GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il diario di un giudice e le riflessioni senza tempo di Dante Troisi

    Il diario di un giudice e le riflessioni senza tempo di Dante Troisi

    di Alessandro Centonze 

    Sommario: 1. Il Diario di un giudice di Dante Troisi: un classico intramontabile – 2. Una riflessione senza tempo sulla condizione professionale dei magistrati italiani – 3. Le ragioni di attualità del Diario di un giudice di fronte alla crisi epocale della magistratura italiana – 4. Lo sguardo profondo e antiretorico sulla magistratura e il pericolo incombente del conformismo giudiziario.  

    1. Il Diario di un giudice di Dante Troisi: un classico intramontabile

    Il Diario di un giudice di Dante Troisi[1] è una lettura che ha accompagnato i miei ventiquattro anni di magistratura, diventando, con il passare del tempo, una presenza costante e stimolante della mia vita professionale.

    Con quest’opera straordinaria e purtroppo poco conosciuta dai magistrati più giovani nel mio ventennio di magistratura mi sono sempre confrontato[2], ricavandone un monito indispensabile per ricordarmi quello che ogni magistrato – forse – dovrebbe fare e quello che comunque non dovrebbe mai fare; monito che mi accompagna insieme a poche altre opere letterarie – su tutte l’altrettanto straordinario Porte aperte di Leonardo Sciascia[3] – che hanno guidato il mio percorso professionale, soprattutto nei periodi di crisi epocale, come quello che il mondo della giurisdizione sta vivendo, sempre più stretto tra problemi etici, dilemmi associativi ed emergenze pandemiche[4]

    Il Diario di un giudice, al contempo, oltre a rappresentare una presenza costante della mia vita professionale, ha sempre orientato i miei comportamenti, rappresentando i microcosmi così mirabilmente descritti da Dante Troisi uno stimolo necessario per comprendere che, al di là delle pubbliche virtù tradizionalmente proclamate dai magistrati e dalla magistratura associata, talora in buona fede talaltra no, i loro vizi privati sono rimasti immutati nel tempo, allignando nei difetti e nelle debolezze degli esseri umani. Nonostante tutto, però, la magistratura ha sempre trovato al suo interno gli anticorpi per andare avanti e per reagire ai mali che, spesso, inquinano l’animo dei suoi tormentati esponenti, soprattutto quelli più smaniosi di procedere verso ambite mete direttive, prima degli altri, come che sia; mali, che, in fondo, sono quelli che albergano in tanti esseri umani: ambizione umana, conformismo sociale, carrierismo professionale.  

    2. Una riflessione senza tempo sulla condizione professionale dei magistrati italiani

    La mia scoperta del Diario di un giudice risale a oltre un ventennio addietro, quando ne acquistai una copia nell’edizione dell’Einaudi del 1997, pubblicata dopo quarantadue anni dalla sua prima edizione, che era uscita nel 1955 presso la stessa casa editrice.

    Fin dalle prime pagine del Diario, rimasi colpito dallo sguardo, apparentemente severo, con cui Dante Troisi guardava al mondo della magistratura al quale solo da poco tempo apparteneva e agli uomini che lo rappresentavano, quantomeno sotto il profilo umano, in modo del tutto inadeguato.

    Ed è per questo che, nel corso degli anni, ho riletto il Diario di un giudice diverse volte, con cadenza sostanzialmente quinquennale, e mi sono spinto, con esiti non sempre fortunati, a suggerirne la lettura a quanti, colleghi e non, operano nel mondo della giurisdizione, cercando di percorrerne le strade con serenità, con onestà e, per quanto sia possibile per un essere umano, senza ipocrisie.

    Nel frattempo, però, il Diario di un giudice, da libro di culto non molto frequentato dai magistrati della mia generazione, ha finito per diventare una sorta di classico della letteratura giudiziaria, venendo spesso accomunato a un’altra opera, forse più fortunata, come l’Elogio dei giudici scritto da un avvocato di Piero Calamandrei[5].

