GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La confisca del denaro nei reati tributari Nota a Trib. Siracusa ord. 17/10-30/10/2018

    Alcune riflessioni sulla natura della confisca del denaro nei reati tributari di Vito Di Nicola

    Nota a Trib. Siracusa ord. 17/10-30/10/2018

    Sommario: 1. Breve premessa. 2. La ratio decidendi. 3.  Rapido excursus sulla nozione di profitto confiscabile secondo i dicta delle Sezioni Unite Penali. 4. L’attuale stato dell’arte nella giurisprudenza di legittimità. 5. Futuri scenari e conclusioni.

    1. Breve premessa.

    L’ordinanza del Tribunale del riesame di Siracusa – per la lucidità dell’analisi[1] articolata su un tema che registra, nonostante reiterati interventi delle Sezioni Unite, posizioni contrastanti in seno alla giurisprudenza di merito e di legittimità – offre lo spunto per svolgere alcune brevi riflessioni sulla misura cautelare del sequestro finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei reati tributari nel caso in cui l’oggetto dell’ablazione sia costituito dal denaro.

    2. La ratio decidendi.

    Il caso scrutinato dal Tribunale di Siracusa è, in sintesi, il seguente.

    Il legale rappresentante di una società di capitali non aveva versato all’erario, entro il termine previsto per la dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute (di importo pari ad euro 428.951,96) operate sulla base della stessa dichiarazione. Ritenuto integrato il fumus boni iuris del reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il giudice per le indagini preliminari, su richiesta del pubblico ministero, emetteva un decreto di sequestro preventivo ordinando il vincolo, in via diretta, delle somme di denaro non versate a titolo di imposta se accreditate sui conti correnti intestati alla società e contestualmente disponeva il sequestro preventivo, per equivalente, ai sensi dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, fino all’importo corrispondente al totale delle imposte non versate, sui beni mobili, immobili registrati o altre utilità facenti parte del patrimonio personale dell’indagata. Eseguito il decreto di sequestro, venivano apprese presso la società somme di denaro pari ad euro 215.785,27. Tuttavia, le somme giacenti presso i conti correnti intestati alla predetta società sino al 31 ottobre 2017, data nella quale il versamento delle ritenute doveva essere eseguito, risultavano essere, come da documentazione bancaria prodotta dalla difesa, pari a complessivi euro 339,50. In sede di riesame del provvedimento, veniva pertanto eccepita l’illegittimità del sequestro preventivo disposto in via diretta delle somme eccedenti i saldi attivi esistenti sui conti correnti intestati alla società alla scadenza del termine per il versamento del tributo, sul rilievo che, consistendo il profitto del reato in un  risparmio di spesa, non potevano essere oggetto di ablazione le disponibilità liquide maturate successivamente alla scadenza del termine previsto per il versamento (ossia al 31 ottobre 2017),  perché tali disponibilità,  derivando da rimesse fatte da terzi successive alla data di consumazione del reato, non potevano essere considerate come un “risparmio di spesa” quale conseguenza del mancato versamento delle imposte e quindi non potevano essere sottoposte a sequestro difettando in esse la caratteristica di profitto; in  caso diverso, ammettendosi il sequestro anche delle somme maturate successivamente al 31 ottobre 2017, si sarebbe legittimata l’operatività di un sequestro per equivalente nei confronti della società, come tale illegittimo, salvo il caso in cui fosse stato dimostrato che la persona giuridica costituisse uno schermo fittizio, utilizzato dal reo per commettere reati, situazione, nella specie, non ravvisata.

    Il Tribunale del riesame, dopo aver ampiamente riportato e commentato  gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, ha respinto l’eccezione affermando, con estrema chiarezza, il principio secondo il quale, in tema di reati tributari, il profitto consiste in un qualsivoglia vantaggio patrimoniale e può risultare anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, risparmio che prescinde dalla data di consumazione del reato, cosicché, nel caso di sequestro del denaro, non rileva la materiale destinazione di esso che ne rappresenta la diretta estrinsecazione, né rileva il momento, successivo alla consumazione del reato, nel quale vengono percepite ulteriori somme, quantunque avulse da un diretto rapporto di pertinenzialità con il reato contestato. “Se infatti il denaro, quale bene fungibile, viene a perdere la propria autonomia e il legame pertinenziale con il reato contestato, ciò che rileva agli effetti della confisca, è l’esistenza del valore nominale comunque accresciuto di consistenza a rappresentare (…) l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario anche successivamente la data di consumazione”. Logica conseguenza di tale impostazione è che, prescindendo il risparmio di spesa dal momento consumativo del reato tributario, la fattispecie della confisca diretta deve ritenersi integrata, secondo il ragionamento del Tribunale, in presenza dell’ablazione di un bene fungibile, dovendo quest’ultimo ritenersi svincolato dal requisito della pertinenzialità, con la conseguenza che si viene a creare una confusione nel patrimonio dell’obbligato, perché il profitto permane sino a quando sussiste l’obbligazione tributaria, consistente appunto in un risparmio di spesa, risparmio che perciò resta tale a prescindere dalla scadenza temporale del versamento, atteso che il profitto del reato perdura fino a quando sia totalmente assolto l’onere tributario. In difetto di ciò, la somma sarà sempre assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato a confisca diretta in quanto indirettamente connessa, come profitto del reato, all’attività criminosa in virtù della quale si è accresciuta virtualmente la consistenza bancaria del conto intestato alla società beneficiaria del risparmio di spesa.

