GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il mare dei diritti umani. Relazione Prof.T.Scovazzi.Gli aspetti peggiori della politica italiana in tema di migrazione irregolare via mare

    Il mare dei diritti umani. Relazione Prof.T.Scovazzi

    (atti del Convegno di Milano 4 ottobre 2019)

    Gli aspetti peggiori della politica italiana in tema di migrazione irregolare via mare

     di Tullio Scovazzi

    SOMMARIO: 1. Il viaggio. 2. Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades) 3. Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa e altri c. Italia) 4. La complicità nel respingimento verso la Libia (la regione SAR libica) 5. Considerazioni conclusive.

    1. Il viaggio
    Negli ultimi tempi troppi esseri umani hanno rischiato la loro vita per attraversare una frontiera. Sono spinti dal desiderio di vivere in un luogo dove si possano evitare persecuzioni, conflitti, povertà, disastri naturali o altre calamità. Pagano somme enormi, considerate le loro risorse, per rischiare anche la vita in un percorso che si svolge attraverso il deserto e il mare. Del viaggio conoscono l’orario di partenza, ma non quello d’arrivo. Se riuscissero ad arrivare, dovrebbero affrontare l’esistenza vulnerabile di chi si trova in una condizione di clandestinità. È troppo semplice concludere che gli emigrati clandestini sono le vittime di trafficanti senza scrupoli che lucrano sui viaggi che organizzano per migliaia di disperati. Non c’è dubbio che i trafficanti siano criminali e che nei loro confronti vadano applicate le sanzioni penali previste dal degli Stati interessati, come anche indicato dal Protocollo contro il contrabbando di migranti per terra, mare e aria (Palermo, 2000), relativo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale (Palermo, 2000) . Ma gli emigranti clandestini sono anche le vittime di una frontiera o, per essere più precisi, di chi non riesce a vedere che una frontiera e i respingimenti che ne sono la conseguenza non potranno mai essere strumenti utili a far fronte a un dramma umano collettivo che sta assumendo dimensioni sempre più imponenti .
    Perché un essere umano è disposto a pagare molte volte il prezzo di un normale biglietto per trovarsi a rischiare la propria vita e, spesso, quella della propria famiglia in un viaggio disperato? La risposta più evidente è che, essendo costretto a lasciare il proprio paese, risulta impossibile a quell’essere umano acquistare un ordinario biglietto di viaggio, in quanto l’esistenza di una frontiera gli impedisce di viaggiare in condizioni normali. Il trafficante, per quanto criminale egli sia, è un elemento naturale in una situazione complessiva dove, mentre merci e capitali passano sempre più regolarmente e liberamente le frontiere, gli esseri umani o, meglio, i più sfortunati tra di loro non lo possono fare. Le politiche di respingimento in mare di tanto in tanto adottate dall’Italia, dimostrano quanto sia assurdo pensare di far fronte a un dramma umano collettivo mediante una frontiera, quanto sia indegno accanirsi contro i più deboli e, per chi resta comunque attaccato a concezioni utilitaristiche, quanto sia improduttivo condannare al rischio di morte centinaia di migliaia di esseri umani intelligenti e intraprendenti.

    2. Le manovre cinematiche d’interposizione (Kater i Rades)
        Si pensava tempo fa in Italia che, per respingere i migranti irregolari che cercano di arrivare via mare, fosse necessaria un’azione coercitiva di blocco e dirottamento affidata a unità della Marina Militare. Proprio una simile concezione ha determinato la sorte dei migranti albanesi che sono rimasti uccisi a seguito della collisione tra la corvetta italiana Sibilla e la nave priva di bandiera Kater i Rades A-451 . Le vittime morirono a causa di qualcosa che risponde a un nome misterioso: le manovre cinematiche d’interposizione. L’incidente avvenne nel 1997, a circa 35 miglia nautiche da Brindisi e, quindi, in alto mare. In quel periodo una grave crisi economica aveva colpito l’Albania e molti albanesi cercavano di emigrare clandestinamente all’estero, in particolare in Italia, nella speranza di trovare un futuro migliore, servendosi di natanti che prendevano il mare in assenza delle minime condizioni di sicurezza. Le cause sull’incidente sono state accertate nelle sentenze penali italiane che hanno trattato del caso (Tribunale di Brindisi del 19 marzo 2005; Corte d’Appello di Lecce del 29 giugno 2011) e che hanno visto come imputati il comandante della Sibilla e il capitano-timoniere della Kater i Rades. È utile ricordare qui di seguito l’agghiacciante sequenza dei dati di fatto accertati nelle sentenze, anche a seguito del recupero del relitto della Kater i Rades e della consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero :
        - al comandante della Sibilla erano state impartite dai superiori direttive che gli ordinavano di svolgere “manovre cinematiche d’interposizione” (o d’interdizione) al fine di far desistere i natanti carichi di clandestini dalla navigazione verso le coste italiane; queste manovre rientrano tra le pratiche dirette a creare intralcio ai movimenti di un’altra nave, dette anche manovre di harassment (in italiano: disturbo intenzionale), termine utilizzato in ambito NATO (North Atlantic Treaty Organization) per indicare l’azione condotta da una nave per impedire, limitare o disturbare l’azione di un’altra nave.