    La più recente fortuna dell’opera di Dante Troisi, invero, ha subito un nuovo impulso, dovuto alla sua ripubblicazione, accompagnata da un bellissimo commento del mai troppo rimpianto Andrea Camilleri, avvenuta nel 2011[6], grazie alla Casa editrice Sellerio di Palermo, che ha consentito al Diario di un giudice un periodo, per la verità non troppo lungo, di nuova popolarità.

    Dopo questo periodo di non lunghissima riscoperta, sul Diario di un giudice è tornato il silenzio, come mi è stato confermato recentemente nel corso di una conversazione da un collega, che mi ha detto di non sapere che il comico di San Giorgio a Cremano – ovvero Massimo Troisi – avesse scritto un libro così importante sulla magistratura italiana. 

    Quest’ultimo colloquio, tuttavia, ha nuovamente acceso il mio interesse per il Diario, su cui, grazie all’apertura culturale di Giustizia Insieme, sto riflettendo e di cui vorrei riproporre la lettura.  

    3. Le ragioni di attualità del Diario di un giudice di fronte alla crisi epocale della magistratura italiana

    Sorgono a questo punto due domande spontanee: cos’è veramente il Diario di un giudice e quale utilità può avere un’opera letteraria scritta negli anni Cinquanta per un magistrato dei nostri tempi, anzi di questi bruttissimi tempi?

    Il Diario di un giudice di Dante Troisi è una raccolta di racconti brevi, di vago sapore memorialistico, che descrivono l’ambiente giudiziario del Tribunale di Cassino, in cui all’inizio degli anni Cinquanta l’Autore – di origini irpine, essendo nato a Tufo nel 1920 – aveva iniziato la sua carriera di magistrato. In questo contesto giudiziario, provinciale e all’apparenza distante da quello attuale, operano i protagonisti che animano le sue trame narrative, che vengono descritte con un tono tragicomico.

    La lontananza dalle vicende, umane e professionali, descritte da Dante Troisi è però solo cronologica, perché i ritratti dei travet che animano il Diario di un giudice sono descritti con uno sguardo acuto, senza tempo, che fa dei suoi racconti uno specchio dei difetti professionali e delle debolezze umane dei magistrati, di allora come di adesso, che si sono mantenuti costanti nei decenni e che hanno fatto precipitare la magistratura nella crisi epocale che stiamo attraversando. Lo sguardo di Troisi, al contempo, pur essendo apparentemente severo, possiede connotazioni pietose ed empatiche verso gli individui che rappresentano la giurisdizione, che fanno ritenere il Diario un’opera unica nel panorama nostrano, tutt’altro che moralistica, assumendo i caratteri di una riflessione imperitura sugli uomini di giustizia; caratteri che fanno del Diario un classico insuperato della letteratura giudiziaria.

    La forza straordinaria del Diario di un giudice, a ben vedere, consiste proprio nello sguardo universale con cui Dante Troisi osserva il mondo della giurisdizione, individuandone le crepe nei difetti degli esseri umani, narrati con modalità che, nonostante i sessantacinque anni trascorsi dalla prima edizione del volume, appaiono di grande attualità e riescono a descrivere i vizi privati e le pubbliche virtù dei magistrati italiani, cogliendo entrambi nella loro intima essenza.

    Il Diario, infatti, descrive una magistratura italiana, in fondo perbene, schiacciata da una gerarchia elitaria e carrierista – non del tutto lontana da quella de Il contesto di Leonardo Sciascia[7] –, guidata da una visione burocratica della professione, ispirandosi alla quale l’intera giurisdizione, a cascata, viene travolta dalle sue debolezze umane e dalle sue ambizioni; difetti, questi ultimi, rimasti immutati nel corso degli anni e che ci rendono straordinariamente attuale l’opera di Dante Troisi.

