Citraro e Molino c. Italia. La responsabilità dello Stato per la vita delle persone detenute ed un suicidio di venti anni fa.
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. Tredici giorni - 2. La decisione della CEDU - 3. Ancora una condanna in materia di tutela della salute in carcere - 4. Il tempo trascorso e i problemi ancora sul tappeto.
“Mi perseguitano delle cose, non riesco a mandarle via, non c’è fuga possibile.
Affogo nella mia mente.”
da “Tutto chiede salvezza”, Daniele Mencarelli, 2020
1. Tredici giorni
A.C. è morto suicida nel carcere di Messina il 16 gennaio 2001. Aveva trent’anni, era stato riconosciuto affetto da un quadro di complessi disturbi della personalità, aveva subito ricoveri in osservazione psichiatrica, aveva posto in essere tentativi suicidiari e altri acting out autolesivi. Gli ultimi giorni della sua vita, dall’inserimento il 3 gennaio in una sezione definita come “di sosta” in cella singola, mostrano una sequenza di comportamenti di difficile gestione, la richiesta di isolarsi dagli altri compagni e l’autolesionismo. Una visita psichiatrica suggerisce l’adozione della c.d. sorveglianza a vista, e dopo due giorni la richiesta al magistrato di sorveglianza, subito accolta ex art. 112 reg. es. ord. penit., nel persistere dei sintomi e in assenza di compliance del paziente alla terapia farmacologica, di un nuovo ricovero in osservazione psichiatrica presso l’allora esistente ospedale psichiatrico giudiziario. A.C. richiede di vedere i suoi genitori e poi il suo difensore. In entrambi i casi, a seguito delle sue doglianze, riesce ad effettuare i colloqui. Si barrica nella sua camera detentiva, oscura la luce della finestra e per due giorni resta completamente al buio, al punto che i controlli si effettuano usando delle torce elettriche. Si preferisce non forzare un accesso alla stanza, per non pregiudicare ulteriormente il precario equilibrio del detenuto. Un nuovo controllo dello psichiatra conduce ad una reiterata richiesta di trovare un posto disponibile in OPG. Dopo il colloquio con il difensore, avvenuto all’interno di quella cella al buio, A.C. afferma di voler riprendere le cure e di essere disposto a ripristinare una normale condizione della stanza. Dopo nemmeno ventiquattro ore di apparente calma, si toglie la vita per impiccagione. Inutili i soccorsi, apprestati con le ulteriori difficoltà connesse alle condizioni della cella.
2. La decisione della CEDU
Il 4 giugno 2020 la I sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 della Convenzione (“Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge…”), in particolare perché tale disposizione non si limita a richiedere agli Stati che si astengano dal provocare la morte, ma impone invece l’adozione delle misure necessarie alla protezione della vita delle persone sottoposte alla loro giurisdizione. Una affermazione che diventa particolarmente cogente per le persone private della libertà personale e che la Corte circostanzia alla luce della sua giurisprudenza più recente in materia (vd. Fernandes de Oliveira c. Portogallo, 31 gennaio 2019, in cui tuttavia si parla di una persona volontariamente ricoverata presso un reparto ospedaliero psichiatrico[1]). In particolare, l’obbligo sussiste ove l’autorità disponga di elementi dai quali dedurre “un rischio reale e immediato” che l’interessato possa attentare alla propria vita. In tali casi la violazione è dimostrata se si verifica che lo Stato non ha adottato tutte le misure ragionevoli per contrastare concretamente un tale rischio. La giurisprudenza della CEDU enuncia un elenco di fattori sintomatici in tal senso, che comprendono una valutazione anamnestica dei disturbi psichici, la gravità delle patologie riscontrate, i precedenti autolesivi o addirittura i tentativi di suicidio, i malesseri fisici e psichici e l’ideazione suicidiaria riferiti.
