Covid-19 e sorte dei contratti di locazione commerciale durante e dopo il lock down
(nota a Trib. di Roma, ord. 27.08.2020)
di Roberto Natoli
Sommario: 1. La questione oggetto di giudizio - 2. La rinegoziazione dei contratti di locazione stipulati tra imprese e il dovere di solidarietà - 3. La riduzione del canone come conseguenza di un vizio sopravvenuto della cosa locata - 4. L’art. 1584 c.c. come regola espressiva di un principio di ripartizione del rischio dell’impossibilità di far uso della cosa locata - 5. La strada della garanzia per i vizi e il ricorso alla disciplina contrattuale di parte speciale - 6. An e quantum della riduzione del canone - 7. La riduzione del canone tra clausole generali e regole puntuali.
1. La questione oggetto di giudizio
Una premessa a questa nota di commento è doverosa. Si tratta di una pronuncia importante e coraggiosa che recepisce l’appello, rivolto ai giudici civili anche da chi scrive, a individuare senza timori, “in un contesto storico in cui la vita non può certo soccombere innanzi alla dogmatica”[1], rimedi contrattuali per reagire al più clamoroso sconvolgimento delle nostre esistenze dalla seconda guerra mondiale in poi.
Poiché il commentatore non è condannato, a differenza dei giudici, all’urgenza del decidere, le osservazioni, anche di taglio critico, che seguiranno vogliono solo apportare un più meditato contributo di riflessione allo studio di un caso, qual è quello deciso dal giudice monocratico romano, quasi di scuola, tant’è che era stato facile immaginarlo già ai primi di marzo, nei primi e caotici giorni di diffusione dell’epidemia e dei, più o meno riusciti, tentativi di contenerne l’espansione.
La vicenda trae infatti origine da un ricorso, depositato dalla società conduttrice di un immobile urbano adibito a uso commerciale (in particolare, ad attività di ristorazione), tramite il quale è stato chiesto al Tribunale di intervenire, in sede cautelare, per ordinare alla società locatrice di non escutere la fideiussione prestata a garanzia del pagamento dei canoni e di ridurre il canone concordato, a partire dal mese di aprile 2020 e fino al marzo 2021, del 50%.
Il giudice monocratico accoglie parzialmente la domanda di cautela rivoltagli, disponendo la sospensione della garanzia fideiussoria fino all’importo di 30.000,00 euro e la riduzione del canone dovuto del 40% per i mesi di aprile, maggio e giugno 2020, e del 20% da luglio 2020 a marzo 2021.
A questa soluzione giunge attraverso un percorso motivazionale complesso e non privo di spunti interessanti e innovativi. Nell’ordinanza si osserva, infatti:
i) che la buona fede contrattuale ha funzione integrativa del regolamento contrattuale, sì che, pur se non espressamente previsto dalle parti, sussiste un obbligo di rinegoziarne il contenuto se sopravvengono eventi imprevedibili che ne alterano significativamente i presupposti;
ii) che, nel caso in cui una delle parti si sottragga a quest’obbligo, si deve fare ricorso alla clausola generale di buona fede, letta nel prisma del principio di solidarietà costituzionale;
iii) che è dunque ammissibile un’azione di riduzione in via equitativa dei canoni di locazione in ragione del mancato rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, proposta in via principale senza previa domanda di risoluzione per sopravvenuta eccessiva onerosità.
La decisione in commento rende un tributo al principio di effettività, perché non si limita all’astratta declamazione di un diritto ma predispone un rimedio attuarlo. L’ordinanza non si arresta, infatti, sulla soglia della sterile affermazione secondo cui dalla buona fede può dedursi un obbligo di rinegoziare, ma le dà corpo con un dispositivo dirompente per l’esito cui conduce, per nulla ovvio[2] e fin qui sostanzialmente ignoto alla giurisprudenza italiana[3]: se le parti non si accordano per condividere il rischio sopravvenuto, le condizioni che riportano il contratto “entro i limiti dell’alea normale” sono stabilite dal giudice.