    Non si può, invero, non rilevare che il peso della burocrazia giudiziaria, che per Dante Troisi era soprattutto un retaggio culturale ottocentesco, a partire dalla riforma ordinamentale del 2007, è andato crescendo, modificando l’antropologia dei magistrati italiani e spingendoli verso una ricerca sempre maggiore di elementi di arricchimento curriculare e di potentati associativi, che prescinde dalla qualità individuale e che porta a omologare le carriere. A ben vedere, è proprio l’analisi – essa sì impietosa – della pressione burocratica sulla magistratura, che Troisi avvertiva come il peggiore nemico del giudice e che, nell’ultimo quindicennio, si è andata accentuando, a rendere il Diario di un giudice una riflessione non solo attuale, ma come detto senza tempo, proprio come le considerazioni sciasciane di Porte aperte[8], alle quali mi sono riferito in apertura di questo breve intervento.

    Mi sono ripromesso, nell’accingermi a riparlare del Diario di Troisi, di non utilizzare un gergo per addetti ai lavori, allo scopo di non penalizzare la grandezza dell’opera letteraria su cui sto riflettendo, ma non posso non richiamare il procedimento sempre più complesso con cui, di anno in anno, vengono approvate le tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari da parte degli organismi competenti, che ci fa comprendere l’attualità dei timori del nostro Autore sulla burocratizzazione della magistratura italiana e sulla crisi di valori, ideali e professionali, che incombe sui suoi esponenti.

    In questa cornice, è bene ricordare a quanti non lo sapessero che, dopo la pubblicazione del suo Diario, Dante Troisi veniva sottoposto a un procedimento disciplinare per avere diffamato l’intero corpo giudiziario dall’allora Ministero di Grazia e Giustizia, l’onorevole Aldo Moro[9]. In quella occasione, Dante Troisi vedeva schierarsi dalla sua parte alcuni tra i più autorevoli esponenti del mondo giuridico del tempo come Arturo Carlo Jemolo[10] e soprattutto Alessandro Galante Garrone[11] – il quale ultimo lo difendeva appassionatamente nel procedimento disciplinare nel frattempo attivato nei suoi confronti –, ma non riusciva a evitare la sanzione disciplinare che, all’epoca, a molti sembrava ingiusta, ma che oggi appare addirittura inspiegabile.  

    4. Lo sguardo profondo e antiretorico sulla magistratura e il pericolo incombente del conformismo giudiziario

    A mio parere, è proprio questo approccio privo di retorica e antiburocratico a farci comprendere le ragioni della grandezza del Diario di Troisi, che costituisce una riflessione, per me insuperabile, sulla solitudine del giudice, sulle difficoltà della sua professione e sullo scollamento quasi irreversibile tra la giurisdizione, i vertici degli uffici giudiziari e i magistrati, ai quali l’Autore – consapevole del conformismo professionale che li schiaccia – guarda sempre con umana comprensione.

    Nel suo Diario, infatti, Dante Troisi descrive una magistratura, come detto perbene, ma non del tutto consapevole dei suoi doveri etici e deontologici, e non sempre capace di valutare le ragioni più profonde dei comportamenti dei suoi giudicati, essendo essenzialmente preoccupata – verrebbe da dire: allora come adesso – dai condizionamenti burocratici impostigli dai suoi vertici e dall’ordinamento giudiziario, con un approccio all’attività professionale che ha riacquistato un sapore drammaticamente attuale.

    Questo approccio, tuttavia, è privo di toni censori o dileggianti, privilegiando Dante Troisi una dimensione, etica, interiore, dei suoi ritratti giudiziari, perseguita ponendo al centro della sua riflessione, in una sorta di contrapposizione esistenziale, i magistrati e la giurisdizione, o meglio i magistrati e una burocrazia giudiziaria rigida e opprimente; oppressione che, spingendo i magistrati verso un inesorabile conformismo giudiziario, gli fa perdere il punto di riferimento, primario e insostituibile, della loro funzione: il cittadino, che è l’indagato-imputato nel processo penale e la parte privata nel processo civile.