Attraverso una disamina puntuale dei fatti solo succintamente riportati nel par. 1 di questa breve lettura, poggiando anche sui corposi atti del procedimento penale svoltosi a Messina e poi conclusosi con l’assoluzione dall’accusa rivolta ad otto persone, tra le quali l’allora direttrice dell’istituto penitenziario e lo psichiatra, di non aver impedito il suicidio di A.C., la CEDU perviene alla condanna dell’Italia.
L’amministrazione era a conoscenza delle condizioni di salute psichica del detenuto, tanto da aver posto in essere azioni specifiche al riguardo, ed era in grado di apprezzare un rischio concreto che lo stesso ponesse in atto condotte suicidiarie, già varie volte tentate in passato. Plurimi sono gli indici che quindi consegnano ai giudici di Strasburgo una fotografia che considerano di carente diligenza da parte delle autorità: troppo lungo l’intervallo di tempo trascorso tra la deliberazione del magistrato di sorveglianza, il 9 gennaio, circa la necessità del trasferimento in Opg, e la morte di A.C.; contraddittoria la decisione presa di ridurre, seppur di poco, il livello di sorveglianza previsto, da “a vista” a “grandissima sorveglianza”, con pur frequentissimo, ma non meglio specificato negli atti forniti alla Corte, controllo da parte degli operanti di polizia penitenziaria; carente la supervisione medica circa l’effettiva assunzione della terapia farmacologica; infelice la scelta di non rimuovere le barricate e gli scuri apposti dall’interessato, in preda ad una evidente acuzie patologica, pur se dettata dall’obbiettivo di evitare ulteriori traumi all’interessato; intermittente la presenza dello psichiatra, per altro non sempre lo stesso, che visitò in alcune giornate il paziente, a dispetto di quanto le Raccomandazioni, già all’epoca in vigore, del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, prevedessero circa la necessaria costanza nel controllo specialistico dei detenuti con rischio suicidiario (“sarebbe stato necessario prevedere delle consulenze psichiatriche quotidiane”).
La Corte ritiene sostanzialmente assorbita la doglianza relativa all’art. 3 CEDU, mentre rigetta la richiesta relativa alla violazione procedurale dell’art. 2, per la quale lo Stato ha l’obbligo di stabilire le cause della morte della persona e di compiere una verifica specifica circa le eventuali responsabilità anche di tipo omissivo da parte delle autorità competenti e ritiene che, nel caso specifico, il processo svoltosi, previe indagini della Procura della Repubblica di Messina, sia stato scrupoloso e basato su una ricerca di elementi effettivi sulle circostanze del decesso di A.C.
3. Ancora una condanna in materia di tutela della salute in carcere
Come noto, il diritto alla salute non trova una sua espressa formulazione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e la Corte di Strasburgo ne ha dunque ricondotto, volta a volta, la tutela a quella del diritto alla vita (art. 2) , alla dignità umana (art. 3), al rispetto della vita privata e familiare (art. 8). Con riferimento alle persone detenute, cui viene riconosciuta una condizione di particolare vulnerabilità in connessione con la propria condizione, il diritto alla salute è molte volte ricondotto all’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani). La CEDU affronta il tema da tempo con una giurisprudenza consolidata e illuminante, a far data dalla storica sentenza Kudla v. Poland, 26 ottobre 2000, di cui ricorre significativamente il ventennale, quasi parallelo ai tragici fatti di cui alla condanna in commento. Una detenzione in cui le condizioni di salute patologiche non siano adeguatamente e tempestivamente prese in carico aggiunge alla sofferenza che inevitabilmente discende dalla privazione della libertà un peso aggiuntivo, che può divenire intollerabile e che incide sulla stessa dignità umana. Questa breve osservazione non può avere l’obbiettivo di riprendere i molteplici filoni di censura rivolti al nostro paese che negli anni hanno riguardato questa materia e che costituiscono altrettanti insegnamenti fondamentali perché gli operatori interni possano orientare le difficili scelte che in questo campo sono chiamati a compiere. Il fattore tempo assume un rilievo essenziale, come per altro accade pure nel caso Citraro qui in commento, le cure fornite ai detenuti non possono essere inferiori a quelle offerte ai cittadini liberi, né le condizioni di sovraffollamento possono giustificare un accesso sporadico e comunque insufficiente ai servizi sanitari. Neppure è giustificabile che il ritardo sia attribuito ad eventuali rimpalli di responsabilità tra amministrazioni coinvolte.
