Traendo spunto da una recente sentenza della Corte di giustizia sugli effetti del recesso dall’Unione Europea del Regno Unito, l’autore delinea le vicende più significative nella storia del mandato d’arresto europeo.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il Consiglio di Tampere e il potenziamento della cooperazione giudiziaria penale in ambito UE. - 3. L’euromandato in Italia: la complessa gestazione legislativa e la successiva opera di armonizzazione della Suprema Corte. - 4. Il mandato di arresto europeo nell’interpretazione della Corte di giustizia. - 5. Gli effetti della Brexit sul mandato d'arresto europeo.
1. Premessa.
Sono trascorsi più di sedici anni dalla approvazione della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo e oltre dieci dalla sua trasposizione nell’ordinamento italiano, ad opera della l. 22 aprile 2005, n. 69 (ex plurimis, M. Bargis - E. Selvaggi, Il mandato d’arresto europeo. Dall’estradizione alle procedure di consegna, Giappichelli, 2005; A. Chelo, Il mandato di arresto europeo, Cedam, 2010; G. De Amicis - G. Iuzzolino, Guida al mandato d’arresto europeo, Giuffrè, 2008).
Un periodo di tempo che consente di tratteggiare una breve storia dell’istituto, per ricordare le sue origini e i più recenti sviluppi interpretativi.
In via di premessa, alla luce della giurisprudenza interna e sovranazionale, si può affermare che l’istituto ha ormai raggiunto nel panorama della cooperazione giudiziaria tra Stati membri dell’Unione Europea una posizione consolidata, che gli consente di svolgere un ruolo strategico nel contrasto alla criminalità transfrontaliera (una esaustiva panoramica sulla giurisprudenza è compendiata in G. Lattanzi - E. Lupo, Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. XIII, Giuffrè 2013, nonchè, in A. Marandola, Cooperazione giudiziaria penale, Giuffrè, 2018, p. 467 e ss.).
Il mandato di arresto europeo rappresenta, in altre parole, l'archetipo della cooperazione basata sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, come testimonia la circostanza che lo schema utilizzato nella decisione quadro ha costituito il modello intorno al quale sono stati progettati gli altri istituti implementati negli anni successivi (ad esempio, i decreti legislativi del febbraio 2016, con i quali è stata data attuazione nell'ordinamento italiano ad alcune decisioni quadro e direttive in materia; sul tema, G. De Amicis, I decreti legislativi di attuazione della normativa europea sul reciproco riconoscimento delle decisioni penali, in Cass. pen, 2016, supplemento al n. 5).
Tuttavia, benchè appaiano oramai sopite le più violente “crisi di rigetto” che i singoli ordinamenti nazionali hanno manifestato nei primi periodi di vigenza dell’istituto, è anche vero che, con particolare frequenza, si presentano dinanzi alla Corte di giustizia casi alquanto complessi e delicati, che richiedono particolare attenzione.
Lo spunto per questa breve analisi proviene proprio da una recente decisione della Corte di giustizia, che si è pronunciata sugli effetti che la cosiddetta “Brexit” può riverberare sul meccanismo di consegna delle persone ricercate (Si tratta di C. giust. UE, 19 settembre 2018, C- 327/18).
Anche se, come si vedrà, tale decisione, per quanto inedita e significativa per i suoi contenuti, è coerente con altri precedenti della Corte e rappresenta, pertanto, niente altro che una tappa del percorso compiuto fino ad ora.
2. Il Consiglio di Tampere e il potenziamento della cooperazione giudiziaria penale in ambito UE.
La Convenzione Europea di Estradizione, dal 1957 e per quasi mezzo secolo, ha disciplinato la cooperazione giudiziaria tra Stati membri dell’Unione Europea. Nonostante le innovazioni, tale istituto presentava, comunque, i consueti limiti che derivano dalla impostazione dei rapporti di cooperazione secondo il tradizionale schema dell’estradizione.
Così, anche a seguito delle ulteriori semplificazioni apportate dai protocolli addizionali e la stipula tra Stati di convenzioni bilaterali volte a rendere ancora più snelli i rapporti, nell’Unione Europea si avvertiva sempre di più la necessità di un cambio di paradigma, che rivoluzionasse l’assetto della cooperazione.
