GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Difetto strutturale dell’ordinamento nazionale rispetto al ne bis in idem, tra obblighi di cessazione e di riparazione: qualche osservazione su Corte dir.uomo, Korneyeva c. Russia

    Difetto strutturale dell’ordinamento nazionale rispetto al ne bis in idem, tra obblighi di cessazione e di riparazione: qualche osservazione su Corte dir.uomo,Korneyeva c. Russia.
    di Diego Mauri    

    SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Dalla partecipazione alla manifestazione non autorizzata al doppio processo, sino alla doppia condanna: le violazioni degli artt. 5 e 6 CEDU; 3. Ne bis in idem sostanziale e concorso di norme nella CEDU; 4. Le statuizioni ex art. 46, par. 1, CEDU: la portata degli obblighi di riparazione e di cessazione dell’illecito.

    1. Introduzione  

    Con la sentenza resa nel caso Korneyeva c. Russia[1], la Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte edu) ha accertato la violazione, da parte della Russia, dei diritti sanciti dagli artt. 5 (diritto alla libertà personale), 6 (equo processo) e 4 Protocollo 7 (diritto a non essere puniti due volte per lo stesso fatto – c.d. ne bis in idem) della CEDU. La ricorrente del caso in esame è una donna russa tratta in arresto, quindi processata e infine condannata, per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata contro il presidente della Federazione.

      Due sono i profili di maggiore interesse sollevati dalla pronuncia appena citata. Il primo attiene alla portata del diritto a non essere giudicati o puniti due volte per un medesimo fatto (recte, “offesa”, stando alla lettera della disposizione di cui all’art. 4 Protocollo 7 CEDU), rispetto al quale la Corte in realtà conferma – sollevando spunti di rilievo, come si vedrà, anche per l’ordinamento italiano – il proprio indirizzo giurisprudenziale. Il secondo – quello su cui si porrà maggiormente attenzione – involge la questione delle violazioni c.d. “strutturali” della CEDU e, in particolare, degli obblighi incombenti sugli Stati parte di adottare misure individuali e generali per porre fine alla violazione e rimediare alla medesima, ai sensi dell’art. 46 CEDU.    

    2. Dalla partecipazione alla manifestazione non autorizzata al doppio processo, sino alla doppia condanna: le violazioni degli artt. 5 e 6 CEDU  

    I fatti da cui è originata la vicenda di specie possono essere riassunti come segue. La ricorrente – appena più che ventenne all’epoca dei fatti – si ritrova coinvolta in una manifestazione di protesta (pacifica, ma non autorizzata dalle competenti autorità russe) a San Pietroburgo, il 12 giugno 2017. Le forze dell’ordine, sopraggiunte sul luogo, accerchiano i manifestanti e ogni altro individuo lì presente (tra cui la ricorrente), li prelevano e li conducono alla stazione di polizia, per procedere alla loro identificazione e alle rispettive contestazioni.  

    In particolare, alla ricorrente vengono contestati gli illeciti di cui agli artt. 19.3 par. 1 e 20.2 par. 5 del Codice federale russo sugli illeciti amministrativi (d’ora in avanti anche solo “Codice”). La prima disposizione punisce l’inosservanza dell’ordine legittimo dell’autorità nell’esercizio delle proprie funzioni; la seconda, invece, l’inosservanza, da parte dei partecipanti, della procedura prevista per lo svolgimento di un evento pubblico. Anticipando un aspetto di rilievo per le doglianze sollevate dalla ricorrente (e in particolare per quella sub art. 4 Protocollo 7 CEDU), è bene osservare come, a dispetto della qualificazione normativa di tali illeciti (e delle relative sanzioni) come “amministrativi”, la Corte perviene a considerarli come “sostanzialmente” penali alla luce dei noti criteri Engel (cfr. par. 53)[2]. Sulla base di tali contestazioni, la ricorrente – nel frattempo mantenuta in vinculis per poco più di ventiquattro ore – viene processata dalla medesima autorità giudiziaria in due distinti procedimenti e condannata, in data 16 giugno 2017, con due distinti provvedimenti, alle pene pecuniarie corrispondenti, rispettivamente, a Euro 7 e 140.      

    Nel proprio atto di impugnazione avverso tali statuizioni, la ricorrente solleva due censure. Da un lato, lamenta la mancata possibilità di interrogare come testi, nel corso del giudizio di prime cure, gli agenti di polizia che avevano proceduto all’arresto e redatto il verbale contenente le contestazioni e, dunque, la circostanza secondo cui la condanna sia avvenuta sulla base esclusiva degli atti di indagine, cioè di dichiarazioni extra-processuali. Dall’altro lato, la ricorrente eccepisce la violazione del principio del ne bis in idem, riconosciuto, in effetti, dall’art. 4.1 par. 5 del Codice con riferimento agli illeciti di natura amministrativi ivi disciplinati. Né la prima né la seconda doglianza vengono accolte dal giudice di seconde cure che, con due distinte decisioni, conferma le statuizioni del primo grado.  

    Esaurite pertanto le vie di ricorso approntate dall’ordinamento russo, la ricorrente avvia il contenzioso convenzionale. Posto che la doglianza sub art. 4 Protocollo 7 sarà trattata funditus e separatamente nel prosieguo, ci si limiterà ora, per mere esigenze di completezza, a riassumere i motivi di ricorso e le relative statuizioni della Corte sub artt. 5 e 6 CEDU.  

    Quanto alla doglianza relativa al diritto alla libertà personale di cui all’art. 5, par. 1, CEDU, per la Corte è piuttosto agevole rintracciare, nella condotta delle autorità russe coinvolte, gli elementi per affermare l’avvenuta violazione. La Corte analizza separatamente la traduzione della ricorrente alla stazione di polizia ai fini della compilazione del verbale contenente le contestazioni e il suo successivo mantenimento in vinculis: per entrambi i momenti, le autorità russe non hanno fornito adeguate motivazioni circa l’esigenza di comprimere, seppur per un periodo di tempo limitato, la libertà personale della ricorrente.  