La sentenza Citraro, in particolare, riprende principi consolidati nella drammatica materia della tutela dei soggetti con patologie psichiatriche e con pregressi tentativi suicidiari, in cui l’obbligo positivo da parte dello Stato di tutelare la vita della persona posta nella sua responsabilità durante la restrizione della libertà pone in primo piano l’art. 2 della Convenzione e, nonostante ci si muova con grande prudenza per evitare di imporre oneri oggettivamente inesigibili alle autorità, si richiede di poter individuare quali azioni credibilmente efficaci le stesse abbiano posto in essere per scongiurare il verificarsi di un evento suicidiario. In tal senso la lettura delle motivazioni ci consegna una sintesi lucida e stringente tanto degli elementi che definiscono la prevedibilità di un pericolo concreto di suicidio, valutati appunto con grande prudenza soltanto a fronte di evidenze documentali, quanto dei molteplici elementi di contraddizione che, nel caso concreto, hanno poi condotto alla condanna e che non possono che interrogare drammaticamente chi conosca la realtà del carcere, di ieri come di oggi.
4. Il tempo trascorso e i problemi ancora sul tappeto
Il suicidio di A.C. è avvenuto quasi venti anni fa. Molto è dunque cambiato, anche dal punto di vista normativo, rispetto all’epoca dei fatti. Non sono purtroppo divenuti più episodici i suicidi nel contesto penitenziario[2]. Non è meno urgente la concretizzazione di più efficaci strategie di presa in carico delle patologie psichiatriche in carcere.
Non può negarsi che si siano compiuti in seguito passi di civiltà fondamentali e plurimi tentativi di affinare l’attenzione degli operatori al problema: il complesso passaggio della sanità penitenziaria alla competenza del Ministero della Salute e delle Regioni, come accade per tutti i cittadini, completato con DPCM 1 aprile 2008; la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari con L. 81 del 30 marzo 2014, a partire dal 31 marzo 2015; gli Accordi in Conferenza Unificata in tema di prevenzione delle condotte suicidiarie; i numerosi protocolli in merito adottati nelle singole Regioni con i Provveditorati regionali e con tutti gli istituti penitenziari; le circolari reiteratamente proposte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a fronte di un incessante ripetersi di casi di suicidio all’interno delle mura del carcere.
Ne emerge con chiarezza la necessità di affrontare con tempestività e capacità di organizzazione la presa in carico dei detenuti sin dal momento dell’ingresso, intercettandone il disagio psichico ed integrando gli interventi delle diverse aree coinvolte.
Parallelamente, al tema della salute mentale in carcere era stato dedicato uno spazio significativo nei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale e le Commissioni di riforma dell’ordinamento penitenziario avevano consegnato al legislatore delegato, in relazione alla delega contenuta nella legge 103/2017, soluzioni importanti per incidere in modo significativo su alcune delle più gravi criticità riscontrate, anche all’esito della citata necessaria chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.
In particolare, sotto questo profilo, resta la consapevolezza che, mentre per l’esecuzione delle misure di sicurezza gli OPG hanno trovato nella presa in carico territoriale e, solo come ultima ratio, nelle REMS, le nuove soluzioni operative, per le persone affette da problematiche psichiatriche in esecuzione di pena è oggi approntato un sistema di reparti di osservazione all’interno di alcune strutture penitenziarie (cui si viene ancora inviati su disposizione dell’a.g. ex art. 112 reg. es. ord. penit.), che possono essere sovraffollate e richiedono comunque tempi di attesa prima dell’inserimento, e di c.d. “articolazioni per la salute mentale”, la cui diffusione sui territori è assai diseguale, con inevitabili conseguenze sulla virtuosa presa in carico da parte dei servizi sociali e dei centri di salute mentale che, invece, costituisce la chiave essenziale per interventi efficaci.