2. La rinegoziazione dei contratti di locazione stipulati tra imprese e il dovere di solidarietà
Chiariti gli innegabili pregi della decisione in commento, può ampliarsi il raggio del discorso. L’ordinanza prende posizione su una questione che affligge i moltissimi operatori economici che, esercitando le proprie attività in locali condotti in locazione, sono tenuti al rispetto delle misure di contenimento della pandemia nel corso del tempo varate dal Governo per tutelare la salute pubblica: i quali, dunque, sono stati costretti nella primavera 2020 a chiudere al pubblico per più di due mesi e, in seguito (così ancora nel momento in cui si scrive), hanno dovuto rimodulare, sovente con aumento dei costi e riduzione dei ricavi, le proprie attività.
Sotto questo profilo, il settore della ristorazione rappresenta davvero un caso di scuola. Non solo, infatti, i ristoranti sono rimasti chiusi per oltre due mesi, per evitare la proliferazione dei contagiati nel momento di maggior timore per l’incontrollabile diffusione del virus, ma, quando hanno potuto riaprire le porte, hanno dovuto predisporre onerosi presìdi di sicurezza (frequente sanificazione dei locali; acquisto di ingenti quantità di gel igienizzanti; etc.) e hanno dovuto adottare misure di distanziamento all’interno dei propri locali che hanno intuitivamente ridotto il numero di clienti sia seduti, sia — e soprattutto — in piedi.
Il Tribunale di Roma ha valorizzato questi indiscutibili elementi per ridurre il canone in misura consistente (40%) per i mesi di chiusura al pubblico e, in misura minore, ma non insignificante (20%), per i mesi fino al marzo 2021, giustificando la riduzione quale “applicazione dell’antico brocardo ‘rebus sic stantibus’”, in base al quale i contratti devono “essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio”.
Alla cautela apprestata dal Tribunale sembrerebbe sottesa l’idea che la perdita secca del conduttore, costretto per fatto dell’autorità a sospendere prima e a limitare poi la propria attività d’impresa, debba essere condivisa con il locatore: sì che la riscrittura del contratto si fa carico di una vicenda che tipicamente inerisce alla dimensione interna dell’impresa conduttrice, qual è la contrazione dell’utile netto per ingovernabili fatti sopravvenuti[4].
Tanti commentatori hanno osservato che, in linea di principio, nei tempi eccezionali che stiamo vivendo, una tale idea è, per varie ragioni, molto condivisibile: e, tra queste ragioni, rileva, forse ancora prima del principio di solidarietà, il principio lavorista dettato dall’art. 1 della Carta costituzionale[5]: giacché nel conflitto tra il proprietario dell’immobile che pretende per intero il canone concordato e il conduttore che ne chiede la riduzione argomentando dalla chiusura dell’attività, far prevalere il proprietario (magari sul rilievo che l’obbligazione di corresponsione del canone, avendo natura pecuniaria, non è mai impossibile), significa privilegiare, contro i principî fondativi dell’ordinamento costituzionale, la rendita sul lavoro.
Non può tuttavia essere ignorata l’acuta osservazione secondo cui, nei contratti di impresa, “la risposta dell’attuale diritto dei contratti all’esigenza segnalata sia necessariamente e rigorosamente negativa, anche rileggendolo alla luce del principio di solidarietà, anche vivificandolo attraverso la clausola di buona fede. (…) Basti dire che per molti imprenditori in difficoltà di cassa a pagare, ce ne sono altrettanti, anche bloccati dai decreti, che più forniti di liquidità o avendo predisposto un piano finanziario, continuano a pagare locazioni, forniture, servizi: e allora dov’è l’’impossibilità? (…) Nessuno però ritiene che il locatore, il fornitore, il professionista, siccome in base alla causa in concreto dovrebbero ex lege partecipare ai rischi, possano richiedere di partecipare ai profitti. Una solidarietà a senso unico!” [6].