        - l’incidente avvenne alle 18,57 del 28 marzo 1997, in condizioni d’oscurità;
        - al momento dell’incidente il mare era vicino a forza 3, una situazione non gravosa per la Sibilla, ma certamente impegnativa per la motovedetta albanese, che aveva moti di deriva e imbardata abbastanza vistosi e, quindi, spostamenti orizzontali della poppa e della prua di ampiezza non normale;
        - la Sibilla è una corvetta di 87 m di lunghezza e 10 m di larghezza, con dislocamento di 1285 t, mentre la Kater i Rades era lunga 21,5 m e larga 3,5 m, con dislocamento di 56 t; la prima nave era quindi 4,2 volte più grande della seconda e i dislocamenti erano in rapporto di 38 a 1;
        - la Kater i Rades, che era stata frettolosamente rimessa in mare da persone non esperte pochi giorni prima dell’incidente, non era una nave progettata e realizzata per il trasporto di passeggeri e, in condizioni normali, era dotata di un equipaggio di nove unità;     - la Kater i Rades aveva preso il largo da Valona con un equipaggio composto di soli due membri (il comandante-timoniere e il motorista);
        - la Sibilla era subentrata nelle manovre di dissuasione a un’altra e più grossa nave della Marina italiana (la fregata Zeffiro), in quanto la Kater i Rades si dimostrava molto manovriera e poneva in essere rapide contromanovre evasive;     - alle 18 il Dipartimento militare marittimo “Ionio e Canale d’Otranto” di Taranto aveva comunicato alla Sibilla che, qualora le azioni d’intimidazione non avessero avuto effetto, si sarebbe dovuto procedere a bloccare la Kater i Rades e a rimorchiarla sotto scorta verso le coste albanesi;
        - alla stessa ora la Sibilla aveva posto in essere una prima manovra di disturbo intenzionale, raggiungendo da poppa la Kater i Rades, mantenendo con essa una distanza laterale di circa 50 m e intimandole con altoparlanti di fermarsi;
        - in risposta a tale manovra la Kater i Rades aveva compiuto un’improvvisa virata passando di prua alla Sibilla;
        - presumibilmente al fine di bloccare la Kater i Rades, il comandante della Sibilla, intorno alle 18,40, aveva impartito l’ordine di filare un cavo in mare per impigliare le eliche dei motori della motovedetta albanese; il cavo era stato calato in mare per 10-15 m, ma era poi stato recuperato a seguito di un contrordine;     - era stata poi la Sibilla ad avvicinarsi alla Kater i Rades fino a una distanza non di sicurezza, in quanto il comandante della nave italiana era intenzionato a svolgere un’azione di disturbo intenzionale con la massima consentita determinazione;
        -  la Kater i Rades trasportava 100-120 persone ed era priva di mezzi individuali (salvagenti o giubbotti) e collettivi (scialuppe o zattere gonfiabili) di salvataggio;
        - la distanza ravvicinata consentiva ai militari italiani di vedere che la vedetta albanese era priva di tali dispositivi e che la stessa trasportava anche donne e bambini;
        - la Sibilla aveva raggiunto di nuovo da poppa la Kater i Rades e aveva iniziato a sorpassarla, avendola alla sua sinistra a una distanza ridottissima;
        - le persone che erano sul ponte della piccola nave avevano avvertito il pericolo e si erano spostate sul lato sinistro della nave, il meno vicino alla nave militare italiana;
        - le manovre cinematiche d’interposizione della Sibilla “ben poterono consistere nel tenere una rotta rettilinea ma convergente, finalizzata quanto meno ad affiancarsi pericolosamente alla motovedetta, smuovendo le onde in sua direzione, tenuto conto dell’enorme differenza di massa e, quindi, di dislocamento esistente fra le due unità, sì da indurla ad arrestarsi” ;
        - il comandante-timoniere della Kater i Rades, “scorgendo la corvetta avvicinarsi paurosamente e nel tentativo di sottrarsi a un ingaggio così stretto, manovrò per far evoluire la nave a sinistra ed allontanarsi dalla corvetta, come impone di ritenere la più volte richiamata circostanza che i due timoni della motovedetta furono rinvenuti ruotati di 27°” ;     - “purtroppo, durante la ‘fase di manovra’, quindi mentre la piccola nave subiva lo sbandamento dovuto al fenomeno del c.d. ‘saluto’, il moto ondoso creò una imbardata ed una deriva della poppa della A-451 che portano questa rapidamente verso il lato sinistro della prua della corvetta” ;
        - “il comandante F. L., realizzato l’imminente pericolo, ordinò “pari indietro tutta” nella speranza di riuscire ad evitare il contatto tra le due navi o, comunque, di ridurne le conseguenze, ma la manovra fu inutile per la esigua distanza laterale tra le stesse” ;
        - alle 18,57 vi fu un primo urto strisciante tra le due navi, che intervenne tra l’estrema prua della Sibilla e l’estrema poppa della Kater i Rades;
        - al momento dell’urto la velocità della Sibilla era di circa 10 nodi, leggermente superiore a quella della Kater i Rades, di poco inferiore ai 10 nodi;
        - sulla Sibilla si avvertì “solo il rumore sordo di un tonfo”; la Kater i Rades, già inclinata di alcuni gradi sul lato sinistro (sia per effetto dello sbandamento di saluto sia perché le persone si erano spostate sul lato sinistro del ponte), fu sospinta ad inclinarsi ulteriormente a sinistra ed a ruotare intorno all’asse verticale in modo da portare la poppa al largo e la prua verso la corvetta;
        - questa rotazione portò la Kater i Rades davanti alla prua della Sibilla e si determinò così un secondo urto tra le prue delle due navi, che “ebbe conseguenze più gravi del primo per la Kater i Rades, che sbandò ulteriormente e rapidamente sul lato sinistro (tanto da consentire all’acqua di entrare da alcuni oblò)” ;
        - subito dopo “la corvetta fu nuovamente sulla piccola nave, ormai inclinata trasversalmente di circa 80°, colpendola con la parte bassa del dritto di prua” ;
        - dopo il primo e soprattutto dopo il secondo urto le persone che erano sul ponte furono scaraventate contro l’impavesato e caddero in mare; “mentre per quelle, numerose, che si trovavano nelle tre cabine, il secondo urto ebbe effetti catastrofici: ancora pochi istanti e la motovedetta A-451 si inabissò con il suo carico di corpi inanimati” ;
        - immediate furono le operazioni di soccorso ai superstiti da parte dell’equipaggio della Sibilla e di altre unità;
        - restarono uccisi nell’incidente 58 cittadini albanesi, numero corrispondente a quello dei corpi recuperati, “pur essendo ragionevole assumere, anche in difetto di un elenco affidabile dei soggetti imbarcati, che il numero reale delle vittime sia senz’altro superiore” .