    3. Rapido excursus sulla nozione di profitto confiscabile secondo i dicta delle Sezioni Unite Penali.

    Più volte le Sezioni unite della Corte di cassazione si sono soffermate sulla nozione di “profitto confiscabile”, scrutinando la nozione sia sotto l’aspetto dell’individuazione delle componenti strutturali del profitto del reato e sia sotto l’aspetto attinente al nesso di derivazione causale del profitto dal reato[2]. In una prima pronuncia, affermarono, con specifico riferimento alla nozione di profitto declinata dall’art. 240 cod. pen., che il “profitto”  consiste in qualsiasi “vantaggio economico” costituente un “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” che abbia una “diretta derivazione causale” dalla commissione del reato[3]. In continuità con l’orientamento di identificare il profitto nel “vantaggio di natura economica” o nel “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale”, le Sezioni unite successivamente indicarono la necessità di una stretta derivazione causale del profitto dal reato[4] e, in una coeva decisione, affrontando nuovamente la questione della definizione del profitto confiscabile, affermarono che, nella formulazione dell’art. 240, comma 1, cod. pen., il “prodotto del reato” si identifica in quei beni che costituiscono il risultato empirico della condotta esecutiva criminosa quali immediate conseguenze materiali di essa; per “profitto del reato”, invece, si deve intendere il vantaggio di natura economica che deriva dall’illecito, precisando che per  vantaggio economico non deve intendersi “utile netto” né “reddito” ma un beneficio aggiunto di tipo patrimoniale, che non deve essere necessariamente conseguito da colui che ha posto in essere l’attività delittuosa. Nel pervenire a tali conclusioni, le Sezioni unite tuttavia ammonirono come dovesse, in ogni caso, mantenersi ferma - per evitare un’estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa scaturire da un reato - l’esigenza di una diretta derivazione causale dall’attività del reo, intesa quale stretta relazione con la condotta illecita[5]. In un immediato e successivo arresto le Sezioni unite affermarono, senza ulteriori specificazioni in proposito, che, mentre il profitto corrisponde all’utile ottenuto in seguito alla commissione del reato, il prodotto corrisponde al risultato, cioè al frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita[6].

    Una rielaborazione, in senso estensivo, del principio della diretta derivazione causale del profitto dal reato scaturì da una successiva pronuncia delle Sezioni unite che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen., affermarono come costituisse “profitto” del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro fosse, come nel caso di specie, causalmente collegabile al reato stesso e fosse soggettivamente attribuibile all’autore di quest'ultimo[7], chiarendosi che, nel concetto di profitto o provento di reato, vanno compresi non soltanto i beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità, che lo stesso realizza come effetto anche mediato ed indiretto della sua attività criminosa. Le Sezioni unite fecero conseguire da ciò l’affermazione secondo cui qualsiasi trasformazione che il danaro illecitamente conseguito subisca per effetto di investimento dello stesso deve essere considerata profitto allorquando sia collegabile causalmente al reato stesso ed al profitto immediato (il danaro) di esso che sia stato conseguito e sia soggettivamente attribuibile all’autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto[8]. La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità, nella sua più autorevole espressione, ha fatto registrare, come si vedrà, una flessione della concezione causale[9] del profitto temperata, se non in alcuni casi surrogata, da una concezione di tipo strutturale, i cui confini non sembrano definitivamente tracciati e i cui contenuti, se non supportati da riforme normative dell’istituto, sembrano destinati ad essere posti in forte discussione dalla stessa giurisprudenza di legittimità, nei limiti che si riterranno consentiti dall’ordinamento, come sarà più chiaro in seguito[10]. Per il momento, va segnalato come, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, le Sezioni unite – in sostanziale continuità con i precedenti orientamenti ma con approccio metodologico tale da privilegiare nella nozione di profitto del reato non già e non solo il profilo causale, quanto, piuttosto, i profili strutturali del medesimo, in quanto collegato ad attività economica imprenditoriale[11] – affermarono che il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, precisando tuttavia che, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone, questo perché, secondo le Sezioni unite, nella ricostruzione della nozione di profitto oggetto di confisca, non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico - quali ad esempio quelli del “profitto lordo” e del “profitto netto” ma che, al contempo, tale nozione non può essere dilatata fino a determinare un’irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l’ente, adempiendo al contratto, che pure aveva trovato la sua genesi nell’illecito, abbia posto in essere un’attività i cui risultati economici non possono essere messi in collegamento diretto ed immediato con il reato[12]. In quest’ottica le Sezioni unite ritennero che, in tema di responsabilità degli enti, qualora debbano imputarsi al profitto del reato presupposto dei crediti, non può procedersi alla loro confisca nella forma per equivalente, ma solo in quella diretta, atteso che altrimenti l’espropriazione priverebbe il destinatario di un bene già nella sua disponibilità in ragione di una utilità invece non ancora concretamente realizzata dal medesimo[13].

    Ciò che occorre ricordare, anche per quanto si dirà in seguito circa l’apporto fornito dai reati tributari alla nozione di profitto confiscabile, è che le Sezioni unite non hanno mai mancato di sottolineare l’importanza del nesso di pertinenzialità tra condotta illecita e conseguimento del profitto. In sintonia con i precedenti indirizzi, è stato infatti affermato, anche dopo la sentenza Fisiaimpianti[14] ed in linea con i suoi enunciati, come il profitto del reato presupponga l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente, con la conseguenza che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo. E’ stato perciò ribadito come fosse necessaria una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito[15]. A questo proposito le Sezioni unite Caruso non hanno mancato di sottolineare come tale criterio di selezione non fosse scalfito da precedenti arresti[16] che, con riferimento alla confisca “diretta” (c.d. di proprietà) del profitto della concussione, aveva ricompreso nella nozione di profitto anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, avendo la pronuncia precisato che tale reimpiego doveva comunque essere “casualmente” ricollegabile al reato e al profitto “immediato” dello stesso.