    Quanto alla lamentata violazione del diritto all’equo processo, sotto il profilo della mancata partecipazione alle udienze della parte titolare (alla pari del Pubblico Ministero) dell’accusa e, dunque, del canone di imparzialità, la Corte si limita a richiamare per relationem la propria giurisprudenza[3] e perviene, così, ad affermare la responsabilità della Russia.  

     

    3. Ne bis in idem sostanziale e concorso di norme nella CEDU  

    3.1 Il caso di specie 

    Il vero epicentro della sentenza in commento e del suo “merito” è costituito dal ne bis in idem quale diritto fondamentale sancito dall’art. 4 Protocollo 7 CEDU. Come si è già detto supra, la ricorrente risulta essere stata soggetta a due distinti procedimenti (sostanzialmente “penali”) per la condotta tenuta in occasione della manifestazione non autorizzata a San Pietroburgo: non aver ottemperato all’ordine di dispersione intimato dalle autorità russe ai partecipanti (rilevante ex art. 19.3 par. 1 Codice) e non aver rispettato gli obblighi relativi allo svolgimento di manifestazione (rilevante ex art. 20.2 par. 5 Codice).  

    Per impiegare una terminologia vicina all’operatore del diritto italiano, si può dire che il caso di specie solleva un problema di concorso formale di illeciti: con la medesima condotta, infatti, la ricorrente risulta aver violato due diverse disposizioni del Codice.  

    Non pare inutile, a questo punto, procedere a un rapido richiamo della giurisprudenza convenzionale in punto di ne bis in idem e concorso di norme, tralasciando – ma solo perché non direttamente sollevato dal caso in commento – il filone relativo al c.d. “doppio binario sanzionatorio”, ben presente nella riflessione dottrinale e nella prassi giudiziaria italiana[4]. In effetti, com’è stato correttamente osservato, l’approccio interpretativo dei giudici di Strasburgo è contrassegnato da “significative oscillazioni[5].

      Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale[6], oggi abbandonato, il divieto di doppia sottoposizione a processo o pena si declinava in senso prettamente formale: ciò che rilevava era la medesimezza (idem) della contestazione (“infraction” secondo il testo francese, “offence” secondo il testo inglese) e non del fatto materiale in sé. Ne conseguiva che, ai fini del giudizio circa l’idem formale, assumevano rilievo, a seconda dei casi, non solo il fatto storico in sé, ma pure la classificazione normativa della condotta nonché elementi comuni alle fattispecie che venivano, di volta in volta, in rilievo. Insomma, una selva di indici in cui l’interprete si trovava a districarsi con parecchia difficoltà.  

    Proprio per risolvere tali difficoltà e, in ultima analisi, scongiurare non immateriali pericoli di incertezza giuridica, la giurisprudenza di Strasburgo si decise ad operare un deciso revirement con la sentenza resa, dalla Grande Camera, nel caso Sergey Zolotukhin c. Russia[7]. Qui la Corte edu sposò appieno un approccio fondato non più sull’idem legale, bensì sul c.d. idem factum: ciò che la garanzia di cui all’art. 4 Protocollo 7 CEDU vieta è la doppia sottoposizione a processo o pena per fatti identici o fatti che siano sostanzialmente i medesimi. Assume rilievo, in altre parole, l’identità materiale del fatto, data dalla medesimezza sia della condotta tenuta dall’imputato sia del contesto spaziale e temporale in cui la stessa si colloca, e non le (eventualmente) plurime qualificazioni normative[8]. Volendo rendere ragione di tale mutamento ermeneutico, non può tacersi, in aggiunta alla già menzionata esigenza di evitare applicazioni incerte della garanzia, anche l’opportunità di favorire un’interpretazione teleologicamente orientata della medesima, attenta, cioè, a che la qualificazione normativa della condotta non produca l’effetto di comprimere i diritti individuali e, soprattutto, l’effettività dei medesimi[9]. Vale la pena segnalare che tali rilievi furono costantemente posti alla base della giurisprudenza successiva, anche con riguardo a quella attinente al doppio binario sanzionatorio[10].  

    Tornando quindi al caso di specie, la Corte in effetti si confronta con l’argomento, sollevato dal Governo russo, circa la necessità di mantenere un approccio formale alla questione: in altre parole, le deduzioni della Russia si concentrano sulla diversità di – per usare, di nuovo, una formula nota – “bene giuridico” protetto dalle due disposizioni del Codice (parr. 45 e 62). L’operatività dell’istituto del concorso formale, insomma, sarebbe giustificato dalla necessità di assicurare “distinct types or areas of protection pertaining to each offense” (par. 62).  

    Rispetto a tale argomento, la Corte edu ha gioco facile nell’osservare come sia stata, di recente, la stessa Corte suprema russa, nella sua formazione plenaria, ad aver adottato un indirizzo ermeneutico volto, in maniera decisa, a rigettare l’applicazione dell’istituto del concorso formale tra le norme di cui agli artt. 19.3 par. 1 e 20.2 par. 5 Codice. Con sentenza del giugno 2018 (richiamata al par. 60), dunque successiva ai fatti di cui al ricorso di specie, il giudice russo ha infatti ritenuto – pur non facendo espresso riferimento al principio del ne bis in idem – che le due fattispecie si trovino in rapporto di specialità, ritenendo cioè che il disvalore condensato nella condotta sanzionata dalla prima delle disposizioni di cui sopra sia integralmente assorbito dalla seconda disposizione. Dunque, in casi quali quello di specie, solo l’art. 20.2 par. 5 Codice – e la sanzione ivi prevista – deve trovare applicazione.  

