GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Nodo prescrizione: dove eravamo rimasti?

    Nodo prescrizione: dove eravamo rimasti?  

    di Ciro Angelillis  

    Sommario: 1. Premessa - 2. Dalla ‘ex Cirielli’ alla ‘spazzacorrotti’ passando per la ‘riforma Orlando’ - 3. Prescrizione nel corso delle indagini preliminari e coerenza del sistema - 4. L’allineamento con la disciplina della responsabilità degli enti - 5. Il processo che verrà.  

    1. Premessa

    L’emergenza pandemica ha sopito il dibattito sulla prescrizione del reato, tema che dopo la riforma Orlando del 2017 e, soprattutto, dopo la legge c.d. spazzacorrotti n. 3 del 9 gennaio 2019, è rimasto a lungo sotto i riflettori, anche in ambienti extra accademici, per via delle ricadute degli effetti della norma sul versante socio-politico, divenendo motivo di scontro politico se non di polemiche proposte di controriforma.

    Oggi il dibattito appare congelato dalla pandemia che ha calamitato l’attenzione di giuristi ed opinione pubblica su altri versanti, ma è evidente che il fuoco cova sotto la cenere e lo scenario che si prospetta rimane dagli sviluppi imprevedibili in quanto, trattandosi di una riforma ‘a scoppio ritardato’ che si applica ai reati commessi dal 1° gennaio 2020 in poi, i suoi detrattori non mancheranno in futuro di rivitalizzare la contesa.

    Le valutazioni critiche della riforma si sono dispiegate su due piani distinti, ma collegati: il primo, più alto, in cui chi stigmatizza la novella rileva come essa coltivi una visione delle garanzie come un possibile ostacolo all’efficienza del sistema processuale quando invece esse costituiscono la salvaguardia del suo funzionamento; il secondo, più pragmatico, in cui si fa notare che la realtà delle nostre aule giudiziarie ci consegna la chiave per una lettura inevitabilmente scettica della riforma: il decorso della prescrizione, nel sistema ante riforma, impedisce i tempi lunghi del processo e funge, di fatto, da sponda al principio della sua ragionevole durata, sicchè la scomparsa di questa ‘valvola di sfogo’, che ha sistematicamente contenuto gli effetti del male endemico che affligge il processo penale, comporta il rischio di rendere il processo ‘immortale’, lasciando l’imputato nella situazione di incertezza che inevitabilmente si accompagna a tale condizione. Sotto altro e speculare profilo non si è mancato di evidenziare il rischio che la riforma proietti i suoi effetti nefasti sul versante della organizzazione dell’attività giudiziaria in relazione alla quale una parte della magistratura paventa un aumento esponenziale delle pendenze nelle Corti d’appello ed in Corte di cassazione.

    Si pongono, pertanto, le condizioni per formulare, rispetto a tali valutazioni, qualche breve riflessione, l’inizio delle quali non può prescindere dal richiamo di un paio di punti fermi della riforma, senza alcuna pretesa di esaustività, nei limiti imposti dalla consapevolezza che il lettore conosce molto bene la materia.  

    2. Dalla ‘ex Cirielli’ alla ‘spazzacorrotti’ passando per la ‘riforma Orlando’

    Storicamente il tema della prescrizione costituisce il terreno sul quale devono trovare la loro composizione esigenze contrapposte legate alla variabile del tempo, che impongono la ricerca di un punto di equilibrio tra istanze di tutela del diritto fondamentale del cittadino a non essere sottoposto a procedimenti penali interminabili e le aspettative del Paese di esercitare utilmente la pretesa punitiva nell’ipotesi di violazione di un precetto penale. Il legislatore è intervenuto ripetutamente nel corso degli ultimi quindici anni in entrambe tali opposte direzioni, generando, però, un fenomeno di stratificazione ed instabilità normativa che ha pregiudicato la qualità della legislazione in un settore di notevole impatto nella quotidianità della giurisdizione penale.