La critica è affilata e parrebbe ben prestarsi al caso deciso dall’ordinanza in commento, nel quale anche il locatore è un’impresa (nella specie, una s.r.l.) che fa, a sua volta, affidamento sui proventi derivanti dai canoni per pianificare la propria attività imprenditoriale, sicché la loro riduzione inevitabilmente si riflette in minore liquidità e in una ridotta possibilità di pagare i propri debiti commerciali.
3. La riduzione del canone come conseguenza di un vizio sopravvenuto della cosa locata
Nondimeno, nel caso delle locazioni commerciali, anche stipulate tra imprese, si può forse giungere all’esito della riduzione temporanea del canone, raggiunto dal Tribunale romano, percorrendo strade diverse, tutte interne al sistema codicistico e non confliggenti con l’orizzonte costituzionale che giustamente illumina l’ordinanza del giudice monocratico.
È noto infatti che il sinallagma contrattuale, nel contratto di locazione, prevede non poche obbligazioni in capo al locatore, a fronte di due sole in capo al conduttore: i) corrispondere il canone pattuito e ii) far uso della cosa nel modo convenuto o in quello che poteva presumersi secondo le circostanze (cfr. art. 1581 c.c.).
Pertanto, poiché tra le obbligazioni che fanno capo al locatore vi è quella di garantire che l’immobile sia idoneo all’uso pattuito, il punto di vista potrebbe essere agevolmente ribaltato osservando che l’inidoneità all’uso pattuito, determinata da fatto dell’autorità, si ripercuote interamente sul locatore, il quale, sia pure non per sua colpa, non può oggettivamente adempiere l’obbligazione dovuta[7].
4. L’art. 1584 c.c. come regola espressiva di un principio di ripartizione del rischio dell’impossibilità di far uso della cosa locata
Ricondotta la soluzione del problema alla disciplina del contratto di locazione, l’obiezione dottrinale secondo cui la solidarietà non può spingersi fino al punto di far partecipare l’altra parte ai rischi d’impresa sembra perdere di consistenza: non si tratta, infatti, di accreditare una condivisione di rischi e profitti tra due contraenti imprenditori, ma di disciplinare, nel singolo rapporto contrattuale, le conseguenze dell’alterazione del sinallagma in conseguenza della sopravvenuta inidoneità della cosa all’uso convenuto o che poteva “altrimenti presumersi dalle circostanze” (arg. ex art. 1587, comma I, n. 1, c.c.)[8].
A partire da queste basi, ci si può porre il problema, logicamente successivo, di temperare la rigidità della soluzione che emerge dalla disciplina del contratto di locazione, secondo cui “non è da escludere a priori l’eventualità che, in certi casi, la riduzione del canone dovuto si spinga — per una o più mensilità — sino a portarlo allo zero” [9].
Per operare tale temperamento si può probabilmente attingere alla regola dettata dall’art. 1584 c.c. per il caso di impossibilità di far uso della cosa locata durante le necessarie riparazioni[10]: regola, a ben vedere, espressiva di un più generale principio di ripartizione del rischio tra le parti per il caso d’impossibilità d’uso del bene locato in ragione della durata dell’impossibilità d’uso della cosa locata: il rischio grava interamente sul conduttore solo per durate brevi, cioè inferiori a venti giorni, altrimenti restando in linea di principio in capo al locatore.
Questa regola offre altresì dei criteri per sindacare la correttezza dell’eccezione di inadempimento opposta dal conduttore (sempre che la si ritenga operante anche nel contratto di locazione[11]), la quale non potrà dirsi ex fide bona se sollevata a fronte di impossibilità d’uso di breve durata, atteggiandosi in quel caso a pretesto malizioso per sottrarsi alla corresponsione del canone; potrà, invece, reputarsi legittima qualora l’impossibilità d’uso si protragga oltre i venti giorni, e dunque per un arco temporale dal legislatore reputato significativo.
