Diritto Penale
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Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite, di Lorenzo Miazzi (parte prima)

Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite

di Lorenzo Miazzi

PRIMA PARTE: il futuro è un ritorno al passato

Sommario 1. Coltivazione di marijuana: un contrasto decennale - 2. La giurisprudenza costituzionale - 3. La remissione alle Sezioni Unite - 4. La sentenza delle Sezioni Unite, Caruso: una risposta che va oltre il quesito - 5. La sentenza nei suoi passaggi logici essenziali - 6. Per la Cassazione il futuro è un ritorno al passato.

1. Coltivazione di marijuana: un contrasto decennale

La vicenda del trattamento giuridico della coltivazione di sostanze stupefacenti è sempre stata complessa e ha dato vita a un vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza; dibattito che ha il suo ultimo approdo nella pronuncia n. 12.348/20 delle Sezioni Unite, imp. Caruso (udienza del 19.12.2019, deposito il 16 aprile 2020) che ha stabilito che  “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.

Va detto, preliminarmente, che la questione della coltivazione di sostanze stupefacenti  riguarda di fatto riguarda solo la pianta della marijuana, dato che nel nostro paese non si coltivano papavero da oppio né coca né funghi allucinogeni né alcuna delle piante da cui si traggono principi attivi vietati: ayahuasca, Catha edulis etc.

Le problematiche riguardanti la coltivazione della marijuana si sviluppano da molti decenni attorno a due profili: quello dell’interferenza fra coltivazione di canapa per uso stupefacente e coltivazione di canapa per uso industriale[1] e quello del rapporto fra coltivazione di canapa per uso stupefacente e destinazione all’uso personale della medesima.

La sentenza in commento si occupa - pur con accentuata autonomia sistematica - di questo secondo profilo: la coltivazione di cannabis per uso personale è reato? Il dilemma oggi risolto dalla Corte di Cassazione si muove con evidenza letterale fra due nozioni (“coltivazione” e “uso personale”) introdotte da una legge del 1975. E va sottolineato che l’interminabile contrasto di giurisprudenza - che è ampiamente riassunto nella motivazione della sentenza Caruso, che vi dedica ben 14 pagine - si muove sin da allora sugli stessi argomenti e con le stesse motivazioni. E la soluzione oggi scelta era già sembrata imporsi addirittura nel 1994.

2. La giurisprudenza costituzionale

Poiché il dato normativo letterale (artt. 73 e 75 T.U. n. 309/1990) non esclude la punibilità della coltivazione - come fa invece per detenzione - qualora destinata all’uso personale, e la giurisprudenza di legittimità non ha inteso equiparare le due  condotte, più e più volte i giudici di merito si sono rivolti alla Corte costituzionale perché valutasse la irragionevolezza di tale situazione. Perciò in materia si sono susseguite numerose pronunce del giudice delle leggi, tre delle quali vanno assolutamente riprese, perché fondamentali nella motivazione della sentenza in commento.

La prima è la sentenza n.  443/1994, con cui la Corte dichiarò inammissibile la questione proposta (si dubitava della legittimità costituzionale della legge nella parte in cui non esclude la illiceità penale delle condotte di coltivazione univocamente destinate all’uso proprio), in ragione della rilevata possibilità di giungere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata alla fattispecie penale, suggerendo la possibilità, sotto un profilo interpretativo, di ritenere che “l’operata depenalizzazione della condotta di «chi ... comunque detiene» sia già interpretativamente estensibile alle condotte di chi «coltiva e fabbrica» (le sostanze in oggetto, per il fine indicato), quale previste dalla normativa denunciata.

Con la decisione n. 360 del 1995, la Corte costituzionale affermò al contrario che ogni forma di coltivazione deve ritenersi penalmente illecita, anche se univocamente destinata all’uso personale, alla stregua del principio di offensività[2].  Ciò in quanto nel caso della coltivazione, non è prognosticabile la destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio; inoltre l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili: “nel caso della coltivazione, non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate” rimane incerta. Per “rimediare” alla punibilità in astratto anche delle condotte “esigue”, si richiamava il principio di offensività in concreto, sostenendo che spetta al giudice verificare se la condotta, come accertata nel processo, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva, secondo lo schema del “reato impossibile”.