    Nondimeno è stato l’impatto della confisca con i reati tributari[17] che ha determinato una svolta particolarmente significativa nell’evoluzione giurisprudenziale del concetto di profitto. In questo tipo di incriminazioni, infatti, il vantaggio illecito conseguito dall’autore del reato consiste nella sottrazione a tassazione della ricchezza prodotta, cosicché, di regola, il profitto del reato si consegue attraverso l’inadempimento dell’obbligazione tributaria, inadempimento che solitamente si realizza con l’omesso versamento, in tutto o in parte, dell’imposta dovuta e, quindi, mediante un risparmio di spesa che non si risolve in un aumento della consistenza patrimoniale del soggetto (persona fisica o giuridica) tenuto al versamento dell’imposta ma si traduce in una mancata contrazione patrimoniale nel senso che, se l’obbligazione tributaria fosse stata assolta, sarebbe diminuita la consistenza patrimoniale dell’obbligato. In considerazione di questa particolare connotazione del profitto, ossia del mancato decremento del patrimonio e non già del conseguimento di un vantaggio in termini positivi di incremento dello stesso, le Sezioni unite[18] affermarono il principio secondo cui, in tema di reati tributari[19], il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario[20].

    Sempre in tema di reati tributari, le Sezioni unite, nell’esaminare la questione circa la possibilità o meno di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei confronti di beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante o da altro organo della stessa, scrutinarono anche la diversa e collegata questione sulla qualificazione come confisca diretta o per equivalente dell’ablazione di somme di denaro o beni fungibili, stabilendo il principio che la confisca del profitto, quando si tratti di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta[21]. Questa secca conclusione è stata supportata dalle Sezioni unite con il richiamo a diversi precedenti delle Sezioni semplici[22] nonché con il riferimento all’arresto delle Sezioni unite Miragliotta[23] segnalandosi che, in tutte le ipotesi richiamate, non si era in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto di reato, possibile ai sensi dell’art. 240 cod. pen. ed imposta dall’art. 322-ter cod. pen., secondo le cadenze descritte in tale ultima fattispecie. In questo modo, le Sezioni unite sono giunte non soltanto a qualificare estensivamente la nozione di profitto confiscabile, in quanto comprensivo di ogni utilità realizzata dal reo come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa, ma hanno fornito un indirizzo diretto a qualificare pro semper il sequestro del denaro come sequestro in forma specifica rendendo superfluo, in tal caso, il legame (cd. nesso di pertinenzialità) che deve sussistere tra la commissione del reato e il profitto.

    Il percorso esegetico compiuto dalla sentenza Gubert è stato infine completato dalle Sezioni unite Lucci, che, nel ribadire che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito[24],  ha affermato che, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato[25].

