, l’ultimo libro di Taruffo, pubblicato simultaneamente nel 2020 in italiano e in spagnolo, e che tratta precisamente questi temi, si intitola Verso la decisione giusta[4]).

La sua eredità, per chi lo ha conosciuto, e certamente per noi, è quindi innanzitutto metodologica. Ci ha indicato come guardare al diritto. Fare diritto processuale (ma possiamo tranquillamente generalizzare l’affermazione: studiare qualsiasi diritto) significa guardare in alto, guardare al significato profondo delle istituzioni, della loro funzione sociale così come storicamente determinatasi alla luce di una specifica tradizione storica e all’interno di certe premesse filosofiche, che devono esser indagate, rese esplicite. Diritto, tradizione, storia, cultura, filosofia, analisi del linguaggio, scienza, epistemologia, antropologia, sociologia, sono un tutt’uno, quasi un continuum che non può, né deve, essere sminuzzato. L’ambizione enorme del Giurista (sì, con la G maiuscola) è quella di guardare sempre al tutto, e non alle singole parti (come invece fa colui che Taruffo ha polemicamente chiamato il «processualista tipico», innamorato della «microesegesi» e il cui lavoro è dominato da una «maniacale analisi del dettaglio»[5]: ed egli in questo era genuinamente, e nobilmente, a-tipico).

L’autoreferenzialità è un vizio (naturale?), forse anche una tentazione, dalla quale il giurista, nel suo lavoro quotidiano, deve però cercare di fuggire con forza. E Michele Taruffo ci ha insegnato a guardare sempre alla bigger picture, alle questioni in tutta la loro ampiezza teorica, che non conosce spazi; ad aprirsi sempre e sempre di più, non incurvarsi sulla propria confort zone, non rinchiudersi dentro lo spazio artificiale della propria disciplina, o del proprio settore, o del proprio problema: e riflettere laicamente su ciò che ci circonda, magari con un gin-tonic in mano.

[1] La grandissima e inarrestabile diffusione dell’opera di Michele Taruffo nel mondo di lingua spagnola si deve, innanzitutto, alla traduzione in castigliano, nel 2002, a cura del filosofo del diritto dell’Università di Girona Jordi Ferrer Beltrán, della sua opera La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, 1992.

[2] G. Hazard – M. Taruffo, American Civil Procedure. An Introduction, Yale University Press, 1993.

[3] La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009.

[4] Giappichelli, 2020; la versione spagnola è Hacia la décision justa, Zela (Perù) 2020 (ma già in precedenza, ex multis, v. il suo Idee per una teoria della decisione giusta, in Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, 219 ss.

[5] Taruffo, L’insegnamento accademico del diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996, 551 ss.

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