Processo Civile
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La chiusura anticipata del processo esecutivo per assenza di un titolo certo anteriore al ventennio: il discusso orientamento della Corte di Cassazione, a margine di Corte di Cass. 15597/2019

La chiusura anticipata del processo esecutivo per assenza di un titolo certo anteriore al ventennio: il discusso orientamento della Corte di Cassazione, a margine di Corte di Cass. 15597/2019 Di Ginevra Iacobelli

 Sommario: 1.I rinnovati poteri del Giudice dell’esecuzione. - 2. La sentenza della III sezione della Corte di Cassazione n. 15597 del 2019

1.I rinnovati poteri del Giudice dell’esecuzione. 

Negli ultimi anni si è assistito, e si assiste, ad un ripensamento complessivo delle funzioni dell’organo esecutivo; tanto nel processo civile quanto nel processo penale si aprono sempre di più spazi “di cognizione” in fase esecutiva.

L’impianto originario del’42 prevedeva sicuramente un procedimento esecutivo del tutto epurato da questioni cognitive che trovavano spazio solo nelle opposizioni, vere e proprie parentesi cognitorie, deputate a censurare l’an e il quomodo dell’esecuzione.

In tal senso, al fine di assicurare una celere soddisfazione del procedente, si sollevava l’organo giudicante dall’esigenza di effettuare verifiche accertative.

Ci si avvide ben presto, però, che l’esecuzione, sin dalla fase espropriativa, è idonea a originare parentesi interne di cognizione. Basti pensare all’emersione di una prova di integrale pagamento che, secondo la logica originaria, non avrebbe potuto determinare una sopravvenuta estinzione, ma solo essere attivata in sede di opposizione.

In tal senso, le riforme del 2005 hanno attribuito al giudice, in sede esecutiva, questioni sulle liti distributive quali il potere di conoscere dell’esistenza dell’ammontare dei crediti e della sussistenza di cause legittime di prelazione ai fini della formazione del piano di riparto.

Mutano i rapporti tra cognizione ed esecuzione: da una rigida contrapposizione sembra arrivarsi all’idea di una comunicazione necessaria. Da questa affermazione discende, come corollario, la naturale appartenenza di talune questioni cognitive all’esecuzione e l’attribuzione al G.E. del potere di conoscerne e deliberarne, sia pure sommariamente e con valore solo endoesecutivo.

Si ripensa, in tal modo, l’atteggiamento dell’organo giudicante dinanzi all’emersione di una specifica questione di merito che l’esecuzione è idonea ad occasionare e che faccia venir meno il presupposto dell’azione esecutiva.

In tal senso si legge un’ordinanza della Corte di Cassazione 15605/2017 che ha valorizzato il potere/dovere del giudice dell’esecuzione di rilevare d’ufficio le cause sopravvenute di estinzione del processo, anche chiarendo i criteri di coordinamento con la cognizione instaurata a mezzo dell’opposizione. In particolare, la Corte chiarisce come possa dirsi pacifico che, sia pure in difetto di censura della parte esecutata in ordine ai presupposti dell’esecuzione, sia in potere del g.e. accertare l’inefficacia originaria o sopravvenuta del titolo, correlativamente adottando un provvedimento di chiusura in rito.

Si consolida l’idea che il g.e. possa prendere atto dell’esistenza di un difetto di presupposto processuale o condizione dell’azione esecutiva, tale da determinare in rito il rigetto della domanda di tutela esecutiva. In tal senso, si dice, sono conferiti al giudice poteri direttivi e di controllo dall’art. 484 c.p.c.: il giudice dell’esecuzione diventa garante del buon andamento della procedura nel suo complesso.

La conseguenza è l’emersione dell’istituto dell’estinzione atipica del processo esecutivo che, oltre ad inserirsi nella fase di ripensamento dei rapporti tra cognizione ed esecuzione, sorge in via giurisprudenziale quale correttivo alla tipizzazione delle ipotesi per rinuncia agli atti (art. 629 c.p.c.) e inattività delle parti (artt. 630 e 631 cpc).

  2. La sentenza della III sezione della Corte di Cassazione n. 15597 del 2019

Nel filone richiamato si inserisce, da ultimo, il recente orientamento della Corte di Cassazione che ha chiarito che al giudice dell’esecuzione compete un compiuto accertamento della titolarità del bene da porre in vendita forzata e non una mera verifica formale inerente alla documentazione del ventennio antecedente al pignoramento, non rilevando tale termine come indice presuntivo di appartenenza del bene per usucapione sufficiente a proseguire il processo esecutivo.

L’affermazione richiede delle specificazioni.

È noto che l’art. 567 co.2 c.p.c., in materia di espropriazione forzata, prevede che il creditore che richiede la vendita deve provvedere, tra l’altro, ad allegare i certificati delle trascrizioni relative all’immobile pignorato effettuate nei venti anni anteriori al pignoramento. È, poi, lo stesso legislatore a prevedere la possibilità di sostituire la documentazione necessaria, con un certificato notarile attestante gli esiti delle visure catastali e dei registri immobiliari. Il mancato adempimento dell’onere di cui sopra nel termine di 60 giorni dal deposito del ricorso, eventualmente prorogato ex art. 567 co.3 c.p.c., determina la dichiarazione di inefficacia del pignoramento dell’immobile in oggetto, la successiva cancellazione del pignoramento e l’estinzione del processo esecutivo in assenza di ulteriori beni pignorati.