    La Corte edu sposa in toto tale indirizzo ermeneutico e, constatato come, alla luce di questo, la ricorrente sia stata sottoposta a processo e dunque condannata due volte per i medesimi fatti, conclude per l’avvenuta violazione dell’art. 4 Protocollo 7 CEDU. Si tratta, infatti, di condotte “sovrapposte” (par. 62) e di fatti che, al netto delle varie qualificazioni giuridiche, si presentano come “substantially the same” (ibidem).    

    3.2 Il ne bis in idem nell’ordinamento italiano: qualche rilievo costruttivo e qualche spunto critico  

    Siano ora consentiti alcuni (fugaci, per il vero) rilievi a partire dall’esperienza italiana, proiettandoci sul piano penalistico in ragione della natura – “sostanzialmente penale” – delle fattispecie analizzate a partire dal caso di specie. Come insegna la più illuminata dottrina, le regole che presidiano gli istituti del concorso formale e del concorso apparente di norme non sono esenti da rilievi critici, quantomeno per quel che attiene al rischio di “incertezze applicative[11] suscettibili di contrastare col principio del ne bis in idem[12].  

    Rimanendo sul piano processuale, la garanzia del ne bis in idem è condensata all’art. 649 c.p.p., il quale preclude l’esercizio dell’azione penale per lo stesso “fatto” nei confronti dell’individuo già prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile. A fronte di un dato testuale per il quale la diversa qualificazione giuridica – cioè il titolo – del fatto non ne muta l’identità, la giurisprudenza di legittimità ha a lungo seguito un indirizzo ermeneutico che, rispetto a ipotesi di concorso formale, esclude l’applicazione della garanzia[13]. Una decisiva inversione di rotta è stata di recente operata dal Giudice delle leggi, il quale, con la sentenza n. 200 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 647, co. 1, c.p.p., per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. (e col parametro interposto offerto dall’art. 4 Protocollo 7 CEDU), “nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale[14]. Con questa pronuncia, la Corte costituzionale ha inteso intervenire in un “diritto vivente” contrassegnato da orientamenti contrapposti, al fine di confutare quello – invero minoritario – che, nel valutare il “fatto”, dava spazio non solo alla “dimensione storico-naturalistica” del medesimo (secondo la triade condotta / nesso causale / evento naturalistico)[15], ma anche alle “implicazioni penalistiche” (cioè, alla qualificazione giuridica) dell’accadimento. Così facendo, tale orientamento finiva infatti per ripiegare su un concetto di idem legale in distonia con l’idem factum elaborato dalla medesima Corte costituzionale (oltre che dal giudice convenzionale)[16].

      La pronuncia di costituzionalità, poi, aggiunge importanti rilievi anche per quel che concerne il ne bis in idem sostanziale. Riscontrato che i due profili (processuale e sostanziale) si trovano di fatto  “saldati” nel diritto vivente, la Corte costituzionale rileva come l’alternativa tra concorso formale e concorso apparente di norme non possa essere risolta sulla base di un mero raffronto tra “ben[i] giuridic[i] tutelat[i] dalle convergenti disposizioni penali” poiché ciò segnerebbe “l’abbandono dell’idem factum, quale unico fattore per stabilire se sia applicabile o no il divieto del ne bis in idem”[17]. E tutto ciò, si badi, anche alla luce della giurisprudenza convenzionale, vera e propria “stella polare” del ragionamento dei giudici di Palazzo della Consulta.  

    Analogo discorso vale per la giurisprudenza di legittimità successiva alla censura di costituzionalità di cui sopra. Non mancano infatti, nelle pronunce di cassazione, puntuali raffronti con l’art. 4 Protocollo 7 CEDU così come interpretato dalla Corte edu. Ad esempio, chiamata a pronunciarsi, nel suo massimo consesso, sul rapporto tra truffa aggravata ex art. 640-bis c.p. e malversazione ex art. 316-bis c.p.[18], la Cassazione ha concluso come la giurisprudenza di Strasburgo non imponga l’adozione di criteri di concorso tra norme differenti rispetto a quelli presenti nel codice, segnatamente quello della lex specialis di cui all’art. 15 c.p., e che quindi la soluzione del concorso formale tra le disposizioni di cui sopra non si possa ritenere di per sé convenzionalmente censurabile, posta la diversità strutturale delle fattispecie (cioè: l’assenza di idem factum intesa come medesimezza storico-naturalistica) e fermo il rispetto della proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata[19]. Con ciò allineandosi perfettamente a quell’orientamento – favorito, come si è visto, non solo a Roma, ma anche a Strasburgo – che esclude efficacia dirimente alla differenza tra “beni giuridici” protetti dalle due norme incriminatrici[20].  

    Ritornando ora alla prospettiva convenzionale, dunque, quel che conta ai fini della non duplicazione della risposta sanzionatoria (cioè, del ne bis in idem sostanziale) è il rispetto degli indici formulati dalla Corte edu a partire (quantomeno) dalla celebre pronuncia nel citato caso A e B c. Norvegia[21]. Rilevano, in particolare, quelli del grado di interazione tra procedimenti diversi (soprattutto in punto di valutazione del compendio probatorio), della proporzionalità della sanzione finale e della prevedibilità della duplicazione sanzionatoria come conseguenza, sia di diritto che di fatto, della medesima condotta.  