Come noto, soltanto in minima parte le proposte di riforma hanno trovato nei d.lgs. 123 e 124 del 2018 una loro concretizzazione e così se, ad esempio, nel nuovo testo dell’ art. 11 ord. penit. inspiegabilmente non si cita più la dotazione di almeno uno specialista in psichiatria per ogni istituto penitenziario (tragicamente quasi adattando il dato normativo ad un fatto che troppe volte accade), è però rimasto un forte richiamo, fondamentale per la tutela della salute psichica, alla necessaria continuità degli interventi sanitari e all’uniformarsi a principi di metodo proattivo, di globalità dell’intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitarietà dei servizi e delle prestazioni, di integrazione dell’assistenza sociale e sanitaria (art. 11 co. 7 ult. parte ord. penit.).
La Corte Costituzionale, poi, con la sentenza 19 aprile 2019 n. 99, ha ampliato la possibilità di ricorrere alla detenzione domiciliare surrogatoria del rinvio dell’esecuzione della pena ex art. 146 – 147 cod. pen. in correlazione con le condizioni di grave infermità psichica, consentendo con ciò, in linea con quanto la Commissione di riforma aveva immaginato, una via verso l’esterno maggiormente idonea a costruire intorno al detenuto malato un progetto di cure efficaci, ad esempio all’interno di strutture territoriali adeguate.
Tuttavia, la storia di A.C. può purtroppo raccontare, senza poterla affatto archiviare come un drammatico episodio del passato, quella evitabile di altre persone detenute con problematiche psichiatriche che non incontrano ancora efficaci soluzioni di presa in carico realmente integrata all’interno del contesto penitenziario. Accade ancora che, per la difficile compatibilità di molti di loro con i loro compagni, gli stessi vengano volte posti in sezioni “di passaggio”, dove però si resta in quelle celle singole sempre additate come di peculiare rischio per l’incolumità di chi abbia mostrato intenti suicidiari. Accade che l’assistenza degli psichiatri finisca per essere sporadica, quando la CEDU la chiederebbe, almeno per chi si trova in condizioni di particolare acuzie, quotidiana, e che sia apprestata senza che lo specialista chiamato sia sempre lo stesso, impedendo in tal modo il crearsi di quell’alleanza terapeutica che è massimamente importante per garantire una migliore compliance alle cure apprestate. Accade che il rifiuto di assumere le terapie, non certo infrequente a fronte di patologie psichiatriche, possa non essere monitorato a sufficienza, mediante un intervento diretto del medico, ma rilasciato al personale infermieristico, spesso oberato dagli infiniti impegni quotidiani. Accade che queste stesse terapie finiscano per limitarsi a volte a mera sedazione, anche in supplenza di un accompagnamento psicologico e psichiatrico invece fondamentale e non fungibile. Accade che tali detenuti, spesso per altro gravati da plurime marginalità, magari stranieri od ormai privi di un sostegno emotivo familiare, non godano di quel refolo di umanità residua che viene dai colloqui visivi e dai contatti telefonici con i congiunti e che tempera il clima irrespirabile della cella.
Soprattutto vi è il rischio che la persona con problematica psichiatrica, spesso portatrice di una incapacità di rientrare nelle normali regole di convivenza, finisca per inanellare soltanto rilievi disciplinari e sanzioni, innescando un circuito vizioso che gli allontana una possibile progettualità esterna, che invece è così essenziale costruire proprio mediante un approccio multidisciplinare al problema[3]. Ora infatti, che qualche spazio normativo si è aperto, grazie all’intervento della Consulta, occorre costruire i progetti e creare nei diversi attori istituzionali la consapevolezza del contributo che ciascuno può e deve dare.