Se è chiaro, allora, che al Giudice dell’esecuzione compete, per legge, la verifica della documentazione relativa al ventennio la cui assenza determina ipotesi di estinzione tipizzata del processo esecutivo, maggiormente discusso è se al g.e. competa un accertamento della titolarità dell’immobile da mettere in vendita che sia non solo formale, ma anche sostanziale e vada oltre i termini previsti dal 567 c.p.c.

La questione porta con sé il rilievo del termine ventennale di cui all’art. 567 co.2 c.p.c. e la sua natura di indice presuntivo di appartenenza del bene per usucapione.

 Più chiaramente, discusso è se il mero decorso del termine dei vent’anni sia idoneo a permettere la prosecuzione dell’azione per presunzione o se l’acquisto a titolo originario vada accertato e, in tal caso, se la verifica esorbiti dai poteri del giudice dell’esecuzione.

La soluzione non è solo nelle norme che regolano il processo esecutivo, ma è individuata in un congrevio di disposizioni codicistiche tutte individuate dal Supremo Consesso.

In soccorso dell’interprete possono richiamarsi una serie di articoli che delineano chiaramente l’intento legislativo: in primis l’art. 2910 c.c. dispone che il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare beni del debitore o del terzo nei confronti del quale, eccezionalmente, può essere intrapresa la procedura.

Si desume, così, la necessaria titolarità del bene in capo al debitore (salvo l’eccezionale espropriazione nei confronti del terzo).

Il principio può rilevarsi anche dalla disciplina del conflitto tra il terzo proprietario e l’aggiudicatario di un bene non appartenente all’esecutato. Il conflitto va risolto a favore del terzo proprietario, come dimostra il regime dell’evizione nella vendita forzata ex art. 2921 c.c.: il terzo proprietario può rivendicare il bene nei confronti dell’aggiudicatario anche dopo la chiusura del processo esecutivo, senza che possa operare la “sanatoria” dell’art.2929 c.c.

In questo senso, la scelta del legislatore è di qualificare l’acquisto a seguito di vendita forzata come acquisto a titolo derivativo (art. 2919 c.c.)

La stessa Cassazione chiarisce che il legislatore non ha richiesto espressamente che nel processo esecutivo si desse luogo ad un compiuto accertamento della proprietà dell’immobile, ma “l'interpretazione atomistica e al contempo meramente letterale della norma in parola finirebbe per dare a quel significante un significato sostanzialmente irragionevole, riducendolo a un indizio irrazionalmente equivoco. In questa cornice, risulterebbe inoltre irriducibilmente distonico che, nell'evoluzione della normativa inerente alle espropriazioni coattive, mirata a rendere il più affidabile e così appetibile possibile la vendita forzata e quindi il recupero e la stabilità del credito, il legislatore, con la modifica dell'art. 567 c.p.c., abbia invece indebolito lo "standard" di affidabilità e quindi di attrattività del bene trasferito in ottica di mercato, per di più trasferendo ogni rischio sull'acquirente con la sola garanzia per evizione..”

Da tutto quanto detto, la Corte di Cassazione desume, anche in termini logici, che è necessario acquisire documentazione che consenta di risalire all’atto di acquisto anteriore al ventennio in linea con i poteri ordinatori del G.E. in merito alle verifiche preliminari all’accoglimento dell’istanza di vendita, ma non quelli tipizzati dall’art. 567 c.p.c., fermo restando il rilievo meramente endoprocessuale della risultanza, sicché il giudice non accerta la proprietà del bene, con possibilità di proporre evizioni.

Più chiaramente, il giudice dell’esecuzione può addivenire alla sua statuizione anche sulla base di indici formali o presuntivi per limitare, per quanto possibile, il rischio di evizione.

Va così distinta l’ipotesi in cui il creditore non fornisca neppure la certificazione del ventennio, richiamata dal 567 c.p.c., da cui deriva un’ipotesi di estinzione tipica, dall’ipotesi di mancata produzione del primo titolo di acquisto ultraventennale che darà luogo ad una chiusura anticipata del processo esecutivo per fatto del creditore (non troverà applicazione l’art. 2945 co. 3 c.p.c.).

In definitiva, in tema di espropriazione forzata immobiliare, è doverosa la richiesta, da parte del g.e., della certificazione attestante che il bene pignorato appaia di proprietà del debitore esecutato sulla base di una serie continua di trascrizioni di idonei atti di acquisto riferibili al periodo che va dalla data di trascrizione del pignoramento fino al primo atto di acquisto precedente al ventenni.

Alla mancata produzione del suddetto titolo, imputabile al soggetto richiesto, consegue la dichiarazione di chiusura anticipata del processo esecutivo”.

Il principio espresso, sebbene attualmente discusso dalla giurisprudenza di merito, non è solo nelle norme richiamate, ma trova fondamento in ragioni di giustizia sostanziale: la prosecuzione dell’esecuzione, pur a fronte di una causa oggettiva di incapacità della procedura di raggiungere il naturale esito, risultante ex actis, non solo stride con il principio di ragionevole durata del processo, ma finirebbe per aggravare indebitamente la posizione dell’esecutato, la cui tutela è al centro dell’odierno dibattito normativo e giurisprudenziale.

 

 

 

 

 

 

 

 

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