        In presenza di una tale sequenza di eventi, il Tribunale di Brindisi giunse alla conclusione che “la collisione fu dunque il risultato delle condotte colpose dei due comandanti delle navi interessate al sinistro”, stabilendo il concorso di colpa nella misura del 60% per F. L. (il comandante della Sibilla) e del 40% per X. N. (il conducente della Kater i Rades). Il Tribunale di Brindisi condannò F. L. alla pena di tre anni di reclusione e X. N. alla pena di quattro anni di reclusione, entrambi per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. In appello fu confermata la sentenza di primo grado, ad eccezione della ripartizione del concorso di colpa tra i due imputati, modificata al 50%. La pena fu ridotta a tre anni e dieci mesi per X. N., essendo il reato di lesioni colpose caduto in prescrizione, e a due anni e quattro mesi per F. L., per lo stesso motivo e per la concessione delle attenuanti generiche, che erano state negate in primo grado. La Corte di Cassazione, con sentenza del 10 giugno 2014, n. 24527, rigettò i ricorsi presentati dai due imputati e dal responsabile civile (il Ministero della Difesa), rideterminando però la pena in tre anni e sei mesi per X. N. e in due anni per F. L., a seguito dell’intervenuta prescrizione anche del reato di omicidio colposo. Non è possibile entrare in questa sede nelle complesse questioni relative al risarcimento dei danni subiti dalle numerose parti civili costituite in giudizio, danni che furono posti a carico di F. L. e, in solido, del responsabile civile.
        Nel caso della collisione tra la Sibilla e la Kater i Rades i dati di fatto sono più significativi delle norme giuridiche applicabili, ivi comprese le norme di diritto internazionale sulla prevenzione delle collisioni in mare. Proprio i dati di fatto rivelano un insieme inaudito di aggressività e di irresponsabilità da parte degli organi di Stato italiano coinvolti nell’incidente. Le “manovre cinematiche d’interposizione” – un’espressione che maschera il semplice concetto “ci è venuta addosso”, espresso più volte dai testimoni albanesi  – sono tratte dalle “Regole d’ingaggio per le forze NATO che operano in ambiente marittimo”. La NATO è un’alleanza politico-militare istituita con un trattato concluso a Washington nel 1949 e avente il principale obiettivo di far fronte a un attacco armato che uno Stato terzo porti contro uno Stato membro dell’alleanza. Una nave malandata e carica all’inverosimile di uomini, donne e bambini può mai essere equiparata a un mezzo impegnato in un attacco armato e fronteggiata con strumenti di natura militare, come un blocco navale con conseguenti manovre di dirottamento? Evidentemente, no; ma, purtroppo, sì, secondo quanto credevano i politici e i militari italiani che avevano immaginato e attuato la pratica del dirottamento in mare contro i migranti clandestini.
        I dati raccolti nei procedimenti sull’incidente della Kater i Rades mostrano come le autorità italiane che dirigevano le operazioni delle navi militari agissero in un’“atmosfera di forte tensione” e tramite “concitate direttive” . Risulta pure “che erano state disposizioni alla nave Zeffiro “di fare un’azione più decisa, affiancando fino a toccare”  e che “appare del tutto impensabile (…) che lo stesso ordine non sia stato poi ‘girato’ dalla Zeffiro alla Sibilla, che ad essa era pacificamente subentrata nel tentativo di interrompere la marcia di avvicinamento all’Italia della Kater i Rades” . A un esperto di diritto penale le parole “affiancando fino a toccare” evocherebbero il concetto di dolo eventuale, che si ha quando l’agente si rappresenta e accetta la possibilità che l’evento si verifichi.
        Spiace che le sentenze sull’incidente della Kater i Rades, per quanto esemplari per l’accurata ricostruzione dei fatti, non abbiano potuto accertare anche l’eventuale responsabilità di coloro che avevano dato l’ordine di effettuare le “manovre cinematiche d’interposizione” . Questo anche perché il filmato che documentava le fasi dell’ingaggio tra le due navi s’interrompeva inspiegabilmente , le bobine contenenti le registrazioni radio tra le navi e tra le navi e i comandi riproducevano conversazioni scarsamente intellegibili  e l’imputato F. L. si era avvalso della facoltà di non rispondere alle domande del pubblico ministero .
    Le conclusioni da trarre dal naufragio della Kater i Rades devono essere chiare, come esige il rispetto dovuto alla memoria delle vittime, uomini, donne e bambini che cercavano un luogo dove vivere una vita decente e hanno invece trovato la morte sul fondo del mare. È una vergogna per l’Italia che il dirottamento in mare sia stato concepito come uno strumento adatto a far fronte a un dramma umano collettivo, come era l’emigrazione di massa dall’Albania; ed è una vergogna per l’Italia aver adottato a tal fine la pratica delle manovre cinematiche d’interposizione. Le battaglie navali vanno combattute contro nemici ben diversi da coloro che si trovavano a bordo della Kater i Rades.