    4. L’attuale “stato dell’arte” nella giurisprudenza di legittimità.

    Dopo la sentenza Gubert e prima della sentenza Lucci, la giurisprudenza di legittimità aveva osservato che, a proposito del sequestro in forma specifica del profitto per reati tributari commessi dal legale rappresentante nell’interesse della persona giuridica, il vincolo poteva essere disposto quando il profitto o i beni direttamente riconducibili a tale profitto fossero rimasti (e vi fosse la prova che fossero riconducibili al profitto e che fossero rimasti) nella disponibilità della persona giuridica[26]. Successivamente, dopo la sentenza Lucci, è stato affermato[27] che la natura fungibile del denaro, nel caso in cui il contribuente sia titolare di un rapporto di conto corrente che alla scadenza del debito tributario abbia un saldo negativo, non è sufficiente a qualificare di per sé come “profitto” l’oggetto del sequestro, essendo necessaria la prova che la disponibilità della somma successivamente sequestrata costituisca essa stessa risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta o che si tratti di liquidità rimasta nella disponibilità del contribuente per tutto il tempo che va dalla scadenza del termine (momento di perfezione del reato) alla data di esecuzione del sequestro. In altri termini, la somma di denaro prelevata, distratta o destinata ad altri fini dal contribuente prima della scadenza del termine, non può essere qualificata come profitto del reato, non potendovi essere “profitto” prima della consumazione del reato stesso. Sicché, per stabilire se il denaro costituisce profitto (e cioè risparmio di spesa) del reato di omesso versamento (e, dunque, che sia un bene aggredibile in via diretta) occorre aver riguardo esclusivamente alle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento, tenuto conto non alla loro identità fisica, ma al loro valore numerario che potrà essere oggetto di sequestro diretto solo se di segno positivo sia al momento della scadenza del termine per il pagamento dell'imposta che a quello, successivo, del sequestro e non potrà mai essere considerato “diretto” per la parte eccedente il saldo al momento della scadenza, potendo essere concepito, in tal caso, solo “per equivalente[28]. Cosicché è stato affermato il principio di diritto in forza del quale, in tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (e di ritenute operate sulle retribuzioni dei dipendenti), il profitto del reato consiste nel corrispondente risparmio di spesa e, in particolare, nelle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente alla data di scadenza del termine per il pagamento, disponibilità non versate all’erario. Ne consegue che il sequestro, per essere qualificato come finalizzato alla confisca diretta del danaro costituente il profitto del reato omissivo, non può mai essere disposto, né essere eseguito, per importi comunque superiori ai saldi attivi giacenti sui conti bancari e/o postali di cui il contribuente disponeva alla scadenza del termine per il pagamento. Sulla stessa linea si registra un successivo arresto della giurisprudenza di legittimità che, procedendo ad una rilettura della sentenza Lucci e richiamati i principi espressi dalle Sezioni unite, ha sostenuto che proprio l’affermazione, secondo la quale, per disporre la confisca in forma diretta, è necessario che le disponibilità monetarie del percipiente si siano corrispondentemente accresciute, consente di ritenere che, ove si abbia invece la prova che il denaro non possa in alcun modo derivare dal reato (come nel caso di specie, dove il conto, dopo essere sceso quasi a zero, era stato alimentato con rimesse di terzi, e quindi da nuova finanza, in virtù di un piano concordatario), le somme non possono rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte, non costituendo risparmio di imposta e, quindi, profitto, finanche mediato, del reato[29]. Si tratta di impostazioni, almeno in apparenza distoniche rispetto alle sentenze Gubert e Lucci, che non sono rimaste isolate. E’ stato infatti affermato che la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse, non derivando dal reato, non costituiscano profitto dell'illecito[30]. In un successivo arresto, è stato precisato nuovamente che, ai fini della confisca diretta delle somme sequestrate sul conto corrente bancario, la natura fungibile del denaro non è sufficiente per qualificare come “profitto” del reato l’oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità delle somme, successivamente sequestrate, costituisca un risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta, conseguendo da ciò che, per accertare se il denaro costituisce profitto del reato tributario, e, cioè, un risparmio di spesa aggredibile in via diretta, è necessario avere riguardo non all’identità fisica delle somme, ma al valore numerario delle disponibilità giacenti sul conto dell’obbligato alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta, mentre il denaro versato successivamente a detto termine, che fosse stato sequestrato, non può essere ritenuto “profitto” del reato, ma rappresenta un’unità di misura equivalente al debito fiscale scaduto e non onorato, confiscabile se ricorrono i presupposti per la confisca per equivalente[31]. Recentemente, a proposito di un sequestro preventivo di una somma di denaro adottato, nei confronti di persona fisica e giuridica, quale profitto del reato di esercizio abusivo della professione (art. 348 cod. pen.) e di gestione senza autorizzazione di presidi medico-sanitari (art. 193 R.D. n. 1265 del 1934), sono state chiaramente esposte[32] le coordinate ermeneutiche che fondano la distinzione tra sequestro “diretto” o “in forma specifica” e sequestro di “valore” o “per equivalente”. E’ stato ribadito, seguendo  l’impostazione esegetica adottata in materia dalle Sezioni unite[33], che esiste una netta differenza tra la confisca diretta e la confisca di valore (o per equivalente), che risiede nel nesso di derivazione qualificata dal reato, nel senso che, nel primo caso, quel rapporto di derivazione esige che l’autore del reato venga privato del bene, fisicamente individuabile, che rappresenta il “beneficio” diretto dell’illecito, laddove nel secondo caso, non potendo essere disposta la confisca diretta, l’agente viene privato di beni nella sua disponibilità economica che, senza alcuna pertinenzialità con il reato, abbiano una consistenza equivalente al prezzo o al profitto dell’illecito. Tuttavia il profitto o il prezzo del reato può essere costituito da una somma di denaro, ossia da un bene che perde la sua identificabilità fisica e che, per la sua fungibilità, si confonde con le altre disponibilità economiche dell’agente. In tal caso, non potendosi, in genere, individuare nella sua materialità il bene destinato alla confisca diretta, è sufficiente constatare che il patrimonio dell’interessato si sia accresciuto in misura pari a quell’importo, con la conseguenza che in tali ipotesi l’ablazione di somme di denaro depositate su un conto corrente bancario deve sempre essere qualificata come confisca diretta, indipendentemente da una previa verifica di una diretta pertinenzialità con il reato e, quindi, prescindendo dalla prova che proprio quella somma di denaro sia stata versata sul conto e indipendentemente dai movimenti effettuati sul conto medesimo, in quanto ciò che rileva è che si sia accresciuto il numerario nella disponibilità economica del reo[34]. Date queste premesse, la sentenza[35] si fa carico di fornire una diversa esegesi applicativa del principio di diritto enucleabile dalla sentenza Lucci, affermando come la stessa, nel declinare i precedenti principi di diritto, richieda, nella sostanza, che, nell’ipotesi in cui il profitto del reato sia consistito in una somma di denaro, la confisca diretta possa legittimamente avere ad oggetto un importo di pari entità comunque presente nei conti bancari o nei depositi nella disponibilità dell’autore del reato, purché si tratti di denaro già confluito nei conti o nei depositi al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento: solo in tali ipotesi sarebbe, infatti, possibile ragionevolmente sostenere che il denaro sia sequestrabile e poi confiscabile in via diretta come profitto accrescitivo, dunque indipendentemente da ogni verifica in ordine al rapporto di concreta pertinenzialità con il reato, perché tale relazione sarebbe considerata in via fittizia sussistente proprio per effetto della confusione del profitto concretamente conseguito con tutte le altre disponibilità economiche del reo. Diversamente argomentando, cioè ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche su importi di denaro indistintamente accreditati sui conti o nei depositi dell’autore del reato, sulla base di crediti lecitamente maturati in epoca successiva al momento della commissione del reato - momento che giuridicamente finirebbe per recidere ogni rapporto di pertinenzialità con il reato stesso - si finirebbe per trasformare una confisca diretta in una confisca per equivalente: in quanto avente ad oggetto somme di denaro che, sebbene oggetto di movimentazione sui conti o sui depositi nella disponibilità dell’autore del reato, solo con una inaccettabile “forzatura” possono essere qualificate come profitto accrescitivo, perché del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto dell’illecito. D’altro canto, se la finalità della confisca diretta è quella di evitare che chi ha commesso un reato possa beneficiare del profitto che ne è conseguito, bisogna ammettere che tale funzione è assente laddove l’ablazione colpisca somme di denaro entrate nel patrimonio del reo certamente in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, e non risulti in alcun modo provato che tali somme siano collegabili, anche indirettamente, all’illecito commesso. Su queste basi, è stato pertanto riaffermato il principio di diritto in forza del quale - laddove il profitto del reato sia costituito da denaro non più fisicamente identificabile - è sempre legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, senza che sia necessaria la dimostrazione del nesso di derivazione dal reato, delle somme di denaro di valore corrispondente che siano attribuibili all’indagato, cioè che siano presenti sui conti o sui depositi nella disponibilità diretta o indiretta dell’indagato al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento, con l’ulteriore precisazione che la medesima forma di sequestro deve ritenersi legittima anche sulle somme di valore corrispondente accreditate su quei conti o su quei depositi in epoca posteriore al momento della commissione o dell’accertamento del reato, purché si tratti di numerario che risulti dimostrato essere in qualche modo collegabile al reato, perciò allo stesso legato da un rapporto di derivazione anche indiretta[36].