    Posto che in sostanza la giurisprudenza italiana in tema di idem factum non pare oggi in contrasto con l’indirizzo convenzionale, un profilo critico cui si dovrebbe porre mente riguarda proprio l’ultimo degli indici che precedono, quello della prevedibilità dell’applicazione dei criteri di concorso, peraltro connesso a stretto filo con il principio di legalità della sanzione (penale)[22]. Infatti, quanto più il ricorso pretorio ai criteri di concorso tra norme (specialità, nelle sue plurime declinazioni; sussidiarietà; consunzione o assorbimento) faticherà a liberarsi dalle “incertezze applicative” di cui sopra, in contrasto con i principi di legalità e tipicità della fattispecie, tanto più la statuizione finale potrebbe non riuscire a porsi al riparo da censure convenzionali. È, questo, un punto che dovrebbe richiamare all’attenzione tutti gli operatori del diritto interno.    

    4. Le statuizioni ex art. 46, par. 1, CEDU: la portata degli obblighi di riparazione e di cessazione dell’illecito  

    Il richiamo al recente indirizzo giurisprudenziale della Corte suprema russa fornisce altresì lo spunto per affrontare l’ultima – ma, ai fini del presente scritto, centrale – questione analizzata dalla Corte edu nel caso di specie, vale a dire l’adozione, da parte dello Stato responsabile di una violazione di diritti sanciti nella CEDU, di misure, sia individuali che generali, finalizzate alla cessazione della violazione e alla riparazione dell’illecito commesso.  

    Ciò su cui pare utile porre l’attenzione, per inserire la pronuncia in esame nel quadro più generale della giurisprudenza convenzionale, è la natura “strutturale” dell’illecito di cui si è accertata, nel caso di specie, l’esistenza. Di essa dunque, si renderà conto per inquadrare gli obblighi derivanti dall’accertamento di siffatta violazione, segnatamente di approntare un adeguato rimedio (4.1) e di cessare la condotta illecita (4.2).  

    4.1 La nozione e la portata di violazione “strutturale” della Convenzione e l’obbligo di riparazione  

    L’obbligo di adottare le misure così indicate dalla Corte discende, com’è noto, dal più generale obbligo di conformarsi alle sentenze pronunciate dall’organo di controllo ai sensi e per gli effetti dell’art. 46, par. 1, CEDU[23]. Laddove, infatti, la Corte edu rintracciasse l’esistenza di una violazione c.d. strutturale – derivante, cioè, da un vero e proprio difetto dell’intero ordinamento giuridico dello Stato interessato tale da cagionarne, sia nel caso individuale sia in una pluralità di casi analoghi, un malfunzionamento –, essa, oltre a provvedere in punto di equa soddisfazione per il ricorrente vittorioso ex art. 41 CEDU, potrebbe altresì indicare allo Stato le misure da adottare per porre fine e rimediare a tale difetto strutturale[24]. Ciò in quanto, com’è facilmente intuibile, la mancata correzione di un vizio strutturale dell’ordinamento non può che comportare la violazione “a nastro” di diritti sanciti nella CEDU e, per l’effetto, la presentazione di un numero indefinito (e, tendenzialmente, elevato) di ricorsi a Strasburgo. Detto altrimenti, in materia di diritti umani l’obbligo di riparazione – obbligo c.d. secondario contenuto in una norma consuetudinaria codificata all’art. 31 del Progetto di Articoli sulla Responsabilità dello Stato per illeciti internazionali (d’ora in avanti: Progetto)[25] – non si indirizza unicamente alla vittima (o alla vittime dell’illecito), ma, laddove siano in gioco violazioni “strutturali”, è suscettibile di proiettarsi in una dimensione rimediale “super-individuale”.  

    Guardando ora alla prassi convenzionale in materia, questa si presenta assai ricca. Rispetto all’esigenza da ultimo menzionata, la Corte, ad esempio, ha avviato, a partire dal noto caso Broniowski, una sperimentazione della procedura c.d. pilota, che prevede la sospensione del procedimento a Strasburgo al fine di consentire, allo Stato, di approntare le misure necessarie per correggere il vizio in questione[26]. Ben più interessanti, però, sono quei casi in cui, pur non attivando la procedura de qua, la Corte nondimeno, nella motivazione o financo nel dispositivo, afferma – sia pure con quello che è stato definito un “lieve tocco di mano[27] – l’esistenza di violazioni strutturali. Si è parlato, talvolta, di procedure “quasi-pilota”[28] e, in molti altri casi, di violazioni strutturali “invisibili”, in cui, pure a fronte di difetti sistematici dell’ordinamento, la Corte edu non si spinge a imporre allo Stato di adottare misure generali, limitandosi ai soli profili attinenti il rimedio della situazione individuale del ricorrente[29].  

    Di questo ultimo fascio di casi si potrebbe citare l’esempio offerto dalla recentissima sentenza pronunciata in Viola c. Italia (n. 2)[30], in cui la Corte edu, preso atto dell’esistenza di un difetto strutturale nel nostro ordinamento (segnatamente, il regime ostativo previsto per condannati all’ergastolo per alcuni delitti, ritenuto in contrasto con l’art. 3 CEDU), ha esortato l’Italia a trovare un rimedio “de préférence par initiative législative[31] pur senza adottare misure generali ex art. 46 CEDU. In Italia, per il vero, il nodo dell’esecuzione delle pronunce convenzionali accertanti un difetto “strutturale” dell’ordinamento – e suscettibili, dunque, di proiettarsi verso una moltitudine di casi analoghi (i c.d. “fratelli minori” del ricorrente vittorioso a Strasburgo) – è già da tempo avviato[32].  

    Venendo al caso in commento, è facile vedere come la violazione lamentata dalla ricorrente costituisca il diretto precipitato di un difetto strutturale nell’ordinamento russo e, segnatamente, di una scorretta – in quanto incompatibile con la Convenzione – interpretazione degli artt. 19.3 e 20.2 del Codice: applicare la regola del concorso formale tra illeciti e non il criterio della specialità tra i medesimi, si è detto, costituisce violazione del ne bis in idem. Trattandosi allora di “diritto vivente” russo, è ragionevole attendersi che in tale situazione versi una pluralità indefinita di individui – e infatti, la Corte stessa afferma essere pendenti oltre cento ricorsi analoghi a quello di specie (par. 68).  