    3. Il respingimento diretto verso la Libia (Hirsi Jamaa e altri c. Italia)
        Se le manovre cinematiche d’interposizione non sono attuabili, i migranti irregolari possono essere respinti in un altro modo? Si può, invece di usare la forza, approfittare delle norme sull’obbligo di soccorso di chi è in pericolo in mare  per respingere forzatamente coloro che sono stati soccorsi? Un simile tentativo è stato fatto dall’Italia nel 2009 con una serie di respingimenti di migranti irregolari verso la Libia, il paese di transito dal quale essi si erano imbarcati per attraversare il Mediterraneo. È utile considerare qual era il quadro delle norme di diritto internazionale applicabili al riguardo.
        L’obbligo di soccorrere chi è in pericolo, che discende da antiche consuetudini marinare, è oggi previsto dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982) e vincola tutte le navi, siano esse pubbliche o private, che siano in grado di farlo senza incorrere esse stesse in grave pericolo. Specifiche norme in proposito si trovano nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (Londra, 1979; emendata nel 1998 e 2004 ), che pone a carico delle parti l’obbligo di fornire assistenza alle persone in pericolo in mare . Gli obblighi delle parti non si limitano a salvare le persone in pericolo, ma comprendono anche la consegna di tali persone in un “luogo sicuro” (place of safety), come conferma la definizione di “soccorso”:  
         “‘Rescue’. An operation to retrieve persons in distress, provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety” (allegato, cap. 1.3.2).
     È un dato di fatto che, una volta soccorse da una nave, le persone tratte in salvo, compresi i migranti irregolari, non si smaterializzano, ma devono essere sbarcate da qualche parte. Purtroppo, la Conv. SAR, nonostante i suoi emendamenti e nonostante le indicazioni (non vincolanti) date dalle Linee-guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato sulla sicurezza marittima dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), non fornisce indicazioni precise su come determinare il luogo sicuro. Si tratta di una grave carenza della Conv. SAR, che dimostra la riluttanza degli Stati ad assumere chiari impegni quando il tema dell’immigrazione irregolare entra in gioco. Tale carenza ha portato a ben note situazioni di protratto divieto di sbarco, come dimostrano i casi della nave norvegese Tampa, che riguardava l’Australia , della nave tedesca Cap Anamour, che riguardava Italia e Malta , o di altre navi che di recente sono restate in attesa di entrare in porti italiani. Resta però il fatto che gli individui che si trovino in situazione di pericolo in mare hanno diritto di essere soccorsi e di essere trasportati in un luogo sicuro, per quanto difficile possa essere, in certi casi, la determinazione dello stesso. È soltanto in tale luogo che si potrà stabilire con precisione chi sono e che cosa intendevano fare gli individui soccorsi (siano essi emigranti irregolari oppure marinai professionisti, terroristi oppure diportisti). Circa il diritto di migrare, l’art. 13, par. 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, stabilisce che ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio . Lo stesso diritto è previsto nell’art. 12, par. 2, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) . Il diritto umano di emigrare è però un diritto asimmetrico, nel senso che esso non si accompagna a un corrispondente diritto umano di immigrare. Secondo il diritto internazionale consuetudinario e a meno che disposizioni di trattati prevedano diversamente, ogni Stato ha il diritto sovrano di consentire o di vietare agli stranieri di entrare nel proprio territorio. All’ovvia domanda “se non è ammesso in alcuno Stato, dove avrà diritto di stabilirsi il migrante?” si possono dare risposte in concreto poco soddisfacenti, come “in alto mare”, “nel settore antartico non rivendicato da alcuno Stato” o “sulla Luna o sugli altri corpi celesti”.
    Vi sono però alcuni limiti al diritto di uno Stato di respingere coloro che volessero entrare nel suo territorio. Un primo limite deriva dal diritto umano a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni disumani o degradanti. Questo diritto è previsto, per richiamare trattati di cui l’Italia è parte, dall’art. 3 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Roma, 1950; detta Convenzione europea dei diritti umani ), dall’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) e dalla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti (New York, 1984) .
    L’individuo è protetto dalla tortura anche in modo indiretto, in quanto il diritto internazionale vieta allo Stato di estradare, espellere o comunque respingere una persona verso un altro Stato dove sussista un fondato rischio che essa sia sottoposta a tortura. Questa norma è chiaramente espressa nell’art. 3 della Convenzione contro la tortura  ed è stata affermata in molte decisioni di corti internazionali competenti in tema di diritti umani . Ne consegue che i migranti irregolari, come tutti gli altri esseri umani, non possono essere respinti verso uno Stato dove corrano il fondato rischio di essere torturati, anche se questo Stato è quello di cui essi sono cittadini o dove hanno la residenza o da dove sono partiti nel loro viaggio.
    Un secondo limite è collegato alla condizione di rifugiato, regolata dalla Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Ginevra, 1951) , di cui l’Italia è parte, e dalle norme rilevanti dei diritti interni . Essere un rifugiato è un dato di fatto, che non dipende da un riconoscimento da parte di un’autorità e che, in base all’art. 1, par. A.2, Conv. Rif., caratterizza un individuo che, trovandosi al di fuori del paese di cui è cittadino, abbia il fondato timore di essere perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità appartenenza a un particolare gruppo sociale od opinione politica. Come è facile notare, la definizione non include le persone che intendono fuggire da conflitti, internazionali o interni, da disastri naturali o dalla povertà, che sono invece la maggior parte degli attuali migranti irregolari. La Conv. Rif. non attribuisce al rifugiato il diritto di ricevere asilo sul territorio di uno Stato parte. Al rifugiato è soltanto dato il diritto di non essere respinto verso uno Stato, compreso il proprio, dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per una serie di specifiche ragioni (diritto di non-refoulement, secondo l’espressione francese comunamente usata) . Tuttavia, benché la Conv. Rif. non sia chiara in proposito, si può considerare implicito che un rifugiato che si presenta a un agente di uno Stato parte abbia il diritto di sottoporre una domanda d’asilo e di vederla esaminata in modo efficiente ed equo . Questo diritto spetta anche ai rifugiati che si trovano in alto mare. Ne consegue il fondato timore che le misure di respingimento poste in essere in mare, non distinguendo tra rifugiati e migranti irregolari, abbiano di fatto il risultato di impedire a un rifugiato di presentare una domanda d’asilo .