    Tuttavia occorre, a questo punto, dare conto del fatto che le ricadute interpretative scaturenti dalle sentenze delle Sezioni unite, in tema di confisca diretta o per equivalente del denaro, non siano state lette nel medesimo senso da una parte della giurisprudenza di merito e di legittimità.  L’ordinanza[37] in commento costituisce una chiara dimostrazione in tal senso ed anche la giurisprudenza di legittimità[38], invocando gli arresti delle Sezioni unite Gubert e Lucci, ha tracciato coordinate non in sintonia con i precedenti orientamenti. L’ordinanza del Tribunale di Siracusa si segnala, infatti, anche per il fatto di aver meritoriamente colto una contrapposizione negli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità, evidenziando un contrasto tanto esistente quanto inconsapevole.  Le ragioni che costituiscono il fondamento del diverso indirizzo muovono dal presupposto[39] che la sequenza procedimentale, delineata nelle sentenze delle Sezioni Unite Lucci e Gubert, implica che, in caso di temporanea e reversibile infruttuosità del sequestro finalizzato alla confisca diretta, è possibile  procedere al sequestro predisposto in vista della confisca per equivalente nei confronti dell’imputato ma ciò costituisce una facoltà per il pubblico ministero, facoltà che non preclude pertanto la possibilità di eseguire in qualsiasi tempo il sequestro in forma specifica, proprio perché il profitto del reato, in un primo momento non individuato, può essere successivamente scoperto. Secondo questa impostazione, le Sezioni unite Gubert e Lucci, con specifico riferimento al rapporto intercorrente tra confisca diretta nei confronti del soggetto percettore del profitto e confisca per equivalente nei confronti dei responsabili della commissione del reato, hanno chiarito che il sequestro in forma specifica ha natura di misura di sicurezza, mentre il sequestro di valore ha natura sanzionatoria[40] e che entrambe le misure vanno obbligatoriamente ordinate, ma che, in fase cautelare o in fase esecutiva, deve essere prioritariamente tentata l’apprensione del profitto del reato a carico della persona - fisica o giuridica che ne ha beneficiato, e che, solo in caso di incapienza, può essere aggredito, con la confisca per equivalente, il patrimonio dell’autore o degli autori del reato. In particolare, si sottolinea come le Sezioni Unite Gubert abbiano chiarito che in fase di esecuzione il rapporto tra i due provvedimenti ablatori è parallelo e progressivo, nel senso che è facoltà del pubblico ministero procedere al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dei responsabili del reato anche in caso di impossibilità solo temporanea e transitoria di recuperare l’intero profitto a carico del soggetto che ne ha beneficiato, senza necessità di pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del reato, giacché, durante il tempo necessario per l’espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente, così vanificando ogni esigenza di cautela[41]. Da ciò si deduce che, se la ratio della deroga alla regola generale della prioritaria esecuzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta coincide con l’esigenza cautelare di evitare la possibile dispersione e/o sottrazione dei beni suscettibili di sequestro per equivalente da parte degli imputati e tale deroga rappresenta una facoltà e non un obbligo per il pubblico ministero, sarebbe del tutto evidente che, una volta constatata la temporanea transitoria e parziale incapienza della persona percettrice del profitto del reato, il pubblico ministero non avrebbe altra possibilità che quella di aggredire, con il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il patrimonio dei soggetti responsabili del reato stesso, essendo preclusa la possibilità di continuare parallelamente e progressivamente l’esecuzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, e quindi di sottoporre al vincolo cautelare anche le somme di denaro che in momenti successivi fossero entrati nella disponibilità del soggetto percettore del profitto del reato. Tuttavia, una volta stabilito che quando il profitto e il prezzo del reato è costituito da denaro, non occorre dimostrare il nesso di pertinenzialità tra le somme da sottoporre a sequestro e il reato, sicché non può evidentemente porsi un limite di carattere temporale all’esecuzione del sequestro, ma solo quello della concorrenza dell’importo complessivamente corrispondente al profitto o al prezzo del reato. Questa impostazione è stata sostanzialmente convalidata dalla Corte di cassazione[42] sul presupposto che le Sezioni unite Gubert e Lucci hanno affermato che, ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato. Si afferma come le Sezioni Unite Lucci abbiano sottolineato proprio la natura fungibile del bene, che si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche del percipiente ed è tale da perdere - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, il che rende superfluo accertare, come si è in precedenza già evidenziato, se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita; ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del beneficiario del profitto del reato si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo. Cosicché è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario. Quindi, soltanto nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, perché, in tal caso, si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore (non potendo l’oggetto della confisca diretta essere appreso, si legittima, così, l’ablazione di altro bene dell’imputato di pari valore). Da ciò l’ulteriore conseguenza che la confisca per equivalente, e prima ancora il sequestro finalizzato a detta confisca, ha funzione sussidiaria rispetto a quella tradizionale (confisca diretta) che ha connotati riparatori e finalità non repressive ma ripristinatorie dello status quo ante.