    Se così è, ci si poteva aspettare l’adozione di misure generali o, addirittura, l’attivazione della procedura pilota. Così non è stato: la Corte edu ha infatti ritenuto non necessario procedere nei sensi indicati sopra, in quanto un (possibile) rimedio è già presente, in una qualche misura, nell’ordinamento russo, e a questo deve rivolgersi – innanzitutto – la vittima.  

    Procediamo con ordine. La violazione dell’art. 4 Protocollo 7 CEDU si materializza a partire dall’esistenza – e dalla vigenza, intesa come idoneità a produrre effetti giuridici propri – di due giudicati di condanna (bis) nei confronti del medesimo soggetto e per fatti sostanzialmente identici (idem). Un primo rimedio, dunque, ben potrebbe essere la “rescissione” del giudicato dal quale dipende la violazione convenzionale, da ottenersi mediante l’attivazione delle procedure interne previste per la riapertura dei processi: in numerosi casi, ormai, la Corte edu ha invocato disposizioni interne, sia in ambito penale che civile e amministrativo, per rimuovere la res judicata per gli effetti di cui agli artt. 41 e 46 CEDU[33].  

    In effetti, nel Codice è disciplinato l’istituto del riesame di pronunce passate in giudicato (art. 30.12); il punto, sollevato dalla Corte, è che, a differenza di altri codici della Federazione, tale disposizione non contempla espressamente l’ipotesi di riapertura del procedimento per conformarsi a una sentenza dell’organo di controllo della CEDU che accerti la violazione di un diritto sancito nella Convenzione (par. 69). Tuttavia, continua la Corte, in seguito alla pronuncia della Corte suprema russa del giugno 2018, almeno un giudice competente per il riesame ex art. 30.12 Codice ha applicato il principio del ne bis in idem contemplato dall’art. 4.1 par. 5 Codice per allinearsi al criterio di specialità enunciato dalla Corte suprema (parr. 70 e 26). In altre parole, al ricorrente è già aperta la via per un riesame avanti la competente corte regionale, ferma restando la possibilità, per il Governo russo, di approntare rimedi ad hoc per correggere il difetto strutturale dell’ordinamento (parr. 71 e 72).  

    A commento di quanto appena sopra, può dirsi che nell’ordinamento russo il rimedio, a quanto consta, c’è; il punto fondamentale è che, all’indomani dell’accertamento della violazione convenzionale, esso deve anche… vedersi. Come ciò avvenga (se con il rimedio individuato dalla Corte o con altri), dipende(rà) dalla Russia, cui la Corte edu riconosce, come sovente avviene in questi casi, un certo margine di apprezzamento[34]. Tale statuizione si colloca, come pare a chi scrive, nell’alveo di una genuina applicazione del principio di sussidiarietà – vera architrave del sistema convenzionale, anche se, di recente, pretestuosamente invocata per limitare il sindacato dell’organo di controllo[35] – attenta a spingere le autorità interne ad assicurare l’adempimento dell’obbligo di adottare le misure conformative richieste.  

    4.2 La portata dell’obbligo di cessazione dell’illecito strutturale  

    In aggiunta all’obbligo di riparazione, nella peculiare configurazione con cui esso si presenta in casi di violazioni strutturali, tra gli obblighi secondari discendenti dalla violazione del diritto internazionale vi è pure quello di cessare la condotta costituente illecito; si tratta, anche qui, di un obbligo consolidato nel diritto consuetudinario (art. 30, lett. a, Progetto). È stato notato come, nello specifico settore dei diritti umani, l’obbligo di cessazione dell’illecito fatica ad acquisire autonomia dall’obbligo di riparazione: molto spesso, infatti, gli obblighi si trovano condensati in una sorta di endiadi senza che l’uno produca effetti distinguibili dall’altro[36].  

    In effetti, nella giurisprudenza della Corte edu i due obblighi si trovano spesso giustapposti. Quando la Corte intima l’adozione di una misura per interrompere la condotta che incide negativamente su un diritto, questa (misura) è inquadrabile facilmente, al contempo, sia come riparazione/restituzione sia come cessazione dell’illecito. Si pensi al caso Assanidzé, in cui la Corte ha ritenuto che l’unica misura idonea a porre fine (“to put an end”, come nel caso di specie) alla violazione convenzionale (segnatamente, del diritto alla libertà personale) fosse proprio la scarcerazione del ricorrente “at the earliest possible date[37]. Ugualmente, nei casi concernenti la rescissione del giudicato interno gli obblighi si fondono l’uno con l’altro: rompere una res judicata formatasi in contrasto – o comunque contrastante – con un diritto sancito nella Convenzione vuol dire, al medesimo tempo, riparare e cessare l’illecito.  

    Si è, a questo punto, del tutto legittimati a chiedersi se, al netto di inquadramenti teorici più o meno convincenti, abbia una qualche… utilità pratica ricondurre la misura individuale o generale de qua nell’alveo dell’obbligo di riparazione in luogo di quello di cessazione.  

    Dal punto di vista del diritto internazionale generale, la risposta è sicuramente affermativa. L’obbligo di riparazione, nella sua specifica configurazione di obbligo di restitutio in integrum, è infatti soggetto ad alcuni limiti, segnatamente quello della proporzionalità: non si può esigere, dallo Stato autore dell’illecito, la restituzione se essa è materialmente impossibile o troppo onerosa (art. 35 Progetto). Al contrario, l’obbligo di cessazione non è soggetto a limiti di proporzionalità: in altre parole, cessare di commettere un illecito non è mai considerato materialmente impossibile o eccessivamente oneroso, e ciò in quanto, come correttamente messo in luce dalla dottrina, in quanto tale obbligo è strettamente connesso all’adempimento dell’obbligo primario (cioè della norma internazionale che si è violata)[38].  