        L’illegalità delle misure di respingimento italiane del 2009 è stata posta in evidenza dalla sentenza del 23 febbraio 2012 della Corte Europea dei Diritti Umani (Grande Camera) sul caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia. Il ricorso era proposto da undici somali e tredici eritrei  che facevano parte di un gruppo di circa duecento migranti soccorsi in mare da navi di Stato italiane, presi a bordo e trasportati forzatamente verso la Libia. I ricorrenti sostenevano che erano state violate alcune disposizioni della Conv. Eur. Dir. Um., tra le quali l’art. 3 (tortura) e l’art. 4 (divieto di espulsioni collettive di stranieri) del Protocollo n. 4.
    La Corte muove dalla premessa che la Conv. Eur. Dir. Um. si applica anche in alto mare, che non può essere considerato uno spazio al di fuori della legge: “(…) as regards the exercise by a State of its jurisdiction on the high seas, the Court has already stated that the special nature of the maritime environment cannot justify an area outside the law where individuals are covered by no legal system capable of affording them enjoyment of the rights and guarantees protected by the Convention which the States have undertaken to secure to everyone within their jurisdiction” .     Conseguentemente, la Corte precisa che le operazioni d’intercettazione devono essere svolte in conformità con gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um.:
    “Having regard to the foregoing, the Court considers that the removal of aliens carried out in the context of interceptions on the high seas by the authorities of a State in the exercise of their sovereign authority, the effect of which is to prevent migrants from reaching the borders of the State or even to push them back to another State, constitutes an exercise of jurisdiction within the meaning of Article 1 of the Convention which engages the responsibility of the State in question under Article 4 of Protocol No. 4” .
    La Corte segnala che gli obblighi derivanti dalla Conv. Eur. Dir. Um. non possono essere violati per dare esecuzione a trattati bilaterali che l’Italia aveva o avrebbe concluso con la Libia in tema di lotta all’immigrazione clandestina : “Italy cannot evade its own responsibility by relying on its obligations arising out of bilateral agreements with Libya. Even if it were to be assumed that those agreements made express provision for the return to Libya of migrants intercepted on the high seas, the Contracting States’ responsibility continues even after their having entered into treaty commitments subsequent to the entry into force of the Convention or its Protocols in respect of these States” .
    Sul merito, la Corte conclude all’unanimità che l’Italia era responsabile di una violazione dell’art. 3 della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto, respingendo i migranti, li aveva esposti al rischio di essere sottoposti a tortura o a trattamenti disumani o degradanti in Libia o nei loro paesi d’origine:
    “During the period in question no rule governing the protection of refugees was complied with by Libya. Any person entering the country by illegal means was deemed to be clandestine and no distinction was made between irregular migrants and asylum seekers. Consequently, those persons were systematically arrested and detained in conditions that outside visitors, such as delegations from the UNHCR, Human Rights Watch and Amnesty International, could only describe as inhuman. Many cases of torture, poor hygiene conditions and lack of appropriate medical care were denounced by all the observers. Clandestine migrants were at risk of being returned to their countries of origin at any time and, if they managed to regain their freedom, were subjected to particularly precarious living conditions as a result of their irregular situation. Irregular immigrants, such as the applicants, were destined to occupy a marginal and isolated position in Libyan society, rendering them extremely vulnerable to xenophobic and racist acts” .
    “(…) according to the UNHCR and Human Rights Watch, individuals forcibly repatriated to Eritrea face being tortured and detained in inhuman conditions merely for having left the country irregularly. As regards Somalia, in the recent case of Sufi and Elmi (…) the Court noted the serious levels of violence in Mogadishu and the increased risk to persons returned to that country of being forced either to transit through areas affected by the armed conflict or to seek refuge in camps for displaced persons or refugees, where living conditions were appalling” . La situazione di violazione dei diritti umani esistente in Libia era ben nota alle autorità italiane e poteva comunque essere da queste facilmente verificata sulla base di multiple fonti .  
        Secondo la Corte, indipendentemente dal fatto che un’intenzione di chiedere asilo fosse stata manifestata dai ricorrenti (una circostanza che era in contestazione tra le parti), l’Italia aveva l’obbligo di non respingere i migranti verso la Libia:
    “In any event, the Court considers that it was for the national authorities, faced with a situation in which human rights were being systematically violated, as described above, to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return (…) Having regard to the circumstances of the case, the fact that the parties concerned had failed to expressly request asylum did not exempt Italy from fulfilling its obligations under Article 3” .