    Il sistema, rimodulato in vario senso dalla novella del 2005 (L. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli), ha registrato una vera e propria svolta, dagli effetti dirompenti, con la legge del 2017 (L. 23 giugno 2017, n. 103, c.d. riforma Orlando) e, ancor più, con la legge c.d. ‘spazzacorrotti’ che ha inteso superare il modello normativo costruito solo un anno e mezzo prima, impedendo, in pratica, di sperimentarne gli effetti concreti. Il meccanismo della riforma Orlando, che prevede la sospensione della prescrizione per tempi definiti, in pendenza dei giudizi di appello e cassazione, a partire dal termine di deposito della sentenza precedente, ha ceduto, così, il passo al blocco definitivo della prescrizione per tutti i reati, a partire dalla sentenza di primo grado. Le novelle del 2017 e 2019 non hanno modificato l’assetto della disciplina dell’istituto che rimane quello introdotto nel 2005 con la legge c.d. ‘ex Cirielli’, ancorato all’editto del singolo reato, sulla base, perciò, di valutazioni contingenti e specifiche che, rispetto al previgente sistema  basato sulle fasce di gravità dei reati, prescindono da rilievi sistematici e generali, nè hanno ceduto alla tentazione di aumentare semplicisticamente i termini base previsti dall’art. 157 c.p., ma hanno egualmente modificato funditus lo scenario del processo, in quanto, la prima, ha inciso sul meccanismo di sospensione del corso della prescrizione del reato correlato alle fasi del giudizio di secondo e terzo grado, limitatamente all’ipotesi in cui sia stata pronunciata una sentenza di condanna, facendo dipendere, il tempo necessario a prescrivere il reato, dall’esito del processo e non già dalla sola gravità del reato o dalla complessità del procedimento; la seconda ha previsto un  meccanismo che, ad onta della rubrica dell’articolo 159 c.p.(sospensione del corso della prescrizione) che ospita il cuore della riforma, non configura una sospensione e, per la verità, neanche un’interruzione del corso della prescrizione (che, in realtà, non riprende più a decorrere), ma prevede, semplicemente, una regola che riguarda il nuovo termine finale, in forza della quale la prescrizione non rimarrà sospesa dopo la sentenza di primo grado o dopo il decreto di condanna, ma resterà definitivamente bloccata.

    Anche se, come è evidente,  la legge c.d. spazzacorrotti propone una soluzione ben più radicale rispetto alla novella del 2017, è possibile sostenere che essa si inscriva nel solco tracciato dalla riforma Orlando, in quanto il sostrato culturale che emerge dalle due normative è lo stesso e risiede nella diversa valenza del decorso del tempo dopo la sentenza di primo grado rispetto alle fasi precedenti ed, in particolare, a quella delle indagini preliminari che, pur risultando il segmento maggiormente affetto dalla ‘patologia’ della prescrizione, rimane inalterato.  

    3. Prescrizione nel corso delle indagini preliminari e coerenza del sistema

    E’ questo un aspetto di entrambe le riforme che merita di essere ripreso.

    Secondo i dati resi disponibili dal Ministero nel 2017, oltre la metà delle prescrizioni si verifica nel corso delle indagini preliminari (nel 2010 erano addirittura il 70%), e ciò aiuta a comprendere la logica di questa opzione legislativa, secondo la quale l’esercizio dell’azione penale determina il dissolvimento delle ragioni che sono a fondamento dell’istituto e rende, per questo, meno giustificata la rinuncia del potere punitivo dello Stato nella fase processuale.

    Dopo la commissione del reato l’esercizio dell’azione penale costituisce una prima tappa a giustificazione del trascorrere del tempo del processo che, vieppiù dopo la sentenza di primo grado, non è più il tempo dell’oblio, che accresce le difficoltà probatorie o il rischio della persecuzione penale, è, invece, il tempo in cui la potestà punitiva dello Stato si manifesta e, dunque, il sacrificio della pretesa punitiva del reato non può giustificarsi.

    Non così per la prescrizione che matura nel corso delle indagini preliminari in relazione alla quale le ragioni fondanti dell’istituto trovano cittadinanza piena.

    Il dato restituito dalle statistiche che, peraltro, nel corso degli anni non ha mostrato segnali di inversione di tendenza, costituisce un punto dolente che offusca l’immagine della nostra nazione nel consesso europeo, ma, evidentemente, il legislatore ha preso atto che non esiste un sistema giudiziario in grado di trasferire nel processo l’intera domanda di intervento repressivo di un paese, per cui, se, per questa ragione, in altre nazioni il sistema giudiziario è ispirato al principio di discrezionalità dell’azione penale, nella nostra, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale comporta inevitabilmente un costo in termini di accantonamento di un certo numero di procedimenti aventi ad oggetto, per lo più, reati a prescrizione breve.