    5. Futuri scenari e conclusioni.

    Esaminate le ragioni che sono alla base dei segnalati orientamenti, la prima considerazione che se ne trae è che essi interpretano diversamente i dicta della sentenza Lucci. Inoltre, mentre per il primo indirizzo la sentenza Lucci sembrerebbe aver superato in parte qua alcune affermazioni contenute nella sentenza Gubert, per l’altro indirizzo le sentenze delle Sezioni unite disegnerebbero il medesimo percorso, impartendo principi complementari e, sulle medesime questioni, in perfetta sintonia tra loro.  Ciò induce l’interprete ad interrogarsi su un problema di fondo, che è rimasto “sottotraccia” in seno alla giurisprudenza di legittimità, ossia sul se, in questa materia, le due sentenze delle Sezioni unite siano in consonanza tra loro, se e quali le eventuali differenze e quale il rapporto tra le Sezioni semplici e le Sezioni unite, qualora le prime affermino principi contrastanti con quelli declinati dal massimo organo di nomofilachia, tenuto conto della regula iuris di cui all’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.

    Partendo da quest’ultimo argomento, che, in questa sede, può essere soltanto sfiorato, meritando un approfondimento a parte per i temi che esso richiede di affrontare[43], va immediatamente precisato che la disposizione pone un vincolo, la cui inosservanza è sfornita di sanzione processuale, nei confronti delle Sezioni semplici, vincolo che, indipendentemente dal fatto se sia ed in quale misura costituzionalmente legittimo, impone alle Sezioni semplici della Corte di rimettere alle Sezioni unite, con ordinanza, la decisione del ricorso quando le prime ritengano “di non condividere il principio di diritto enunciato” da queste ultime. Premesso che la disposizione mira ad assicurare la prevedibilità delle decisioni giudiziarie, attribuendo maggiore consistenza al “valore del precedente” declinato dalle Sezioni unite e premesso che la prevedibilità delle decisioni costituisce, in generale, un valore che va perseguito e che deve trovare forme che, all’interno dell’organizzazione giudiziaria, ne assicurino l’effettività, appare preferibile ritenere che il vincolo a carico della Sezione semplice sussista in stretta correlazione al principio di diritto enunciato, senza limiti temporali, dalle Sezioni unite ma per il quale la questione sia stata espressamente rimessa. Non è tuttavia chiaro se il vincolo sussiste in stretta relazione al principio così come espresso nella sua formulazione letterale o se si debba anche tenere conto dei passaggi motivazionali che sono stati posti a fondamento di esso. Appare preferibile la seconda soluzione e la problematica non è di poco momento se si considera che, qualora il vincolo si ritenga affrancato da limiti temporali, la questione rimessa alle Sezioni unite Lucci, per quanto qui interessa, fu così posta: “se, nel caso in cui il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario debba essere qualificata come confisca per equivalente ovvero come confisca diretta e, ove si ritenga che si tratti di confisca diretta, se, ed entro quali limiti, debba ricercarsi il nesso pertinenziale tra reato e denaro” e la soluzione fornita fu la seguente: “qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare  natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato”.

    Passando ora al secondo argomento, circa la sovrapponibilità o meno delle affermazioni contenute nelle sentenze Gubert e Lucci, va detto che, mentre quest’ultima ritiene che il profitto del reato si identifichi con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito[44], la Gubert, pur operando il riferimento a principi espressi dalle Sezioni semplici che evidentemente ha condiviso,  sostiene che, nella nozione di profitto funzionale alla confisca, rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata dell’attività criminosa[45], pur avendo in precedenza riconosciuto che, quanto alla determinazione del profitto nei reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa come quello derivante dal mancato pagamento del tributo[46]. Quanto alla fungibilità di un bene della vita (es. denaro), sembra che la nozione di fungibilità sia intesa in senso diverso nelle due sentenze. Dice la Gubert[47]: “deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta” e, per rafforzare l’assunto, subito dopo afferma: “qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l’adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengono dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell’indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalenti all’importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare”, principio, quest’ultimo, ampiamente condivisibile ma che sembra funzionale alla confisca di valore e non alla confisca diretta. Sul punto, significativamente, la sentenza Lucci afferma che, quanto al denaro, bene fungibile per eccellenza e mezzo di pagamento, i “flussi possono essere, entro certi limiti, tracciabili e ricostruibili”, lasciando intendere che anche il denaro può essere oggetto di identificazione materiale o fisica e tuttavia afferma, in maniera perentoria, che, ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo -  qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Successivamente, però, afferma che ciò che “rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma”, lasciando intendere che, ove ciò non si verifichi, non possono trarsi le auspicate conseguenze, ossia la legittimazione della confisca in forma diretta del relativo importo, aggiungendo tuttavia che “è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario” e concludendo che, “qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare  natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato”. In buona sostanza, la sentenza Lucci, da un lato, sembra che condivida i principi affermati dalla sentenza Gubert ma in tratti essenziali (concetto di fungibilità e tracciabilità del denaro, natura del profitto, accrescimento delle disponibilità monetarie) sembra tuttavia discostarsene.

    Conclusivamente, quest’ultimo aspetto ed il fatto che la sentenza Lucci, in se stessa considerata, è stata fatta oggetto di diverse letture, entrambe plausibili, consente di ritenere che il tema sia ancora aperto e che la parola, che si auspica ultima, passi nuovamente alle Sezioni unite, indipendentemente dal principio espresso dall’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.