    La Corte accerta anche che l’Italia era responsabile di una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Conv. Eur. Dir. Um., che vieta le espulsioni collettive di stranieri. In particolare, la Corte respinge l’argomento formalistico avanzato dall’Italia, secondo il quale un’espulsione può avere luogo soltanto se gli stranieri sono già sul territorio nazionale. Dopo avere notato che l’art. 4 non usa la parola “territorio” , la Corte interpreta la Conv. Eur. Dir. Um. e il Protocollo in un modo che “renda le garanzie pratiche ed effettive e non teoriche e illusorie” , mostrando la dovuta attenzione per la situazione dei migranti che rischiano la loro vita in mare:
    “The Court has already found that, according to the established case law of the Commission and of the Court, the purpose of Article 4 of Protocol No. 4 is to prevent States being able to remove certain aliens without examining their personal circumstances and, consequently, without enabling them to put forward their arguments against the measure taken by the relevant authority. If, therefore, Article 4 of Protocol No. 4 were to apply only to collective expulsions from the national territory of the States Parties to the Convention, a significant component of contemporary migratory patterns would not fall within the ambit of that provision, notwithstanding the fact that the conduct it is intended to prohibit can occur outside national territory and in particular, as in the instant case, on the high seas. Article 4 would thus be ineffective in practice with regard to such situations, which, however, are on the increase. The consequence of that would be that migrants having taken to the sea, often risking their lives, and not having managed to reach the borders of a State, would not be entitled to an examination of their personal circumstances before being expelled, unlike those travelling by land” .     Infine la Corte conclude che vi era stata una violazione dell’art. 13 (diritto a un rimedio effettivo) della Conv. Eur. Dir. Um., in quanto i ricorrenti erano stati privati di ogni possibilità di presentare un ricorso effettivo a un’autorità competente, prima che la misura del respingimento fosse eseguita .

    4. La complicità nel respingimento verso la Libia (la regione SAR libica)
        Se non sono attuabili né le manovre cinematiche d’interposizione, né i respingimenti diretti verso la Libia, i migranti irregolari possono essere respinti in modo indiretto? Si può far in modo che un altro Stato faccia quello che l’Italia non può fare personalmente, vale a dire respingere forzatamente verso la Libia coloro che sono stati soccorsi?
        La già ricordata Conv. SAR  prevede che gli Stati parte si dotino di un servizio di ricerca e soccorso in mare che abbia alcuni requisiti fondamentali  e che essi istituiscano, individualmente o in cooperazione con altri Stati, delle regioni di ricerca e soccorso (regioni SAR), al fine di assicurare l’appropriato coordinamento operativo per svolgere effettivamente tale servizio . La regione SAR è intesa come “un’area di dimensioni definite associata a un centro di coordinamento del soccorso entro la quale sono forniti servizi di ricerca e di soccorso” (cap. 1.3.4 dell’allegato alla Conv. SAR) . Tale centro ha la responsabilità di promuovere l’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e soccorso e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso in una determinata regione SAR (cap. 1.3.5 All. Conv. SAR). Lo Stato che ha istituito la regione SAR non ha il monopolio delle attività di ricerca e di soccorso, ma è soltanto chiamato a gestire, tramite il proprio centro di coordinamento del soccorso, le comunicazioni con le persone in pericolo, con i mezzi di ricerca e soccorso e con altri centri di coordinamento (cap. 2.3.2 All. Conv. SAR). Nulla esclude che, se questo renda più efficaci le operazioni, debbano venire impiegati nelle attività di ricerca e di soccorso nella regione SAR di un determinato Stato i mezzi di altri Stati o navi private che si trovino nelle vicinanze delle persone in pericolo.     
    È evidente che, se anche fosse istituita una regione SAR della Libia e fosse stabilito un centro di libico di coordinamento del soccorso, le persone soccorse non potrebbero essere sbarcate in Libia, perché tale Stato, come già messo in evidenza , non costituisce il “luogo sicuro” dove il soccorso deve avere termine. Per quanto indeterminabile a priori sia tale luogo sicuro, vi è certezza che esso non può essere collocato in Libia, almeno fino a quando la presente situazione di conflitto interno e di gravi violazioni dei diritti umani persista in quel paese.
        Risulta invece che il 10 luglio 2017 proprio la Libia ha comunicato all’IMO di aver istituito una propria regione SAR, di estensione assai ampia, delegando a Malta le attività che ivi si sarebbero esercitate, “data la presente mancanza di risorse e di attrezzature” . Tuttavia, il 6 dicembre 2017 questa dichiarazione era dalla Libia formalmente ritirata. Pochi giorni dopo, il 14 dicembre 2017, la Libia depositava una terza dichiarazione, con la quale veniva di nuovo dato conto dell’istituzione di una regione SAR libica, senza più alcuna delega a Malta, e venivano ampliate le coordinate geografiche di tale regione rispetto a quanto risultava dalla prima dichiarazione. Tuttavia, soltanto in un momento successivo, collocabile tra fine giugno e inizio luglio 2018, l’IMO rendeva disponibili gli indispensabili dati (indirizzo, numero di telefono, numero di facsimile e indirizzo di posta elettronica) del centro di coordinamento libico.