    Naturalmente, un dato così elevato desta preoccupazione poiché costituisce la cifra di una denegata giustizia che riguarda settori di forte impatto sociale caratterizzati da beni giuridici sensibili come quelli dell’ambiente, della sicurezza sul lavoro ma anche della leale concorrenza tra le imprese, dei corretti rapporti commerciali ecc.. 

    Per questa ragione, fermo restando l’impianto normativo in tema di prescrizione, il legislatore ha inteso spingere per altra via i procedimenti verso la fase processuale, lo ha fatto, per esempio, con la L.  23 giugno 2017 n. 103 che ha riformato ‘l’Avocazione obbligatoria’ delle indagini preliminari da parte del Procuratore Generale presso la Corte di Appello, per mancato esercizio dell’azione penale nei termini prestabiliti.

    Una riforma che ha avuto il dichiarato intento di eliminare le ‘stasi arbitrarie’ e i ‘tempi morti[1] nella gestione dei procedimenti nella fase delle indagini preliminari da parte del Pubblico Ministero che, tardando il momento del trasferimento del fascicolo dal suo ufficio a quello del Giudice, rendeva più concreto il rischio della prescrizione. Se, infatti, la sanzione della inutilizzabilità degli atti di indagine tardivi aveva indotto il Pubblico Ministero a rimanere vigile con riferimento ai tempi del potere investigativo, il naufragio operativo della sanzione avocatoria, prevista sul versante dei tempi dell’esercizio dell’azione penale o della richiesta di archiviazione, aveva finito per determinare, in molti uffici di Procura, una deriva che ha indotto il legislatore ad intervenire. La riforma dell’avocazione obbligatoria non ha rimosso l’impianto preesistente, che rimane inalterato in via principale sotto il profilo della doverosa coincidenza tra la scadenza del termine per le indagini e quello per la definizione del procedimento, ancorchè non più sanzionato con l’avocazione del Procuratore Generale, ma ha concesso al Pubblico Ministero una più realistica alternativa, in via subordinata,  costituita dalla creazione della sottofase o fase cuscinetto che separa plasticamente il termine delle indagini preliminari da quello delle determinazioni finali sull’alternativa giudizio/archiviazione (pari, in generale a 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, prorogabile per altri 3 e a 15 per alcune tipologie di procedimenti) che ha collocato sotto i riflettori, agganciando al suo superamento l’intervento avocativo obbligatorio del Procuratore Generale.  

    4. L’allineamento con la disciplina della responsabilità degli enti

    Ma il nuovo quadro normativo appare coerente, sotto il profilo sistematico, anche per altro verso.

    La peculiarità della riforma richiama alla mente la disciplina della prescrizione prevista dal d.lg n. 231 del 2001, relativo alla responsabilità amministrativa degli enti dipendente dal reato commesso, nel loro interesse o vantaggio, dalle persone fisiche che per essi agiscono.

    La regola generale posta dall'art. 22 del decreto stabilisce che “le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato”, salvo la presenza di atti interruttivi (individuati nella richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e nella contestazione dell'illecito amministrativo) che determina il decorrere di un nuovo periodo di prescrizione.

    Anche se, stando al testo della norma, ciò che si prescrive è la sanzione, la causa estintiva attinge evidentemente anche l'illecito amministrativo stesso, in quanto il riferimento alla consumazione del reato e l'indicazione di specifici atti interruttivi che precedono il processo, rendono evidente come il fenomeno estintivo riguardi l'intera fattispecie di responsabilità da reato dell'ente e non già meramente le conseguenze sanzionatorie.

    Il comma 4 dell'art. 22 prevede, nell'ipotesi in cui l’interruzione sia avvenuta mediante la contestazione dell'illecito di cui all'art. 59, che “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”. In sostanza, dopo la tempestiva emissione della richiesta di rinvio a giudizio (o di citazione diretta a giudizio), il tempo necessario alla celebrazione del processo non deve essere computato ai fini della prescrizione che, perciò, diventa di fatto impossibile. Il rigore della disposizione è solo parzialmente mitigato dalla previsione dell'art. 60, a norma del quale l'estinzione per prescrizione del reato impedisce all'accusa di procedere alla contestazione dell'illecito amministrativo ma non di portare avanti il procedimento già incardinato.