    Sotto questo profilo, tra i tanti esemplari passaggi della narrazione del Diario, mi piace ricordare quello in cui Troisi descrive l’atteggiamento di comprensione che i magistrati dovrebbero avere nei confronti dei soggetti con cui si confrontano professionalmente: «Si dovrebbe imporre ai giudici di osservare quanto accade mentre gli altri giudici sono in camera di consiglio. Almeno una volta al mese, mescolarsi alla folla dietro la transenna, guardare gli imputati, i testimoni, gli avvocati; soprattutto guardare gli imputati quando suona il campanello che annuncia il ritorno del collegio per la lettura del dispositivo […]»[12]. E ancora: «Non dimenticheranno gli occhi sul crocefisso o sul difensore che pare possa ancora aiutarli, la mano sulla spalla della madre o della sposa, l’espressione di fiducia, di rimorso, la silenziosa promessa di ravvedimento»[13].

    Questi aspetti, a mio parere, finiscono per rendere il Diario di Troisi, a più di un cinquantennio dalla sua pubblicazione, l’opera letteraria che, con maggiore efficacia, descrive la difficoltà di esercitare la giurisdizione nella società moderna, proponendo una figura non oleografica di magistrato, che è angosciato, allora come oggi, dai risultati del suo lavoro e da una burocrazia giudiziaria che privilegia il dato quantitativo al dato qualitativo.

    Ed è proprio questo sguardo – intimistico, empatico, lungimirante – che fa del Diario di un giudice un’opera unica, differenziandola da altri, pur importanti, cimenti letterari, ai quali manca quello sguardo interiore, tipico di chi vive l’esercizio della giurisdizione non come ricerca del potere personale o del consenso sociale, perseguiti attraverso comportamenti conformistici e omologanti, ma con i tormenti tipici dell’intellettuale moderno.

    Questi tormenti, ancora oggi, non sono agevolati da un ordinamento giudiziario che tende a privilegiare gli aspetti statistici e burocratici della professione giurisdizionale, che marginalizzano le idealità e privilegiano i carrierismi, determinando, in ultima analisi, quelle storture alle quali, ormai da tempo si assiste con un senso di impotenza.

    Mi piace concludere questo accorato invito alla lettura del Diario di Dante Troisi, richiamando un passaggio nel quale si sintetizza il timore reverenziale del magistrato collocato in una posizione apicale – in questo caso il presidente del suo tribunale – di fronte alla burocrazia giudiziaria e ai suoi superiori, descritto con un’incomparabile, amara, ironia. Timore reverenziale che, nell’ultimo quindicennio, è ricomparso con rinnovato vigore negli attuali vertici giudiziari, in conseguenza dell’introduzione della procedura di conferma quadriennale da parte del Consiglio Superiore della Magistratura dei magistrati che svolgono funzioni direttive e semidirettive prevista dagli artt. 45 e 46 del d.lvo 5 aprile 2006, n. 160, già più volte modificata, nonostante la vita relativamente breve, ma travagliata, di tale testo normativo[14].

    Torna, pertanto, di attualità la riflessione letteraria di Dante Troisi e la sua visione – sicuramente universale e appunto senza tempo – del mondo della giurisdizione italiana e del suo nemico principale: il conformismo giudiziario, che è la conseguenza del rapporto ambiguo e mai del tutto risolto tra burocrazia giurisdizionale, aspirazioni professionali individuali e, nei nostri tempi, potere associativo.