    Anche dal punto di vista del diritto convenzionale, peraltro, si è raggiunto un risultato non dissimile. In materia di rescissione del giudicato e, in particolare, di predisposizione di uno strumento ad hoc in ordinamenti che non ne possiedono, la Corte edu, ad esempio nel caso Laska e Lika, si è spinta sino a disegnare un vero e proprio obbligo positivo di introdurre un siffatto strumento[39]: non solo dunque lo Stato non può invocare l’impossibilità materiale o eccessiva onerosità, ma il proprio margine di apprezzamento è, in ogni caso, limitato dall’esigenza di far cessare immediatamente la condotta illecita (che equivale, si è detto, a fornire un rimedio adeguato).   

    Riportando l’attenzione sul caso di specie, la Corte edu non si spinge sino a tanto. Né ciò deve stupire, in realtà, posta l’esistenza di un possibile rimedio interno cui il ricorrente potrebbe far ricorso per eliminare gli effetti pregiudizievoli del mantenimento di due giudicati di condanna per i medesimi fatti – cioè, per ottenere la cessazione dell’illecito. Vale però la pena mettere in risalto due circostanze.  

    Primo, se pure è vero che la Corte riconosce un certo margine di apprezzamento alla Russia ai fini dell’adozione di misure ex art. 46 CEDU, ciò non toglie che l’obbligo di predisporre uno strumento di rescissione del giudicato contrario a Convenzione, se inquadrato sotto il profilo dell’obbligo di cessazione, potrebbe essere strategicamente invocato dalla ricorrente in sede di riesame ex art. 30.12 Codice. Pur a fronte di un indirizzo giurisprudenziale interno ancora da consolidarsi, si potrebbe sostenere, nel senso di un’interpretazione convenzionalmente orientata della normativa interna, che la Russia è tenuta a porre immediatamente fine all’azione contraria al ne bis in idem, ciò che potrebbe utilmente prodursi proprio a partire dalla rescissione del giudicato per via pretoria. Uno strumento di diritto vivente (il ricorso alla procedura di riesame) ben potrebbe, nel caso individuale, sopperire all’assenza di una specifica base normativa per la riapertura del procedimento: la cessazione avverrebbe, così, immediatamente e in senso sicuramente conforme, quantomeno, al diritto generale.  

    Secondo, tali rilievi paiono tanto più convincenti se si pone mente alla circostanza che la Corte fa ritorno sull’obbligo di cessazione anche statuendo in tema di equa soddisfazione ex art. 41 CEDU: qui, infatti, la Corte ritiene che l’obbligo di cessazione derivante dall’accertamento dell’illecito convenzionale non è sufficiente per compensare il pregiudizio subito, di tal che si rende necessario il riconoscimento di una somma di danaro a titolo di danno non patrimoniale (parr. 77 e 78). Si tratta, insomma, di una riconferma della distinzione – a un tempo concettuale e pratica – dei vari obblighi secondari, anche nella prassi applicativa della Corte edu.    

    5. Conclusioni

      Dall’analisi del caso di specie è emersa, con particolare nitidezza, una questione che rimonta ben oltre la sentenza in commento e che rimanda al complesso tema dell’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte e, in generale, all’essenza stessa della tutela multilivello dei diritti fondamentali. Violazioni “sistematiche”, più o meno visibili, di diritti fondamentali – derivanti, come nel caso Korneyeva c. Russia, dall’interpretazione e quindi applicazione del diritto interno in senso contrario alla Convenzione – producono l’insorgenza di obblighi riparatori e di cessazione che, quand’anche affermati a titolo meramente individuale, non possono non spostare la prospettiva anche sul piano generale. In altre parole, gli Stati sono tenuti ad approntare rimedi anche in vista di conformare il proprio ordinamento interno – in generale – agli standard di tutela affermati a livello convenzionale.  

    Traendo ispirazione dal caso di specie, l’impossibilità di rescindere un doppio giudicato di condanna per i medesimi fatti produce effetti pregiudizievoli sub art. 4 Protocollo 7 CEDU per una pluralità indistinta di soggetti, tra cui, appunto, la ricorrente. Che la sentenza sia resa con riferimento esclusivo al rapporto giuridico tra questa e la Russia non toglie che, sul piano generale, è l’intero ordinamento russo a essere chiamato ad approntare un rimedio per analoghe (e, in potenza, seriali) violazioni[40].  

    Da ultimo e a chiusura, preme osservare quanto segue. In una congiuntura storica segnata da un sensibile scetticismo nei confronti dei meccanismi di tutela dei diritti umani a livello universale e regionale nonché, in conseguenza, da una progressiva chiusura “su se stessi” degli ordinamenti interni – fenomeno di cui la Russia offre un preclaro esempio[41] –, l’atteggiamento della Corte edu nel caso di specie, attento a valorizzare indirizzi ermeneutici interni in linea, di fatto, con gli standard convenzionali, non pare né timido né remissivo ma, anzi, si premura di seminare in un campo, per così dire, già arato. “Lo chiede Strasburgo”, ma senza chiedere l’impossibile. Ciò che il giudice convenzionale suggerisce, infatti, altro non è che un’interpretazione del diritto interno che possa correggere il difetto strutturale e il suo precipitato a livello individuale, in ottemperanza a tutti gli obblighi secondari (riparazione e cessazione) incombenti sulla Russia in conseguenza dell’illecito accertato: basta questo. Da questo punto in avanti, però, spetta allo Stato – in nome della tanto rivendicata sussidiarietà – prendere le mosse.

    [1] Corte dir. uomo, Korneyeva c. Russia, ricorso n. 72051/17, 8 ottobre 2019.