    Dunque, se fino a ieri questa disciplina è stata reputata distonica rispetto al regime della prescrizione previsto per le persone fisiche agli artt. 157 ss. c.p., anche sotto il profilo dei tempi della sua maturazione, oggi, dopo la rapida successione delle riforme Orlando - Bonafede, non può non rilevarsi un tendenziale allineamento normativo tra le due tipologie di illecito, rispettivamente riconducibili alla persona fisica e all’ente, nel senso che, nel primo caso, il reato diventa imprescrittibile dopo la sentenza di primo grado, nel secondo, l’illecito amministrativo diventa imprescrittibile dopo la contestazione che chiude la fase delle indagini preliminari.

    Naturalmente questo avvicinamento delle normative è limitato, come si ripete, al profilo della imprescrittibilità degli illeciti a determinate condizioni, in quanto per il resto, la scelta di fondo del legislatore del d.lg. n. 231/01 di prevedere un termine fisso di cinque anni per la prescrizione dell’illecito amministrativo, con l’effetto di svincolare la durata del tempo necessario per la sua estinzione dalla gravità del fatto che ne costituisce presupposto e di omologare i tempi di estinzione di illeciti assai diversi, contraddistingue un netto distacco rispetto all’assetto previsto dal codice penale.

    Ma, quanto meno, esso lascia ragionevolmente prevedere una forte contrazione dei casi in cui il reato base compiuto dalla persona fisica, da cui discende la responsabilità dell’ente, si prescrive ed il processo penale prosegue solo ed esclusivamente per accertare la responsabilità amministrativa della persona giuridica. Si pensi alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale richiamate dall’art. 25 undicies d.lg n. 231 del 2001 che si prescrivono nel termine massimo di quattro anni più uno, termine destinato oggi a maturare inesorabilmente nel corso del processo per via dei tempi medi di quel tipo di procedimenti, spesso caratterizzati da indagini complesse.

    Il sistema ante riforma trova il suo fondamento nel principio di ‘autonomia delle condanne’ di cui all’art. 8, in forza del quale il giudizio di responsabilità amministrativa non può prescindere dall'accertamento di tutti gli elementi costitutivi del reato, anche in assenza della condanna del responsabile e la stessa Corte di cassazione, nel recente passato, ha ritenuto infondata la questione di legittimità posta in relazione alla presunta irragionevolezza di questa disciplina della prescrizione (rispetto a quella prevista per le persone fisiche), atteso che il suo regime derogatorio è giustificato dalla diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente; tuttavia, il sentore di una carenza di sintonia tra le due normative, generato dalla necessità di veicolare l’accertamento di tale illecito all’interno dei binari del procedimento penale anche nelle ipotesi in cui il processo prosegua solo nei confronti dell’ente, oggi è destinato a scomparire.  

    5. Il processo che verrà

    Tornando al dato empirico, che, come si diceva, più di altro, motiva la prognosi inquietante sulla durata illimitata del processo che verrà e costituisce il perno attorno al quale si avvita il ragionamento degli scettici, esso deve essere inquadrato sotto tutti gli angoli visuali, senza pregiudizi e ipocrisie, compreso quello della prevedibile incidenza della riforma in termini di spinta dell’imputato verso i riti alternativi.

    Sembra evidente che proprio alcune distorsioni dell’esercizio del ‘diritto di prescrizione’ durante lo svolgimento dei processi, hanno motivato il legislatore delle due riforme.  Talvolta, infatti, la prospettiva della prescrizione agisce come fattore di rallentamento dell’iter processuale in quanto la strategia difensiva è quella di tenere in vita il processo allo scopo di lucrare la prescrizione che estingue il reato. L’imputato è, allora, disincentivato alla scelta di riti alternativi, perché la prospettiva di uno sconto di pena non è paragonabile a quella di sfuggire del tutto alla pena grazie alla prescrizione, con il risultato di ingolfare il rito dibattimentale.

    Chi teme che il sistema che ci consegna la riforma sarà posto sotto pressione dai c.d. maxiprocessi e dalle inchieste caratterizzate dai grandi numeri, deve considerare che proprio questi processi sono quelli che oggi, nel sistema ante riforma, comportano il costo sociale più elevato e rendono evidente il fallimento della pretesa punitiva dello Stato.