        Ci si può chiedere perché le autorità di uno Stato che sono in grado di esercitare il loro potere soltanto in una parte ridotta del territorio nazionale, in quanto il paese è devastato da un conflitto interno, si preoccupino di istituire un apparentemente efficiente sistema di ricerca e soccorso in mare che, in concreto, dovrebbe tutelare i migranti irregolari stranieri che transitano nel paese stesso per raggiungere altri paesi, come l’Italia. Una risposta plausibile è che il tutto avvenga perché tali autorità ricevono a tal fine finanziamenti da qualcun altro e, in particolare, da chi, vale a dire l’Italia, ha concluso con la Libia il 2 febbraio 2017 un Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere .     Il memorandum prevede che l’Italia s’impegni a finanziare un’ampia serie d’iniziative (sostegno alle istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali; fornitura di supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, in particolare la Guardia di frontiera e la Guardia costiera; completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del Sud della Libia; adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza temporanei di migranti in Libia; sostegno alle organizzazioni internazionali presenti in Libia per sforzi miranti al rientro dei migranti nei paesi d’origine; avvio di programmi di sviluppo nelle regioni libiche colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale; altre iniziative proposte da un comitato misto istituito dal memorandum), tramite fondi nazionali e fondi disponibili dall’Unione europea . In esecuzione del memorandum stesso, è stato emanato il decreto-legge 10 luglio 2018, n. 84, convertito nella legge 9 agosto 2018, n. 98 , con il quale si dispone, tra l’altro, la cessione gratuita alla Libia di fino a un massimo di dodici unità navali già in dotazione a corpi militari italiani (Corpo delle Capitanerie di Porto e Guardia di Finanza) e si autorizzano le spese per il ripristino dell’efficienza delle stesse, al fine di incrementare la capacità operativa della Guardia costiera libica nelle attività di controllo e sicurezza rivolte al contrasto  e al traffico di esseri umani, nonché nelle attività di soccorso in mare.
        È chiaro che simili finanziamenti da parte dell’Italia e, indirettamente, dell’Unione europea sarebbero una lodevole iniziativa, se avessero l’obiettivo di prestare soccorso a coloro che si trovano in pericolo in mare, al fine di poterli poi sbarcare in un luogo sicuro. Sarebbero, invece, la ripetizione di un grave illecito internazionale se avessero il fine di facilitare il respingimento verso la Libia dei migranti irregolari, con le conseguenti gravi violazioni dei diritti umani che ne conseguono , contrabbandando la falsa supposizione che, nella neo-istituita regione SAR libica, il soccorso-respingimento possa essere svolto soltanto dalle unità libiche e precludendo di fatto attività di ricerca e soccorso da parte di navi che non fossero disponibili a riportare i migranti sul territorio libico. Come prevede un principio generale di diritto, che è ripreso anche nel diritto internazionale generale  e che dovrebbe essere conosciuto anche dall’Italia e dall’Unione europea, chi consapevolmente assiste un altro soggetto nel compimento di un illecito risponde dello stesso illecito compiuto (rapporto di complicità in un illecito).
        Quale sia in concreto il destino dei migranti irregolari che si trovano in Libia era già chiaro a seguito della richiamata sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia  ed è stato ulteriormente confermato da molti documenti, come un rapporto pubblicato il 20 dicembre 2018 da due agenzie delle Nazioni Unite. Si tratta di una serie di “orrori inimmaginabili”:
    “Migrants and refugees suffer unimaginable horrors during their transit through and stay in Libya. From the moment they step onto Libyan soil, they become vulnerable to unlawful killings, torture and other ill-treatment, arbitrary detention and unlawful deprivation of liberty, rape and other forms of sexual and gender-based violence, slavery and forced labour, extortion and exploitation by both State and non-State actors” .     Un simile situazione, caratterizzata dagli abusi commessi indistintamente da bande di criminali, gruppi armati o agenti di Stato, è facilitata dalla certezza dell’impunità derivante da anni di conflitto interno e vede i migranti irregolari privi di qualsiasi difesa:
    “Years of armed conflict and political divisions have weakened Libyan institutions, including the judiciary, which have been unable, if not unwilling, to address the plethora of abuses and violations committed against migrants and refugees by smugglers, traffickers, members of armed groups and State officials, with near total impunity. (…) This climate of lawlessness provides fertile ground for thriving illicit activities, such as trafficking in human beings and criminal smuggling, and leaves migrant and refugee men, women and children at the mercy of countless predators who view them as commodities to be exploited and extorted for maximum financial gain. Abuses against SubSaharan migrants and refugees, in particular, are compounded by the failure of the Libyan authorities to address racism, racial discrimination and xenophobia” .
        Considerato anche che il diritto della Libia non prevede l’asilo e criminalizza l’entrata irregolare nel territorio nazionale, i migranti sono di fatto detenuti indefinitamente senza processo in centri di raccolta, dove essi subiscono condizioni di detenzione disumane per sovraffollamento, malnutrizione e condizioni igieniche e sanitarie, oltre ad essere vittime di facili ricatti (tipiche sono le torture, anche mortali, per estorcere denaro ai familiari dei reclusi):
    “They are systematically held captive in abusive conditions, including starvation, severe beatings, burning with hot metals, electrocution, and sexual abuses of women and girls, with the aim of extorting money from their families through a complex system of money transfers, extending to a number of countries. They are frequently sold from one criminal gang to another and required to pay ransoms multiple times before being set free or taken to coastal areas to await the Mediterranean Sea crossing. The overwhelming majority of women and older teenage girls interviewed by UNSMIL [= United Nations Support Mission in Libya] reported being gang raped by smugglers or traffickers or witnessing others being taken out of collective accommodations to be abused. Younger women travelling without male relatives are also particularly vulnerable to being forced into prostitution. Countless migrants and refugees lost their lives during captivity by smugglers or traffickers after being shot, tortured to death, or simply left to die from starvation or medical neglect. Across Libya, unidentified bodies of migrants and refugees bearing gunshot wounds, torture marks and burns are frequently uncovered in rubbish bins, dry river beds, farms and the desert” .     Alcune autorità ufficiali della Libia sono complici nelle violenze e negli abusi; altre usano indiscriminatamente la forza letale contro i migranti irregolari:
    “UNSMIL continues to receive credible information on the complicity of some State actors, including local officials, members of armed groups formally integrated into State institutions, and representatives of the Ministry of Interior and Ministry of Defence, in the smuggling or trafficking of migrants and refugees. These State actors enrich themselves through exploitation of and extortion from vulnerable migrants and refugees. (…)
    Security forces in Libya, including armed groups integrated into the Ministry of Interior, have used excessive or unwarranted lethal force against migrants and refugees in the course of law enforcement operations, leading to loss of life and injury” .