        [1] L’importanza che la giurisprudenza di merito riveste nella materia dell’interpretazione della legge e

    nella ricostruzione esegetica degli istituti giuridici potrebbe ritenersi scontata. Essa tuttavia meriterebbe una riflessione “a parte”. Si deve infatti registrare come i buoni principi, che i giudici di merito declinano nel quotidiano esercizio delle funzioni, spesso si disperdano, restando racchiusi nelle pandette delle Cancellerie che periodicamente li raccolgono, non essendo i provvedimenti, dopo la loro pubblicazione, sempre editi dalle riviste giuridiche, che pure si occupano talvolta di massimarli o di annotarli, con criteri di selezione peraltro non conosciuti. Sarebbe perciò auspicabile che l’organizzazione giudiziaria, rafforzando gli organici Massimario, si attrezzi per selezionare, secondo il protocollo adottato dall’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione o in altro trasparente modo, i contributi offerti dalla giurisprudenza di merito, anche rivitalizzando il canale “Merito” del CED, in passato esistente.

    [2] Per un’analisi ex professo del tema, si rinvia alla relazione n. 41 del 17 giugno 2014 dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione, redattore Piero Silvestri, dal titolo: La nozione di profitto confiscabile nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

    [3] Sez.  U, n. 9149 del 03/07/1996, Chabni, Rv. 205707, secondo cui “deve ritenersi pacifica in dottrina e giurisprudenza la definizione dei concetti di prodotto, profitto e prezzo del reato contenuti nell’art. 240 c.p. Il prodotto rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato”. In precedenza le Sezioni Unite avevano fondato la distinzione sulla dicotomia prezzo – provento, quest’ultimo costituito dal prodotto o dal profitto, affermando che, in tema di confisca, il “prezzo” del reato, oggetto di confisca obbligatoria ai sensi del secondo comma dell'art. 240 cod. pen., concerne le cose date o promesse per indurre l'agente a commettere il reato, mentre il “provento” dello stesso è invece riconducibile alla previsione normativa della confisca delle cose che siano “il prodotto o il profitto del reato”, contenuta nel primo comma del suddetto art. 240 (Sez.  U, n. 1811 del 15/12/1992, dep. 1993, Bissoli, Rv. 192493).

    [4] Sez. U , n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, in motiv.

    [5] Sez.  U, n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, in motiv.

    [6] Sez.  U, n. 41936 del 25/10/2005 , Muci, in motiv.

    [7] Sez.  U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, Rv. 238700, Nel caso si specie, in tema di reato di concussione, il danaro era stato richiesto da un ufficiale di P.G. per l’acquisto di un immobile.

    [8] Sez.  U, n. 10280 del 25/10/2007, cit., in motiv.

    [9] Si tratta di un aspetto opportunamente rimarcato nella relazione del massimario, cit,.  dove si segnala come sia  fondato ritenere, che, aderendo alla concezione causale, la giurisprudenza delle Sezioni unite per lungo tempo e in molteplici occasioni, da un  lato, abbia richiesto, ai fini della confisca penale, un rapporto di pertinenzialità diretta del profitto con il reato, in forza del quale i beni da confiscare (anche per equivalente) sono stati determinati escludendo le maggiorazioni conseguenti ad attività ulteriori e non essenziali alla commissione del reato medesimo e, dall’altro, abbia attribuito alla derivazione causale del provento dal reato una valenza definitoria e delimitativa del concetto: il “profitto del reato” è tale in quanto, e solo in quanto, derivi causalmente dal reato medesimo. In tale quadro di riferimento, si sottolinea come, invece, nell’ambito della disciplina del d.lgs. n. 231 del 2001 sia stata maggiormente avvertita la necessità di una differente approccio metodologico nella individuazione della nozione di profitto del reato, privilegiando non già e non solo il profilo causale, quanto, piuttosto, i profili strutturali del medesimo, in quanto collegato ad attività economica imprenditoriale, come tale lecita.

    [10] Il riferimento è all’articolo 618, comma 1-bis, cod. proc. pen. in forza del quale se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso.

    [11] v. sub nota 7.

    [12] Sez.  U, n. 26654 del 27/03/2008 Fisiaimpianti, Rv. 239924

    [13] Sez.  U, n. 26654 del 27/03/2008 cit., Rv. 239927

    [14] In particolare, Sez.  U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, in motiv.

    [15] V. Sez. U. n. 920 del 19/01/2004, Montella, in motiv.)

    [16] Sez.  U, n. 10280 del 25/10/2007, Miragliotta, cit.

    [17] Ciò è accaduto a seguito della previsione di cui all’art. 1, comma 143, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244 (ora art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000), rendendo applicabile l’art. 322-ter cod. pen. ai reati tributari.

    [18] Sez.  U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036

    [19] A proposito del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all'art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000.

    [20] cfr. Sez.  5, n. 1843 del 10/11/2011, dep. 2012, Mazzieri, Rv. 253480; Sez.  3, n. 11836 del 04/07/2012, dep. 2013, Bardazzi, Rv. 254737.

    [21] Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014. In dottrina cfr. L. DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Dir. Pen. Cont., 13 novembre 2010; F. MUCCIARELLI, C. E. PALIERO, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in Dir. Pen. Cont. Riv. Trim, 4, 2015, p. 255; M. ROMANO, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir e Proc. Pen., 4, 2015, pag. 1674 e ss.