Alla libera circolazione di merci, capitali, lavoratori e servizi dovevano affiancarsi strumenti idonei ad evitare che la progressiva eliminazione delle frontiere permettesse ai delinquenti di sfruttare tali opportunità per fini illeciti. In altre parole, era necessario realizzare anche una “libera circolazione degli imputati” (A. Di Martino, Principio di territorialità e protezione dei diritti fondamentali nello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia. Osservazioni alla luce della giurisprudenza costituzionale di alcuni Stati membri sul mandato d’arresto europeo, in AA.VV., Legalità costituzionale e mandato d’arresto europeo, Jovene, 2007, p. 79).
Il meccanismo estradizionale, pertanto, si rivelava inadeguato, e la sua obsolescenza discendeva soprattutto dalla persistenza di un vaglio di carattere politico sulle richieste, dalla eccessiva ampiezza del catalogo di clausole che consentivano agli Stati di rifiutare la consegna, dalla inesistenza di termini precisi entro i quali evadere le pratiche, dalla quale, spesso, derivava una eccessiva durata delle procedure.
Il primo passo verso un radicale cambiamento fu compiuto nel corso del Consiglio europeo straordinario di Tampere, tenutosi nei giorni del 15 e 16 ottobre 1999. In questa occasione, si parlò espressamente della necessità di abolire l’estradizione e di potenziare il sistema di cooperazione attraverso l’implementazione, anche per la gestione delle questioni criminali, del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie (una sintesi dei lavori e le conclusioni del Consiglio sono pubblicate in Cass. pen., 2000, p. 302).
L'idea di fondo intorno alla quale si intendeva costruire questo nuovo meccanismo di consegna era la condivisione tra tutti gli Stati membri di un medesimo patrimonio di valori, che consentisse di dismettere talune cautele tipiche del regime estradizionale, nel quale, per contro, vengono a contatto Stati i cui ordinamenti giuridici possono essere ispirati a principi anche antitetici.
I lavori successivi – sicuramente accelerati dalle cruente manifestazioni del terrorismo internazionale – diedero alla luce la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo.
I punti qualificanti del nuovo istituto sono, appunto, l’eliminazione del ruolo dell’autorità politica, sostituito da un dialogo diretto tra le autorità giudiziarie, l’attenuazione del principio di doppia incriminazione e, più in generale, la drastica riduzione dei motivi di rifiuto della consegna, che si accompagnano alla introduzione di serrate cadenze procedimentali, finalizzate a ridurre i tempi necessari per la decisione.
Era prevedibile che modifiche così incisive potessero suscitare perplessità nei singoli Stati membri. Del resto, la materia nella quale andava a innestarsi l’istituto – l'esercizio della potestà punitiva – è uno degli aspetti più delicati e al tempo stesso più gelosamente custoditi da ciascuno Stato. Queste tensioni, pertanto, hanno richiesto numerosi interventi della Corte di giustizia, finalizzati a individuare nozioni interpretative comuni per tutti gli Stati membri e, per quanto riguarda l'Italia, una opera costante della Suprema Corte.
3. L’euromandato in Italia: la complessa gestazione legislativa e la successiva opera di armonizzazione della Suprema Corte.
Sin dal principio, l'Italia ha assunto una posizione affatto peculiare, manifestando un atteggiamento di chiusura – per molti versi inspiegabile – nei confronti del nuovo corso della cooperazione giudiziaria europea.
Volgendo lo sguardo indietro, la ritrosia del legislatore italiano emerge, in maniera inequivocabile, dalla complessa gestazione che ha dato alla luce la l. 22 aprile 2005, n. 69.
L’euromandato, infatti, è stato recepito con notevole ritardo: se la “clausola ghigliottina” contenuta nell’art. 31 della decisione quadro indicava quale termine di entrata in vigore del nuovo strumento il 1 gennaio 2004, in Italia l’euromandato, ai sensi dell’art. 40, sostituiva l'estradizione soltanto nel maggio 2005.