    A proposito, dell’inizio di una giornata di lavoro del suo presidente, Troisi racconta magistralmente: «Appena arriva in ufficio, il presidente si precipita in cancelleria; gli tremano le mani mentre fruga nella posta per accertarsi se vi sono lettere dei “superiori”. Noi attorno gli sorvegliamo il viso e quando un afflusso di sangue gli imporpora le guance è segno che non ha trovato nulla e tira il fiato; se invece serra le mandibole e le braccia gli si irrigidiscono, vediamo le dita stringere la busta con una repulsione a stento dominata dalla riverenza: adagio adagio la cava dalle altre e dilata le narici come per fiutarne il contenuto. Vive infatti con una paura continua non già di non saper fare il giudice, ma di non riuscire in qualche cosa gradito al superiore»[15].

       

    [1] Questo intervento è dedicato all’opera D. Troisi, Diario di un giudice, Einaudi, Torino, 1955.

    Dante Troisi (1920-1989), che ne è l’Autore, è un stato un magistrato e uno scrittore italiano, che ha svolto le funzioni di magistrato, prevalentemente penale, dapprima a Cassino e successivamente a Roma; come scrittore, Dante Troisi, oltre al Diario di un giudice, ha pubblicato anche altre opere letterarie, le più note delle quali sono Id., L'odore dei cattolici, Canesi, Roma, 1963; Id., La sopravvivenza, Rusconi, Milano, 1981; Id., La finta notte, Rusconi, Milano, 1984; Id., L’Inquisitore dell’interno sediciStudio Tesi, Pordenone, 1986.  

    [2] Il mio interesse, ormai ventennale per Dante Troisi, tra l’altro, è testimoniato da un intervento di qualche addietro, come A. Centonze, La solitudine dei giudici di Dante Troisi e il peso insostenibile della burocrazia giudiziaria: lungimiranza culturale o sensibilità d’autore?, in Criminalia, 2012, pp. 685 ss.

    [3] Si veda L. Sciascia, Porte aperte, Adelphi, Milano, 1987.

    [4] Sui problemi etici e sui dilemmi associativi citati nel testo non mi sento di fornire alcuna indicazione; invece, sull’incidenza del fenomeno pandemico noto come coronavirus, tra i tanti interventi sull’argomento, mi permetto di segnalare, per la particolare acutezza delle loro analisi, gli interventi di F. Gianfilippi, Le disposizioni emergenziali del DL 17 marzo 2020, n. 18 per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia di COVID19 nel contesto penitenziario, in www.giustiziainsieme, 18 marzo 2020; e G. Santalucia, L’impatto sulla giustizia penale dell’emergenza da COVID-19: affinamenti delle contromisure legislative, in www.giustiziainsieme, 18 marzo 2020.

    [5] Ci si riferisce a P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Le Monnier, Firenze, Mondadori, 1945.

    [6] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice (1955), Sellerio, Palermo, 2012.

    [7] Ci si riferisce a L. Sciascia, Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino, 1971.

    [8] Vedi supra, nota 2.

    [9] Non mi sembra il caso di fornire alcuna indicazione su Aldo Moro, personaggio che fa parte dell’immaginario collettivo, pur se mi pareva utile citarlo come il Ministro di Grazia e Giustizia che esercitò il potere disciplinare nei confronti di Dante Troisi.

    [10] Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), di origini siciliane, è stato un giurista di formazione cattolico-liberale, che ha insegnato diritto ecclesiastico a Sassari, Bologna, Milano e Roma; è stato anche accademico dei lincei.

    [11] Alessandro Galante Garrone (1909-2003), di origini torinesi, è stato un magistrato e un professore universitario, che ha insegnato a Cagliari e a Torino; è famosa la definizione di “mite giacobino” che diede di se stesso, tra l’altro, in una bellissima autobiografia scritta in collaborazione con Paolo Borgna, un magistrato torinese.

    [12] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice, cit., pag. 77.

    [13] Si veda D. Troisi, op. ult. cit., pag. 77.

    [14] Per inquadrare questi profili ordinamentali, si rinvia al Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria approvato dal Consiglio Superiore della Magistratura con delibera del 30 luglio 2010, più volte modificato, in www.csm.it/delibere

    [15] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice, cit., pp. 52 e 53.

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