    [22] Sez. 6, n. 30966 del 14/06/2007, Puliga, Rv. 236984 secondo cui, nel caso in cui il profitto del reato (di concussione) fosse costituito da denaro, il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell’imputato è legittimamente operato in base alla prima parte dell’art.322-ter, comma primo, cod. pen.; Sez. 3, n. 1261 del 25/09/2012, dep. 2013, Marseglia, Rv. 254175, secondo cui , in tema di reati tributari, qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare; Sez. 6, n. 23773 del 25/03/2003, Madaffari, Rv. 225757 secondo cui è ammissibile il sequestro preventivo, ex art. 321 cod. proc. pen., qualora sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di nascondere con il più semplice degli artifizi;  Sez. 2, n. 45389 del 06/11/2008, Perino, Rv. 241973 secondo cui, in tema di sequestro preventivo, nella nozione di profitto funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa; Sez. 6, n. 4114 del 21/10/1994, dep. 1995, Giacalone, Rv. 200855 secondo cui la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Secondo questa impostazione, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa.

    [23] Come si è visto, le Sezioni unite avevano ritenuto che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen., costituisse “profitto” del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro fosse causalmente collegabile al reato e fosse soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo (Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, cit.).

    [24] Sez.  U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436.

    [25] Sez.  U, n. 31617 del 26/06/20, Lucci, Rv. 264437.

    [26] Sez.  3, n. 39177 del 08/05/2014, Civil Vigilanza, non mass. sul punto, in motiv.

    [27] Sez. 3, n. 28223 del 09/02/2016, Scarpellini, non mass., in motiv.

    [28] cfr. P. VENEZIANI, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. Pen., 4, 2017, p. 1694 e ss.

    [29] Sez.  3, n. 8995 del 30/10/2017, dep. 2018, Barletta, Rv. 272353.

    [30] Sez.  3, n. 41104 del 12/07/2018, Vincenzini, Rv. 274307. Nel caso di specie, si trattava del reato di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in cui è stato escluso che le somme di denaro depositate sul conto corrente dopo la scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione IVA potessero rappresentare il profitto derivante dall'evasione fiscale.

    [31] Sez. 3, n. 6348 del 04/10/2018, dep. 2019, Torelli, Rv. 274859.

    [32] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, Sena, in corso di massimazione.

    [33] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, cit.

    [34] Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, cit.

    [35] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, cit.

    [36] Sez. 6, n.6816 del 20/01/2019, cit.

    [37] Trib. Riesame Siracusa, ord. 17/10-30/10/2018, v. sub §2.

    [38] Ex multis, Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, Salvini, non mass.

    [39] E’ il caso di precisare che il ragionamento è sviluppato tenendo conto del contenuto del motivo di ricorso sviluppato, con ineccepibile logica giuridica, dalla Procura della Repubblica di Genova nel procedimento definito con la sentenza Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit., in quanto in linea con le tesi recepite dall’indirizzo giurisprudenziale che si sta qui esaminando. Sul punto, v. Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit., nella parte relativa al ritenuto in fatto.

    [40] In dottrina: P. VENEZIANI, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. Pen., 4, 2017, p. 1694 e ss.; A. MACCHIA, Le diverse forme di confisca: personaggi (ancora) in cerca d’autore, in Cass. Pen., 7-8, 2016, pag. 2719 e ss.; G. BIONDI, La confisca per equivalente: pena principale, pena accessoria o tertium genus sanzionatorio? In Dir. Pen. Cont. Riv. Trim., 5, 2017, p. 51 e ss.; L. DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Dir. Pen. Cont, 13 novembre 2010; P. AURIEMMA, La confisca per equivalente, in Archivio Penale, 1, 2014; F. PALAZZO, in Cass. Pen., 2, 2018, p. 461 e ss.; M. ROMANO, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir e Proc. Pen., 4, 2015, pag. 1674 e ss.

    [41] Sez.  U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258648.

    [42] Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, cit.

    [43]G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni unite e principio di diritto in www.penalecontemporaneo.it, 2018; F. Paglionico, Il precedente vincolante e la rimessione obbligatoria alle Sezioni Unite: tra tradizioni giuridiche e spinte europeiste, in www.iusitinere.it, 2018, secondo cui si impone una necessaria analisi dei profili di compatibilità del precedente vincolante con i caratteri distintivi del nostro ordinamento giuridico, in cui l’adesione al precedente avviene in virtù della sua persuasività, determinata dall’autorevolezza riconosciuta alle decisioni dell’organo da cui promanano, e non perché la legge imponga un obbligo ai giudici, previsione che, peraltro, si porrebbe in contrasto con la regola costituzionale secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 comma 2 Cost.); Nello stesso senso, C. Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione? in Giur.it., ottobre 2017, 2300, ove si sottolinea che «le modifiche legislative apportate nella direzione dell’affermazione della vincolatività del principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione rischiano di erigere a fonte del diritto penale o del diritto processuale penale le stesse Sezioni Unite. Se da un lato vi è l’esigenza di garantire la prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali, dall’altro vi è la inderogabilità dei principi fondanti lo Stato di diritto: il bilanciamento presuppone che l’adesione ai dicta delle Sezioni Unite avvenga per convinzione e non per legge»;  G. Civinini, Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Questione Giustizia, 2018; A, Caligaris, Le modifiche all’art. 618 cpp: verso un effettivo ed auspicato potenziamento della funzione nomofilattica, in Legislazione penale, 2018; M. Giualuz, Alla ricerca di soluzioni per una crisi cronica: sezioni unite e nomofilachia dopo la "riforma Orlando", in processo penale e giustizia, 2018.

    [44] Sez.  U, n. 31617 del 26/06/2015, cit., Rv. 264436.

     [45] Pagine 9 e 10 della motivazione.

    [46] Pagina 8 della motivazione.

    [47] Pagina 9 della motivazione.

     

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