La sentenza n. 109 del 2016, infine, ha per oggetto l’ingiustificata disparità di trattamento fra chi detiene per uso personale sostanza stupefacente ricavata da piante da lui stesso in precedenza coltivate, non punibile secondo il remittente; e chi è invece sorpreso mentre ha ancora in corso l'attività di coltivazione, finalizzata sempre all'uso personale, punito ai sensi dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. La pronuncia, sul punto della coltivazione, è del tutto pedissequa a quella del 1995. Tuttavia la sentenza n. 109/2016 - forse per convinzione, forse per semplice completezza sistematica - in un passaggio che assomiglia a un obiter dictum affianca, all’ipotesi di non punibilità secondo la figura del reato impossibile, quella del riconoscimento del difetto di tipicità:  e in questo passaggio teorico andrà a infilarsi SS.UU.  Caruso, facendo saltare tutta l’impostazione di trent’anni di giurisprudenza costituzionale e di legittimità. 

3. La remissione alle Sezioni Unite

L’ordinanza n. 35436/2019 della Terza Sezione riassumeva la situazione attuale. Veniva descritto il contrasto di giurisprudenza originatasi dalle SS.UU. Di Salvia del 2008, sentenza che  (riportandosi strettamente a quanto motivato dalla Corte costituzionale n. 360/1995) riteneva proibita ogni “coltivazione”, escludeva però il reato in presenza di un dato quantitativo estremamente ridotto, richiamando il principio della offensività in concreto.

Il giudice remittente osserva che “sulla declinazione del concetto di "offensività in concreto", però, la giurisprudenza di questa Corte si è divisa seguendo due diversi filoni interpretativi pur gemmati dalla comune premessa che la pianta sia quantomeno conforme al modello botanico vietato.”

In effetti sin da subito, dopo la sentenza Di Salvia si erano contrapposti  due indirizzi.

Per il primo, e più restrittivo, l'offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente.

Per il secondo, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.

L’ordinanza quindi sottopone alle SS.UU. il contrasto sopra descritto sotto uno specifico profilo: quello della idoneità della condotta a ledere la salute pubblica (alimentando il mercato della droga), declinata nel senso dell’idoneità della pianta a produrre sostanza per il consumo. Il quesito posto dalla Terza sezione con ordinanza del 11.6.2019 è perciò questo:

“Se ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, è sufficiente che la pianta sia idonea per grado di maturazione a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato”

4. La sentenza delle Sezioni Unite, Caruso: una risposta che va oltre il quesito

Sul punto, la Corte ha assunto la seguente posizione: “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”.

Insomma, è il ribadito principio secondo cui bastano la conformità al tipo botanico e l’attitudine a produrre D9-THC: e la sentenza sul punto si riporta alla giurisprudenza “restrittiva” richiamata dall’ordinanza  di rimessione[3].

Il nucleo rilevante della risposta, però, non è questo, ma l’aggiunta sulla destinazione ad uso personale:

devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore“.

Ora, nell’ordinanza di rimessione la questione neppure era accennata: mai in essa si parla di uso personale. Eppure le SS.UU. hanno ritenuto meritoriamente di affrontare l’argomento, consapevoli che una risposta limitata alla prima parte sarebbe stata l’ennesima “non soluzione” della questione.

E’ evidente lo scarto fra il quesito e la risposta: la Terza Sezione chiede se, perché sussista il reato, sia sufficiente l’idoneità botanica della pianta o se essa debba avere concretamente un contenuto apprezzabile di principio attivo. Le SS.UU. rispondono che sì, sono sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine a produrre sostanza stupefacente; ma non se la coltivazione è destinata all’uso personale!

5. La sentenza nei suoi passaggi logici essenziali

Poiché la motivazione è molto completa e molto tecnica, non ritengo utile ripercorrere e chiosare l’argomentare giuridico della sentenza; mi limito perciò a descriverne il “meccanismo interno”, con la libertà  e chiarezza consentita al commentatore.

Infatti al di là del giusto bon ton istituzionale (“sembra”, “astrattamente non incompatibile” etc.) la sentenza, infilandosi come si è anticipato nel pertugio della tipicità aperto dalla sentenza n. 109/2016, non “rivede” ma rovescia dalle fondamenta l’edificio costruito da Corte costituzionale n. 360/1995 e SS.UU. Di Salvia.