    Un po’ di tempo fa la Procura di Bari condusse un’indagine riguardante un sistema complesso di associazioni per delinquere operanti sul territorio regionale, in cui singoli gruppi associati costituiti da informatori e capi area di alcune case farmaceutiche si intersecavano con associazioni costituite da medici e farmacisti, con il comune obbiettivo di procedere alle richieste di rimborsi al Servizio Sanitario Nazionale per prescrizioni mediche false. Furono contestati agli imputati (tutti appartenenti alle categorie professionali dei medici, farmacisti e informatori scientifici) i reati di associazione per delinquere finalizzate alla corruzione, alla truffa e al falso.  Nel corso delle indagini preliminari furono disposte 106 misure cautelari personali coercitive (distribuite in 5 ordinanze nell’arco di due anni) di cui 103 furono confermate dal Tribunale del riesame o dalla Corte di Cassazione, nonché misure di tipo patrimoniale in previsione della confisca di cui all’art.322 ter cpp. Dopo aver definito la posizione di 20 indagati con sentenze di patteggiamento che includevano il risarcimento dei danni, la Procura, a distanza di tre anni dalla prima iscrizione nel registro degli indagati, chiese il rinvio a giudizio di 110 imputati. Il processo di primo grado si concluse dopo quasi 5 anni dalla richiesta di rinvio a giudizio con una sentenza di condanna per, praticamente, tutti i reati contestati che, però, in grado di Appello, furono, in grandissima parte, dichiarati prescritti.

    Alcuni dei professionisti che avevano patteggiato la pena, risarcito il danno e (soprattutto) affrontato complicati procedimenti disciplinari dinanzi agli organi di giustizia dei rispettivi ordini professionali, non mancarono di manifestare la loro frustrazione in quanto, grazie alla prescrizione, posizioni processuali sovrapponibili alla loro o, persino, più compromesse, avevano potuto beneficiare di una sentenza di proscioglimento.  

    Ora, non v’è dubbio che molte delle richieste di patteggiamento furono motivate dal proposito di creare condizioni più favorevoli in cui formulare le richieste di revoca o sostituzione delle misure cautelari in corso, altre dalle condizioni economiche dell’imputato, ma non può non rilevarsi come la strategia processuale vincente, decisamente più costosa per l’imputato, si rivelò quella che aveva puntato sulla carta della prescrizione.

    Non è in discussione, ed è persino ultroneo precisarlo, il diritto difensivo di utilizzare questa freccia che il legislatore consente all’imputato di avere al suo arco e che determina le strategie difensive, ma sembra corretto sottolineare che, insieme al rischio che il processo diventi ‘immortale’, il legislatore si faccia carico di quello che la prescrizione costituisca fonte di disparità di trattamento tra gli imputati.

    Parallelamente all’inchiesta nei confronti delle persone fisiche, furono aperti 9 procedimenti collegati, a carico di nove società farmaceutiche, per gli illeciti di cui agli artt. 24 e 25 del D. lvo 231/01. La Procura di Bari contestava alle 9 multinazionali del farmaco (tra le più grandi al mondo) l’inadeguatezza dei modelli organizzativi, quanto meno con riferimento alle forme di controllo dei dirigenti e sottoposti, imputati nel procedimento contro le persone fisiche. I procedimenti furono tutti definiti con sentenze di patteggiamento, previa modifica e adeguamento di ciascun modello organizzativo delle nove società, e pagamento di somme di danaro per l’ammontare di circa 7 milioni e mezzo di euro versati dalle società stesse, a titolo di risarcimento del danno, nelle casse della Regione Puglia.

    Anche se non è possibile ricavare certezze da un ragionamento che rimane ipotetico, vale la pena inserire nel novero degli elementi di valutazione di questa riforma il grave indizio che, nella vicenda processuale richiamata, sia stato proprio il blocco della prescrizione previsto dalla disciplina sulla responsabilità degli enti - sovrapponibile a quello oggetto di riforma, nei termini di cui si è detto-  a determinare le strategie processuali delle case farmaceutiche imputate.

    In attesa di preannunciate ed indispensabili riforme strutturali in grado di accelerare i tempi del processo, proprio l’incremento dei riti alternativi potrebbe contribuire ad allargare il collo di bottiglia e dare la stura ad un processo ordinario che abbia una durata ragionevole.

       

    [1] cfr. ordine del giorno n. 53 approvato dalla Camera dei Deputati nella seduta del 14 giugno 2017.

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