Peraltro, la legge 22 aprile 2005, n. 69 si caratterizza sia per una disciplina transitoria tesa a posticipare ancora l’effettiva entrata in vigore dell’istituto, sia per la presenza di altre previsioni che limitano fortemente i profili di maggiore innovazione: a titolo esemplificativo, si possono ricordare gli artt. 7 e 8, in evidente contrasto con la eliminazione del principio di doppia incriminazione, e l’art. 18 che contempla numerosi motivi di rifiuto estranei alle previsioni della decisione quadro (su tali difformità, M. Bargis, Libertà personale e consegna, in R. E. Kostoris, Manuale di procedura penale europea, III ed., Giuffrè, 2017, p. 329 ss.).
In realtà, tale atteggiamento era maturato su un terreno reso fertile dalle opinioni, invero autorevoli, di una parte della dottrina, che aveva sollevato seri dubbi sulla coerenza dell’istituto con le previsioni costituzionali in materia penale (Caianiello – Vassalli, Parere sulla proposta di decisione-quadro sul mandato di arresto europeo, in Cass. pen., 2002, p. 462 ss.).
Era inevitabile, pertanto, che tale diffidenza si traducesse, dal punto di vista legislativo, in un testo difficile da gestire: in effetti, una interpretazione coerente con lo spirito della decisione quadro era ostacolata non soltanto da previsioni che con quella decisione si ponevano in deciso contrasto, ma anche da altre disposizioni normative che, a prescindere dalla loro conformità con l'atto sovranazionale, presentavano consistenti difetti strutturali.
L’impressione iniziale dell’interprete, pertanto, è stata quella di dover lavorare su un testo che, se fosse stato applicato alla lettera, avrebbe determinato un inadempimento delle prescrizioni sovranazionali e una notevole regressione nei rapporti tra Stati membri dell’Unione europea. Per certi versi, la cooperazione in forza di euromandato sarebbe risultata sovrapponibile a quella basata sull’estradizione extraconvenzionale, come sarebbe avvenuto – ad esempio – se fosse intesa letteralmente la previsione dell’art. 17, comma 4, che esige, per procedere alla consegna, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza.
La legge sul mandato d’arresto europeo, quindi, ha richiesto ripetuti interventi della Suprema Corte, sicuramente più intensi nel primissimo periodo di vigenza del nuovo strumento, ma piuttosto frequenti anche successivamente (sul punto, G. Lattanzi, Prefazione, in G. De Amicis - G. Iuzzolino, Guida, cit., p. VIII ss.).
Una pietra miliare in questo cammino giurisprudenziale è la sentenza resa dalle Sezioni unite nel caso Ramoci (Cass., sez. un., 30 gennaio 2007, n. 4614, Ramoci, in Cass. pen., 2007, p. 1911). Chiamate a valutare il significato dell’art. 18 lett. e), che impone di rifiutare la consegna qualora l’ordinamento dello Stato richiedente non contempli termini massimi di durata delle misure cautelari, le Sezioni unite hanno fornito una lettura della previsione in parola che è in grado di salvaguardare tanto il principio costituzionale sancito dall’art. 13 Cost. che le esigenze della cooperazione giudiziaria. Tale decisione ha assunto particolare importanza perché ha dettato i criteri esegetici ai quali l’interprete deve attenersi per conciliare lo scarno dato normativo interno con i non semplici impegni derivanti dalla partecipazione allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione Europea.
4. Il mandato di arresto europeo nell’interpretazione della Corte di giustizia.
La situazione italiana presenta senz’altro connotati peculiari che, come si è visto, hanno richiesto un energico intervento da parte della Suprema Corte di cassazione.
Tuttavia, anche osservando la situazione dal punto di vista della Corte di giustizia - che consente di inquadrare la materia in una prospettiva più ampia - si percepiscono gli attriti prodotti dall’introduzione dell’euromandato nell’ordinamento sovranazionale (per una esaustiva e aggiornata panoramica sulla giurisprudenza della Corte di giustizia, M. Bargis, Libertà personale, cit., p. 350 ss.).