        In un simile contesto, non sorprende che il Tribunale di Trapani, con un’esemplare sentenza del 23 maggio 2019, abbia assolto, “perché il fatto non costituisce reato, essendo scriminati dalla legittima difesa”, due migranti irregolari accusati di aver minacciato l’equipaggio e il comandante di una nave privata che li aveva soccorsi e che, seguendo l’ordine ricevuto dalle autorità marittime italiane e libiche, li stava riconducendo in Libia:
    “Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subito, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni sopra rappresentate, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo”.     Sorprende, invece, - e molto – il fatto che l’Italia abbia concluso con la Libia un trattato che ha l’evidente, anche se non dichiarato, fine di fornire agli agenti libici i mezzi per riportare indietro i migranti irregolari soccorsi .

    5. Considerazioni conclusive
    Nelle pagine precedenti si è cercato di mettere in luce quanto di peggio sia reperibile nell’alterna politica italiana riguardo all’immigrazione irregolare via mare : l’affondamento colposo di una nave sovraccarica di migranti; il respingimento volontario dei migranti verso un paese dove essi sono torturati; l’assistenza volontaria a un altro Stato perché esso riporti i migranti verso un paese dove essi sono torturati. Non c’è dubbio che vi siano stati – ed è doveroso segnalarli – anche altri tipi di comportamenti, che possono invece essere portati a merito dell’Italia. Nell’ottobre 2013, dopo che 366 migranti erano annegati nei pressi dell’isola di Lampedusa, l’Italia ha messo in atto l’operazione Mare Nostrum, che ha visto coinvolte varie unità della Marina e di altre Forze italiane per prestare soccorso ai molti migranti irregolari che rischiavano la vita in mare e per portarli in salvo in Italia. È però noto che, nell’ottobre 2014, Mare Nostrum è venuta a cessare e non è stata sostituita da un’altra operazione altrettanto efficace sotto il profilo umanitario.
    Vi sono alcuni punti fermi che non dovrebbero venire trascurati. Alla luce del diritto internazionale, i migranti irregolari hanno il diritto di essere trattati umanamente e non come criminali. Se si trovano in pericolo in mare, essi hanno il diritto di essere soccorsi e trasportati in un luogo sicuro. Se sono anche rifugiati, essi hanno il diritto di non essere respinti verso un luogo dove possano subire persecuzioni e di essere messi in condizione di presentare una domanda d’asilo. Come tutti gli esseri umani, anche i migranti clandestini hanno diritto di non essere respinti verso uno Stato dove corrono il rischio di essere torturati. Questi diritti sussistono nonostante il fatto che il quadro giuridico internazionale sia tutt’altro che adeguato, soprattutto per quanto riguarda la determinazione del luogo sicuro dove i migranti irregolari soccorsi devono essere sbarcati.
    Resta il fatto che le questioni giuridiche sono una parte soltanto di un problema molto più complesso. Sul piano morale, è inaccettabile che uno Stato forte e ricco, come l’Italia, concentri le proprie forze e ricchezze contro gli esseri umani più deboli e che un’entità ancora più forte e ricca, come l’Unione europea, della quale anche l’Italia fa parte, non sia in grado di elaborare una linea politica decente in materia di migranti e rifugiati. Gli attuali flussi di migranti irregolari costituiscono un dramma umano collettivo che è illusorio pensare di fronteggiare con persistenti misure di chiusura da parte degli Stati sviluppati. Come è stato posto in evidenza dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati,     
    “la verità è che non possiamo scoraggiare delle persone che sono in fuga per salvarsi la vita. Arriveranno. Possiamo però scegliere se gestire bene il loro arrivo, e con quanta umanità. (…)
    Se le nazioni occidentali continueranno a rispondere chiudendo le porte, continueremo a condurre migliaia di persone disperate nelle mani di reti criminali, rendendoci tutti meno sicuri” .
        ABSTRACT: The paper describes the worst aspects of the Italian policy as regards non-autorized migrations at sea. In 1997 a ship of the Italian Navy engaged herself in an attempt to divert an Albanian ship overcrowded with irregular migrants and was responsible for a collision with the latter. Not less than 58 migrants died. In 2009 Italy started a policy of trasnporting back to Libya irregular migrants rescued at sea. The European Court of Human Rights found (judgment of 2012 in the case Hirsi Jamaa and others v. Italy) that Italy was responsible for a violation, inter alia, of Art. 3 (prohibition of torture) of the European Convention on human rights, as many cases of torture of irregular migrants were reported in Libya. In 2018 Italy and the European Union financed the establishment by Libya of a Search and Rescue (SAR) region in the desire to have the irregular migrants pushed back by Libya itself (as if those who assist in the commission of an internationally wrongful act were not also responsible for it). A much better behaviour is expected by rich and powerful entities, such as Italy and the European Union, that should not devote their strength against the weakest. In the last years too many people have put at risk their lives in attempts to cross a border. They are driven by the desire to enter into a country where they will be safe from persecution, poverty, conflicts, natural disasters or other calamities and where they will have the chance to spend a decent life. The hope to migrate is the reason why the waters of some seas, such as the Mediterranean, have become the graveyard of thousands of human beings, including children, who are moving from a number of African or Asian countries to reach the European Union. This is a great human tragedy that unfortunately is not yet completely understood by the countries of destination, where an adequate immigration and asylum policy is still lacking.

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