L’esperienza del magistrato di sorveglianza racconta di quanto il suicidio di una persona detenuta costituisca per l’istituto penitenziario in cui avviene un gravissimo choc negativo, che perturba drammaticamente, ed interpella senza vie di fuga, tutte le persone che fanno parte della comunità penitenziaria. Intorno alla tragedia della persona, con la sua individualità e le sue motivazioni mai fino in fondo perscrutabili, si consuma quello tutto privato dei compagni di pena, con le loro domande, a volte verbalizzate a chi si accosti a loro per condividerne l’angoscia, sul senso di quel che vivono e di quel che hanno condiviso con chi si è tolto la vita, e quello istituzionale delle diverse anime che lavorano quotidianamente perché le pene detentive mantengano la loro funzione costituzionale: dalla polizia penitenziaria, che tante volte riesce ad evitare il peggio, agli operatori giuridico-pedagogici e agli assistenti sociali, sino ai volontari, che spesso sono in grado di intercettare per primi i segnali che possono innescare un virtuoso meccanismo di rete.
Il sovraffollamento penitenziario costituisce, in questo contesto, un grave ostacolo alla realizzazione concreta degli obbiettivi che la CEDU ci chiede di mantenere e che sono alla base della copiosa produzione normativa ed amministrativa in materia. Occorre infatti che vi siano tempi e spazi adeguati per una presa in carico individualizzata delle persone detenute, nonché una formazione specifica di tutte le figure professionali chiamate in prima linea ad affrontare il problema, affinché il carcere possa non soltanto evitare che il peggio accada, ma innescare meccanismi di tutela della salute mentale che, pur a fronte della sofferenza che discende senza illusioni dalla privazione della libertà, prevengano lo slatentizzarsi delle patologie. Su questa strada sono incamminati tutti gli attori del mondo penitenziario, perché ciascuna professionalità è indispensabile e non può arretrare trincerandosi dietro riparti di competenze formali, ma è necessario che si lavori alacremente perché le risorse umane (si pensi alla drammatica carenza di accessi in carcere degli specialisti in psichiatria) e materiali siano decisamente implementate. Soltanto questo sistema potrà esonerarci dalla grave responsabilità che nel caso Citraro e Molino i giudici di Strasburgo ci hanno attribuito.
[1] Grande Chambre Cedu Fernandes de Oliveira c. Portugal, 31.01.2019, in https://hudoc.echr.coe.int/eng/#{"itemid":["001-189880"]}. Vi si legge anche la preziosa opinione, in parte dissenziente, redatta dal giudice Pinto de Albuquerque, che considera necessario che allo Stato siano imposti standard più elevati di tutela quando ci si riferisca a categorie particolarmente vulnerabili di persone ospedalizzate in regimi comunque restrittivi. L’opinione si segnala anche per la domanda di concretezza che la materia impone, tanto da far definire la pronuncia della Corte come “un exercice d’appréciacion judiciaire créatif pour un pays imaginaire”.
[2] Cfr. per un quadro aggiornato e completo circa quest’ultima emergenza e le problematiche connesse alla tutela della salute mentale in carcere oggi costituiscono strumenti di approfondimento fondamentali la Relazione al Parlamento 2020 del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e la relativa Presentazione del 26 giugno 2020 in http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/
[3] E’ di questi giorni la redazione di una versione aggiornata delle Regole penitenziarie europee che, tra l’altro, insistono ulteriormente sui limiti dell’isolamento e dell’uso delle sanzioni disciplinari in genere, in particolare in correlazione con le conseguenze in tema di salute mentale. Cfr. Recommendation Rec(2006)2-rev of the Committee of Ministers to member States on the European Prison Rules revised and amended by the Commitee of Ministers on 1 july 2020 https://search.coe.int/cm/Pages/result_details.aspx?ObjectId=09000016809ee581