Si può muovere dalla storica sentenza sul principio di doppia incriminazione (C. giust. Ue, 3 maggio 2007, C-303/05, in Cass. pen., 2007, p. 3078), che costituisce una pronuncia fondamentale in quanto ha avallato la legittimità formale e sostanziale dell’istituto (Bargis, Libertà personale, cit., p. 350 e ss.), per arrivare alle sentenze sul rito contumaciale (C. giust. Ue, 21 ottobre 2010, C-306/09, in Cass. pen., 2011, p. 393 e C. giust. Ue, 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni, in Cass. pen., 2013, p. 2070, che hanno interessato direttamente l'ordinamento italiano), passando per altre decisioni cruciali, come quella sulla nozione di residente (C. Giust. UE, 17 luglio 2008, C-66/08, in Cass. pen., 2008, p. 4399, con osservazioni di E. Selvaggi; decisione che ha contribuito, nell’ordinamento italiano, alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, lett. r), della nostra legge sull’euromandato da parte di C. cost., 24 giugno 2010, n. 227, in Cass. pen., 2010, p. 4148).
Emerge dalla trama di questo lavoro giurisprudenziale l’impegno che la Corte di giustizia ha profuso nel bilanciamento tra gli interessi contrapposti e nell’elaborazione di una lettura della decisione quadro che, senza pregiudicare le esigenze degli Stati membri e la tutela dei singoli, ha comunque garantito il funzionamento del nuovo strumento di cooperazione giudiziaria.
Nel periodo più recente, poi, la Corte di giustizia ha dovuto confrontarsi con un tema di straordinaria rilevanza che ha posto l’istituto cooperativo in una relazione ancora più immediata e diretta con il problema della tutela dei diritti fondamentali delle persone.
Una prima manifestazione di questa esigenza si coglie nelle decisioni con le quali è stata affrontata la questione del rapporto tra l’esecuzione di un mandato di arresto europeo e il problema del sovraffollamento carcerario nello Stato membro di emissione (C. giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15, Aranyosi e Caldararu, Dir. pen. e proc., 2016, con nota di Martufi, La Corte di Giustizia al crocevia tra effettività del mandato d'arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali; C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-220/18).
Qui, la Corte di giustizia è stata particolarmente cauta, ma ha mostrato chiaramente la sensibilità verso le esigenze di tutela del singolo: il dato fondamentale è la individuazione in via pretoria di un motivo di rifiuto, non contemplato dalla decisione quadro, in forza del quale, dinanzi al pericolo che la persona sia consegnata ad uno Stato presso il quale subirebbe un trattamento inumano e degradante, lo Stato di esecuzione deve sospendere la consegna, richiedendo rassicurazioni idonee a escludere tale rischio, e rifiutarla qualora la tutela garantita non appaia soddisfacente (a questo insegnamento, peraltro, si è uniformata anche la Corte di Cassazione: Cass., sez. VI, 1 giugno 2016, n. 23277, in Cass. pen., 2016, p. 3804, con nota di Abate, Il sovraffollamento delle carceri come motivo di non esecuzione del mandato del mandato di arresto europeo).
In questa prospettiva, sembra delinearsi, in seno alla giurisprudenza della Corte, un nuovo metodo interpretativo teso a stimolare il dialogo tra le autorità degli Stati membri: se la tutela dei diritti fondamentali permette di derogare alla tassatività dei motivi di rifiuto della consegna, un esito simile rappresenta comunque l'extrema ratio ed è ipotizzabile soltanto qualora la situazione potenzialmente lesiva non sia destinata a risolversi in altro modo. Anche se, nell’economia delle decisioni della Corte di giustizia, sembra assumere rilievo preminente, rispetto alla tutela dei diritti fondamentali, l'esigenza di assicurare il funzionamento dei meccanismi repressivi nazionali, che, con l'emissione di un mandato di arresto europeo, esplicano i loro effetti nel territorio di tutti gli Stati membri.