Il punto di partenza (p. 18 della sentenza Caruso) è la contrapposizione fra le sentenze della Corte costituzionale n. 443/1994 e n. 360/1995: la prima che propone l’ “equiparazione tra la coltivazione ad uso personale e la detenzione ad uso personale”, la seconda (con la pedissequa SS.UU. Di Salvia) che “opta per l'affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione”; anticipando che è quest’ultima affermazione che “deve essere rivista”.

Il primo passaggio logico sviluppato è l’equiparazione della coltivazione in generale non alla detenzione, ma alla produzione e alla fabbricazione di non autorizzata. Il secondo passaggio è la valorizzazione di un concetto giuridico di coltivazione, diverso da quello naturalistico fatto proprio da Corte costituzionale n. 360/1995 e SS.UU. Di Salvia, e ciò riproponendo la distinzione tra coltivazione "tecnico-agraria" e coltivazione "domestica", che proprio la Di Salvia aveva negato.

Questo secondo passaggio permette di giungere al cuore della sentenza (p. 19): “L'irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve … essere ancorata, non alla sua assimilazione alla detenzione e al regime giuridico di quest'ultima, ma, più linearmente, alla sua non riconducibilità alla definizione di coltivazione come attività penalmente rilevante; dandosi, così, un'interpretazione restrittiva della fattispecie penale…”

La diversa valutazione della coltivazione domestica passa attraverso il superamento (finalmente) della imponderata e più volte ripresa affermazione della sentenza n. 360/1995 secondo cui “la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare   nuove   e   non   predeterminabili   disponibilità   di   stupefacenti”.  Quest’affermazione, chiarisce la sentenza Caruso, “non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l'intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti”. (p. 20)

Evviva! Non è vero - ed era evidente, lo si diceva da venticinque anni! - che la coltivazione dà risultati imprevedibili: da una pianta non si può ricavare un panetto di hashish! Anzi, proprio la “prevedibilità della potenziale produttività” diventa per la sentenza Caruso il parametro base che assieme agli altri permette di individuare la coltivazione non penalmente rilevante. Che è quella che non offende l’unico bene giuridico afferente alla tutela penale della coltivazione, che è la salute pubblica (e non anche i fantasiosi concetti sparpagliati sul tavolo dalle sentenze di questo ventennio, e che le SS.UU. definitivamente escludono: rinvio alla lettura di p. 21).

La sentenza quindi riconsidera alla luce di quanto affermato il paradigma della offensività in concreto giungendo a individuare (p. 22) l’ambito del penalmente irrilevante nelle due distinte ipotesi di coltivazione ancora in atto (e ciò avviene per “inadeguata modalità di coltivazione”) e di coltivazione giunta al risultato finale (nel caso di raccolto non conforme al tipo botanico o di un contenuto in principio attivo troppo povero per la destinazione all’uso stupefacente).

Infine la sentenza Caruso richiama ancora la sentenza n. 109/2016 (che  le ha fornito la pista su cui si muoversi) per affermare l’armonia delle conclusioni con la decisione quadro n. 2004/757/GAI e per inquadrare giuridicamente la fattispecie del detentore della sostanza stupefacente coltivata (p. 23).

La conclusione cui giungono le Sezioni Unite si basa, radicalmente, “sull'affermazione della mancanza di tipicità della condotta di coltivazione domestica destinata all'autoconsumo”. Se la prima conseguenza di questa radicalità è l’esclusione dal penalmente rilevante, non meno importante è la seconda conseguenza, e cioè l’esclusione dalla rilevanza amministrativa ex art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, norma che non può trovare applicazione “perché tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione”.

Ecco dunque in conclusione la graduazione della risposta giudiziaria alla coltivazione di cannabis alla luce della sentenza Caruso:

a) devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo (per mancanza di tipicità) nonché la coltivazione industriale che non produca sostanza stupefacente (per mancanza di offensività in concreto);

b) la detenzione di sostanza stupefacente ottenuta attraverso una coltivazione domestica è soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 (in quanto detenzione);

c) alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l'art. 131-b/s cod. pen., e l'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.

6. La Cassazione disegna il futuro e rende giustizia al passato

E’ il caso, all’esito di questa sentenza, di ritornare a quello che è stato davvero il momento cruciale dell’evoluzione della giurisprudenza sulla coltivazione a uso personale: quello successivo al referendum del 1993, da cui anche la sentenza in commento prende le mosse. E non si pensi che sia archeologia giudica: è stretta attualità, perché è proprio dal contrasto di giurisprudenza sorto nel 1994 - ma riprendendo l’orientamento allora perdente - che nasce, a sorpresa, la sentenza Caruso!