    [2] Corte dir. uomo, Engel e altri c. Paesi Bassi, ricorsi n. 5100/71 e altri, 8 giugno 1976, parr. 80 ss.

    [3] Corte dir. uomo, Karelin c. Russia, ricorso n. 926/08, 20 settembre 2016, parr. 69-84; mutatis mutandis, anche Mikhaylova c. Ucraina, ricorso n. 10644/08, 6 marzo 2018, parr. 62-67).

    [4] In giurisprudenza, v. in particolare Corte cost., sentenza n. 200 del 31 maggio 2016.

    [5] Così Cassibba, I limiti oggettivi del ne bis in idem in Italia tra fonti nazionali ed europee, Rev. Bras. de Direito Processual Penal, 4/3, 2018, pp. 953-1002.

    [6] Corte dir. uomo, Oliveira c. Svizzera, ricorso n. 25711/94, 30 luglio 1998; Franz Fischer c. Austria, ricorso n. 37950/97, 29 maggio 2001; Sailer c. Austria, ricorso n. 38237/97, 6 giugno 2002.

    [7] Corte dir. uomo, Sergey Zolotukhin c. Russia, ricorso n. 14939/03, 10 febbraio 2009.

    [8] All’insegna di questo nuovo indirizzo ermeneutico si segnala, tra le molte, Grande Stevens e altri c. Italia, ricorsi n. 18640/10 e altri, 4 marzo 2014.

    [9] Corte dir. uomo, Sergey Zolotukhin c. Russia, cit., par. 81; quanto al principio secondo il quale la Convenzione garantisce diritti non teorici e illusori, ma concreti ed effettivi, si v. ad es. Corte dir. uomo, Airey c. Irlanda, ricorso n. 6289/73, 9 ottobre 1979, par. 24.

    [10] Corte dir. uomo, A e B c. Norvegia, ricorsi n. 24130/11 e 29758/11, 15 novembre 2016, parr. 121, 122. Infatti, quanto detto sopra non toglie, a ogni buon conto, che uno Stato possa scegliere di adottare risposte sanzionatorie di diversa natura tese a reprimere, sotto plurimi aspetti, una condotta considerata come particolarmente offensiva dalla società. Infatti, non è ritenuto porsi in contrasto con la garanzia convenzionale del ne bis in idem il ricorso a un sistema sanzionatorio integrato, purché siano soddisfatti gli imprescindibili requisiti di prevedibilità e proporzionalità della risposta e, quindi, il destinatario di siffatta sanzione non si ritrovi soggetto a un trattamento “ingiusto”. Insomma, le diverse sanzioni facente parte di un unitario schema punitivo non sono ritenute costituire una doppia punizione se si dimostra l’esistenza di una “sufficiently close connection between them, both in substance and in time”.

    [11] Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2011, p. 561.

    [12] Per una disamina generale sul concorso apparente di norme, non si può che rinviare, per completezza, a Marinucci, Dolcini e Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2018, pp. 539 ss.; con specifico riferimento alla tematica del ne bis in idem sostanziale, si veda Vallini, Tracce di ne bis in idem sostanziale lungo i percorsi disegnati dalle Corti, Diritto Penale e Processo, 4/2018, pp. 525 ss.

    [13] V. ad es. Cass. pen. III, ric. Ferrarelli, 15 aprile 2009 e, per ulteriori riferimenti, Cassibba, cit., p. 974.

    [14] Corte cost., sentenza n. 200 del 21 luglio 2016, punto 13 in diritto.

    [15] Corte cost., sentenza n. 129 del 30 aprile 2008.

    [16] Corte cost., sentenza n. 200 del 21 luglio 2016, punto 8 in diritto.

    [17] Ibidem, punto 11 in diritto.

    [18] Cass. pen. SS.UU., ric. Stalla e Battilana, n. 20644 del 23 febbraio 2017. A commento, si veda Colucci, Le Sezioni Unite tornano sul principio di specialità: al vaglio la questione del rapporto tra truffa aggravata e malversazione, disponibile all’indirizzo https://www.penalecontemporaneo.it , 6 dicembre 2017.

    [19] Per ulteriori riflessioni, relativi ad altri arresti giurisprudenziali, si veda Serra, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norme, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, disponibile all’indirizzo https://www.penalecontemporaneo.it, 21 novembre 2017.

    [20] Cass. pen. SS.UU., ric. La Marca, n. 41588 del 22 giugno 2017: “l’insegnamento delle Sezioni Unite è consolidato nel ritenere che per “stessa materia” deve intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità (Sez. U., n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.; Sez. U., n. 1963 del 28/20/2010, Di Lorenzo, cit.)”.

    [21] Cit. supra, nota n. 9.

    [22] Per i profili di criticità, in termini di principio di legalità e, soprattutto, tipicità, dei vari criteri di concorso tra norme, v. amplius Vallini, cit. supra nota 12.

    [23] “Art. 46”, in Bartole, De Sena, Zagrebelski (a cura di), Commentario breve alla CEDU, Padova, 2012, p. 703 ss.

    [24] La letteratura in materia di violazioni strutturali è ormai corposa. Ci si limita a segnalare, su tutti: Saccucci, La responsabilità internazionale dello Stato per violazioni strutturali dei diritti umani, Napoli, 2018; Cannone, Violazioni di carattere sistemico e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Bari, 2018.

    [25] Commissione di diritto internazionale, Report on the work of its fifty-third session, UN Doc. A/56/10, 10 agosto 2001. Quanto alla distinzione tra obblighi primari e obblighi secondari (che, nel diritto internazionale, viene mutuata dalla teoria hartiana), si veda, tra moltissimi, Crawford, State Responsibility. The General Part, Cambridge, 2013, pp. 64 ss.

    [26] Corte dir. uomo, Broniowski c. Polonia, ricorso n. 31443/96, 28 settembre 2005.