Successivamente, il medesimo ragionamento è stato replicato in un altro delicatissimo caso, relativo alla riforma dell’ordinamento giudiziario in Polonia e alle possibili conseguenze che il nuovo assetto avrebbe potuto produrre sulla garanzia di un processo equo. La riforma in parola, infatti, è stata censurata dalla proposta motivata del 20 dicembre 2017, adottata ai sensi dell’art. 7, TUE, con la quale la Commissione Europea ha articolato due distinti rilievi: in primo luogo, ha evidenziato l’assenza di un controllo di costituzionalità indipendente e legittimo; in secondo luogo, ha sottolineato i rischi di violazione dell’indipendenza dei giudici ordinari.
Anche qui, la Corte di giustizia ha escluso la possibilità di un rifiuto immediato della consegna – possibile soltanto qualora sia integrata l'ipotesi contemplata dal decimo considerando della decisione quadro – e ha ancora posto l’accento sulla necessità di avviare un dialogo preliminare tra gli Stati, ribadendo che la consegna può essere rifiutata soltanto qualora tale interlocuzione non escluda il rischio di una concreta violazione dei diritti fondamentali (C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-216/18).
5. Gli effetti della Brexit sul mandato d'arresto europeo.
Le vicende applicative del mandato d'arresto europeo sembrano aver raggiunto finalmente un punto di quiete: superate le difficoltà iniziali, appare ormai acquisito un patrimonio interpretativo che permette di risolvere le questioni sollevate di volta in volta dai giudici nazionali. Così, anche qualora si presentino situazioni affatto inedite, gli strumenti esegetici collaudati nel corso di questi anni consentono di elaborare una soluzione coerente con tutte le esigenze del caso.
Non era mai accaduto, tuttavia, che la Corte di giustizia dovesse prendere posizione su un tema tanto delicato come quello degli effetti che il recesso di uno Stato membro dall'Unione Europea può produrre sui rapporti di cooperazione giudiziaria.
La vicenda della cosiddetta Brexit, quindi, rimane di stringente attualità anche da un punto di vista processualpenalistico almeno per due motivi.
In primo luogo, perchè ricorda come la cooperazione giudiziaria penale possa risentire delle evoluzioni di matrice prettamente politica all'interno dell'Unione Europea e subirne le conseguenze.
In secondo luogo - ed è questo il profilo di maggiore interesse - perchè quella vicenda impone di verificare quali effetti scaturiscano da un evento simile.
Sintetizzando estremamente, la preoccupazione del giudice del rinvio irlandese era che, con il recesso della Gran Bretagna dall'Unione Europea, potessero venir meno alcuni presidi fondamentali della cooperazione. Si dubitava, più precisamente, del fatto che la Brexit potesse far venir meno il diritto alla deduzione del periodo di custodia scontato nello Stato membro di esecuzione, il riparo offerto dal principio di specialità e la tutela che limita la consegna o l'estradizione successiva, nonché, in generale, il rispetto dei diritti fondamentali della persona consegnata conformemente alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Nel momento in cui si è pronunciata la Corte di giustizia, la concreta attuazione della Brexit non aveva – come del resto non ha ancora – assunto caratteri di certezza e definitività, quindi, sulla scorta di tale premessa si è escluso che un simile pericolo possa sussistere: finché rimane uno Stato membro, il Regno Unito è tenuto a rispettare tutti gli obblighi in questione.
La Corte, tuttavia, si è spinta oltre, per escludere che anche in futuro possano verificarsi gli effetti negativi paventati dal giudice del rinvio. In questa ottica, ha evidenziato che l'adesione alla Convenzione europea di estradizione – che diverrebbe il riferimento normativo per gestire i rapporti di cooperazione con il Regno Unito – e l'adesione alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo consentono di ritenere che, anche una volta al di fuori del sistema eurounitario, il Regno Unito continuerà a garantire un sufficiente livello di tutela dei diritti fondamentali.
Tale decisione, quindi, si pone in linea di continuità con gli arresti più recenti, nei quali la necessità di garantire efficacia al meccanismo di consegna è stata sempre coordinata con la tutela dei diritti fondamentali.
A margine di tale decisione, tuttavia, si intravede un altro argomento da tenere in considerazione: si tratta del ruolo di garanzia svolto nelle dinamiche cooperative dalla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, che diviene una sorta di valvola di sicurezza per garantire il rispetto dei diritti fondamentali anche in un contesto più ampio rispetto a quello dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell'Unione Europea.