Il referendum del 1993 - lo ricordano anche le SS.UU. -  intervenne ripristinando la non punibilità della detenzione per l’uso personale, ma non  abrogò la previsione della punizione della coltivazione per uso personale. La giurisprudenza di  merito provò in prima battuta a percorrere la strada dell'interpretazione estensiva dell'art. 75  del  d.P.R.  n.  309/1990, ritenendo che la cd. «coltivazione domestica» non integrasse gli estremi della fattispecie tipica della «coltivazione» vietata dall’art. 73, comma primo, ma costituisse species del più ampio genus (di chiusura) della «detenzione» prevista dall’art. 75, con conseguente depenalizzazione in caso di uso personale[4].

La Cassazione, nel 1994, sembrò accogliere questa impostazione, in due sentenze che valorizzano peraltro due profili molto diversi: la destinazione a uso personale e la nozione normativa di coltivazione.

La prima sentenza (imp. Polisena) è quella che inaugura il filone della giurisprudenza secondo cui la coltivazione per uso personale ricade nella nozione di “detenzione” [5], “attraverso un'interpretazione estensiva dell'espressione "comunque detiene" di cui al testo del primo comma dell'art. 75, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta”. [6]

Giunge ad escludere il reato, ma per una strada molto diversa, anche un’altra pronuncia (imp. Gabriele), che precorre la strada scelta oggi dalla SS.UU. Caruso, quella della tipicità. La sentenza approfondisce la nozione normativa di "coltivazione" osservando che l'ipotesi normativa di coltivazione evocherebbe, in realtà, “la disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione (preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla custodia del prodotto ecc.), quali si evincono dagli artt. 27 e 28 del D.P.R. n. 309 del 1990.[7]

Ebbene: anche la Corte costituzionale nel 1994 sembrò seguire questa impostazione. Come già ricordato,  la Corte con la sentenza n. 443 dichiarò inammissibile la questione di legittimità in ragione della rilevata possibilità di giungere  ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della fattispecie penale, suggerendo la possibilità, sotto un profilo interpretativo, di estendere la depenalizzazione della condotta di detenzione a quella di chi coltiva per uso personale. In modo ancora più esplicito, la Corte afferma che “i primi interventi giurisprudenziali e dottrinali già risultino orientati proprio nel senso della interpretazione conforme al precetto costituzionale”; con chiaro riferimento proprio alle sentenze n. 6347 e 3353 appena citate.

Dunque, nel 1994 la questione sembrava risolta: la giurisprudenza di merito e quella di legittimità avevano affermato che la “coltivazione” di sostanza stupefacente punita dalla legge è quella che prevede la disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme, privi di autorizzazione; invece la coltivazione domestica, non aventi tali caratteristiche, o non costituisce coltivazione in senso tipico vietata dall’art. 73 o rientra nella condotta di chi “comunque detiene" di cui al testo del primo comma dell'art. 75. E la Corte costituzionale aveva definito questa interpretazione “conforme al precetto costituzionale.” Insomma, gli stessi approdi delle SS.UU. Caruso!

Invece le resistenze di una parte della Cassazione, e il (per certi versi clamoroso) ribaltone effettuato dalla sentenza n. 360/1995 hanno cambiato il corso della vicenda, imponendo 25 anni di contrasti giurisprudenziali e, soprattutto, di condanne oggi non più giustificate.

È un po’ straniante - almeno per chi ha vissuto da giudice di merito tutto il lungo cammino della giurisprudenza - questo passo avanti della Suprema Corte che è un inaspettato ritorno al passato, a oltre 25 anni fa, quando ero un giovane pubblico ministero.