    [27] Susi, The Definition of a “Structural Problem” in the Case-Law of the European Court of Human Rights Since 2010, in German Yearbook of International Law, 2012, pp. 385 ss., p. 403.

    [28] Come nei casi, per limitarci all’ordinamento italiano, Gaglione e altri c. Italia, ricorsi n. 45867/07 e altri, 21 dicembre 2010 (in tema di indennizzo per eccessiva durata del processo) e Cestaro c. Italia, ricorso n. 6884/11, 7 aprile 2015 (in tema di norme incriminatrici per condotte di tortura).

    [29] Così v. amplius Saccucci, cit., pp. 42 ss.

    [30] Corte dir. uomo, Viola c. Italia (n. 2), ricorso n. 77633/16, 13 giugno 2019. Per alcuni primi commenti alla sentenza, si vedano Pellissero, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, disponibile sul sito http://www.sidiblog.org/, 21 giugno 2019; Mauri, Nessuna speranza senza collaborazione per i condannati all’ergastolo ostativo? Un primo commento a Viola c. Italia (n. 2), disponibile sul sito http://www.sidiblog.org/, 20 giugno 2019.

    [31] Corte dir. uomo, Viola c. Italia (n. 2), cit., par. 143.

    [32] V. ad es. Cass. pen. SS.UU., sentenza n. 18821 del 24 ottobre 2013, ric. Ercolano, con nota di Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 1/2014, p. 250 ss.; ma v. anche Biondi, La Cassazione e i fratelli minori di Lorefice, in Dir. pen. Cont., 21 marzo 2019 e, più di recente, con riferimento alla vicenda Contrada (rispetto al quale le motivazioni dell’attesa sentenza della Corte di cassazione, a Sezioni Unite, non sono ancora pubblicate alla data in cui si scrive), le note di Angelillis, su questa rivista.

    [33] Per una panoramica sulla prassi in esame, sia consentito il rimando a Mauri, Il ‘mito’ del giudicato civile e amministrativo alla prova degli obblighi internazionali di restitutio in integrum, in Diritti umani e diritto internazionale, 3/2019, pp. 487 ss.

    [34] Per il quale si veda, tra i molti, Legg, The Margin of Appreciation in International Human Rights Law. Deference and Proportionality, Oxford, 2012.

    [35] V. ad esempio Donald e Leach, A Wolf in Sheep’s Clothing: Why the Draft Copenhagen Declaration Must be Rewritten, disponibile sul sito https://www.ejiltalk.org/a-wolf-in-sheeps-clothing-why-the-draft-copenhagen-declaration-must-be-rewritten/, 21 febbraio 2018.

    [36] V. Saccucci, cit., pp. 235 ss.

    [37] Corte dir. uomo, Assanidze c. Georgia, ricorso n. 71503/01, 8 aprile 2004.

    [38] V. Saccucci, cit., p. 237.

    [39] Corte dir. uomo, Laska e Lika c. Albania, ricorso n. 12315/04 e 17605/04, 20 aprile 2010, par. 77: “it is for the respondent State to remove any obstacles in its domestic legal system that might prevent the applicants' situation from being adequately redressed (…) or introduce a new remedy that would enable the applicants to have the situation repaired. Moreover, the Contracting States are under a duty to organise their judicial systems in such a way that their courts can meet the requirements of the Convention”.

    [40] Si tratta, in sostanza, di isolare concettualmente un “obbligo conformativo” di portata generale, suscettibile di trascendere il piano meramente individuale per correggere difetti “strutturali” con modalità erga omnes. Si vedano sul punto le riflessioni conclusive di Saccucci, cit., p. 263 ss. (che dimostra come la base giuridica di un siffatto obbligo potrebbe essere rintracciata nell’art. 1 CEDU).

    [41] Da alcuni anni la Russia sta dimostrando una certa “resistenza” alle pronunce di Strasburgo. Nel 2015, ad esempio, con Legge Federale n. 7-KFZ, entrata in vigore il 15 dicembre 2015, di modifica della Legge Costituzionale Federale n. 1-FKZ del 21 luglio 1994 (recante la disciplina della Corte Costituzionale federale), si attribuì alla Corte Costituzionale federale il potere di decidere sulla eseguibilità delle decisioni rese da organi internazionali posti a tutela dei diritti umani (tra cui la Corte edu). Vedi amplius Marchuk, Flexing Muscles (Yet Again): The Russian Constitutional Court’s Defiance of the Authority of the ECtHR in the Yukos Case, disponibile all’indirizzo: https://www.ejiltalk.org/flexing-muscles-yet-again-the-russian-constitutional-courts-defiance-of-the-authority-of-the-ecthr-in-the-yukos-case/, 13 febbraio 2017; vedi poi il Parere n. 832/2015 della European Commission For Democracy Through Law (c.d. Commissione Venezia), 107th Plenary Session, 10-11 giugno 2016, disponibile all’indirizzo http://www.venice.coe.int/webforms/documents/default.aspx?pdffile=CDL-AD(2016)016-e. All’indomani della sentenza della Corte resa nel caso OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia, ricorso n. 14902/04, 31 luglio 2014 (con la quale condannava la Russia a corrispondere al ricorrente, a titolo di risarcimento per il danno patrimoniale, la somma di ben € 1.866.104.634!), la Corte costituzionale russa, con sentenza n. 1-P/17 del 19 gennaio 2017 (disponibile all’indirizzo http://doc.ksrf.ru/decision/KSRFDecision258613.pdf), ha negato l’esecuzione della pronuncia convenzionale per contrasto con la Costituzione russa. A commento, si veda Marchuk e Aksenova, The Tale of Yukos and of the Russian Constitutional Court’s Rebellion against the European Court of Human Rights, in Osservatorio Costituzionale, 2017, pp. 1 ss.

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