Fa uno strano effetto pensare che si era nel giusto allora; che era nel giusto quell’orientamento del 1994 (le sentenze Gabriele e Paracena) secondo il quale la nozione normativa di "coltivazione" non si attaglia alla coltivazione minima per uso personale; che era nel giusto Corte costituzionale n. 443/1994, quando confermava che quella era la “interpretazione conforme al precetto costituzionale”. E si può dire adesso a voce alta che affermazioni apodittiche come l’imprevedibilità del risultato della coltivazione, la maggiore distanza della coltivazione dal consumo della sostanza (ma se è direttamente coltivata!), la necessaria tutela dell’ordine pubblico, la salvaguardia delle giovani generazioni, l’incremento del mercato clandestino etc.; tutto questo era lontano dalla realtà. Si può dire che queste affermazioni, che per anni sono state imposte come dogmi, erano di fatto esplicitazioni, legittime, di una idea di politica criminale; e per questo non più valide di quelle espressione del pensiero politico contrario (per cui la droga leggera non va proibita, le organizzazioni criminali si combattono con la depenalizzazione e non con il proibizionismo etc.).

Senza aver mai preso posizione da magistrato fra queste opposte visioni, rifletto che era giusto pensare che la soluzione giuridica dovesse essere coerente con la realtà (e anche col buon senso pratico) e che una minima coltivazione domestica non metteva in pericolo nulla di tutto ciò che si paventava. Fa uno strano effetto leggerlo adesso.

 

[1] Profilo sul quale egualmente le SS.UU si sono recentemente pronunciate, con sentenza del 30.5.2019, imp. Castignani; mi permetto di rinviare al commento: Cannabis: dalle sezioni unite una risposta che va interpretata, di Lorenzo Miazzi , in questa Rivista, creato il 06 Giugno 2019.

[2] “La detenzione, l'acquisto e l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all'uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore …. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l'uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”: Corte costituzionale, sentenza n. 360 del 1995.

[3] Sia detto incidentalmente, sul punto la sentenza non confuta l’argomento basato sull’osservazione che la legge vigente vieta la coltivazione di sostanza stupefacente, non della pianta di cannabis (come faceva la legge del 1975).

[4] La giurisprudenza argomentava che a seguito   della  depenalizzazione  della  detenzione  per  uso  personale della droga,  conseguente  agli  esiti  del  referendum  abrogativo,   e   con   il  superamento del dato quantitativo mediante l'abrogazione del concetto  di  dose  media giornaliera, si imponeva al giudice di considerare la  finalizzazione  della  condotta  quale  unico   discrimine   per   la  sanzionabilità penale della stessa: vedi App. Catanzaro, 23 marzo 1994, Noia, in Foro it., 1994, II, c. 510, con nota di G. Amato, La coltivazione di sostanze stupefacenti destinate ad uso personale non è più reato.

[5] Che trova la sua espressione più nota nella sentenza Sez. 6, n. 17983 del 18/01/2007, Notaro, Rv. 236666, più volte citata anche dalle SS.UU. Caruso.

[6] Cass. Sez. VI, 30.5.1994, n. 6347, Polisena. Si afferma in motivazione che "una volta abrogato il divieto dell'uso personale di sostanze stupefacenti ed una volta che il discrimine fra gli illeciti penale ed amministrativo resta fissato soltanto nella destinazione della sostanza al consumo personale, l'esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento per condotte [caratterizzate] dal medesimo fine e quindi di interpretare l'art. 75 in senso conforme alla Costituzione impone in modo più stringente di estendere tale discrimine anche alla coltivazione. E tale risultato può essere agevolmente realizzato attraverso un'interpretazione estensiva dell'espressione "comunque detiene" di cui al testo del primo comma dell'art. 75, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta”. Il principio è affermato in relazione alla detenzione-coltivazione di due piantine di canapa indiana.

[7] Cass. Sez. VI, 13.9.1994, n. 3353, Gabriele. E’ importante rilevare che tale decisione ritenne la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art.75 del D.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, nella parte in cui affermava la non punibilità del tossicodipendente per detenzione, acquisto ed importazione della sostanza stupefacente per uso personale, e ne prevedeva invece la punizione nel caso che si fosse procurato la droga mediante coltivazione domestica. Secondo questa pronuncia, così intesa la coltivazione di sostanze stupefacenti e  psicotrope penalmente rilevante, considerata la diversità dei presupposti ed avuto riguardo alla complessa attività svolta dal tossicodipendente per procurarsi la droga, qualunque sia il fine cui essa è rivolta, si ritenne ragionevole la diversità della disciplina normativa ad essa riservata rispetto alle altre ipotesi singolarmente contemplate dall'art. 75, relativamente alle quali è stata esclusa l'illiceità penale delle condotte, quando la droga sia destinata all'uso personale.




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