5. La strada della garanzia per i vizi e il ricorso alla disciplina contrattuale di parte speciale
È dunque anzitutto alla disciplina dei vizi del contratto di locazione che si può attingere per offrire una soluzione a casi come quello deciso dal giudice monocratico romano, nel quale entrambe le parti del contratto rivestono la qualifica di imprenditori commerciali e rispetto al quale non ha quindi senso invocare la prevalenza del lavoro sulla rendita[12].
Dall’art. 1578, comma I, c.c. si desume infatti che il concetto di vizio è strettamente collegato a quello di idoneità all’uso pattuito e che la garanzia trova fondamento nella necessità di garantire l’immutabilità del sinallagma funzionale[13], di talché, se il bene non è più idoneo, il conduttore può, a sua scelta, chiedere la risoluzione o la riduzione del canone. Dal capoverso del medesimo articolo si evince, poi, che il rilievo del vizio (i.e.: dell’inidoneità all’uso convenuto) è oggettivo[14], nel senso che il vizio apre alla doppia strada risoluzione / riduzione del canone quale ne sia la causa, rilevando l’eventuale condotta del locatore solo in punto di (ulteriore e diversa) domanda di risarcimento dei danni: è, infatti, “vizio della cosa qualunque fatto esterno, anche se dovuto a terzi o forza maggiore, che sia tale da procurare una diminuzione del godimento della cosa (…) per cui l’imperfetta realizzazione del sinallagma su verifica anche quando la causa del vizio sia estranea alla sfera di azione e di previsione del locatore” [15].
Poiché nel caso scrutinato dal Tribunale romano siamo indubbiamente al cospetto di una sopravvenuta inidoneità all’uso pattuito — cioè di un vizio — può applicarsi, giusta il rinvio operato dall’art. 1581 c.c., la disciplina dettata dall’art. 1578 c.c.[16]
A differenza delle regole sui rimedi contrattuali di parte generale, improntate (come correttamente osservato nell’ordinanza in commento e come si evince in particolare dall’art. 1467, comma III, c.c.) a un favor per i rimedi demolitori, l’applicazione di questa disciplina di parte speciale accorda direttamente al conduttore, in alternativa alla tutela risolutoria, un diritto alla riduzione del canone: riduzione che, in casi come quello deciso dall’ordinanza, potrebbe essere addirittura più consistente di quella richiesta dalla società ricorrente e parzialmente concessa dal Tribunale di Roma[17].
Si è già detto che si potrebbe persino ritenere che nulla sia dovuto per i mesi del lock down e che, finché perdureranno le misure di distanziamento interpersonale, si potrebbe disporre una riduzione anche più consistente del 20% accordato dal Tribunale capitolino.
Dall’applicazione dell’art. 1581 c.c., infatti, consegue che, se il conduttore non può completamente godere del bene secondo l’uso convenuto, non è tenuto a corrispondere il canone; se può farne un uso ridotto ha, invece, diritto a una riduzione che, nell’impostazione qui coltivata, tutta interna alla tutela dell’equilibrio sinallagmatico del contratto di locazione perturbato dall’evento pandemico, non dipende dai minori ricavi o dai maggiori costi ottenuti o sostenuti dalla società conduttrice in conseguenza dell’evento pandemico, ma tiene conto del legame tra l’uso possibile del bene locato e il canone originariamente convenuto sul presupposto che i locali oggetto di locazione potessero ospitare un certo numero di clienti e non il più ridotto numero conseguente all’adozione delle misure di contenimento.
6. An e quantum della riduzione del canone
Con un’ovvia dose d’approssimazione, un punto di partenza per quantificare an e quantum del canone post pandemia può quindi essere il seguente: per il periodo del lock down nulla è dovuto perché, per più di venti giorni, non è stato possibile far uso del bene per lo scopo ristorativo convenuto; per il periodo successivo al lock down è dovuto un canone ridotto, in proporzione al minor uso che del bene locato si può fare, nel rispetto delle misure di contenimento.
A partire da qui, la società locatrice può tuttavia dimostrare, anche presuntivamente, che durante il lock down il locale è parzialmente servito all’uso pattuito (ad esempio, perché ha consentito di preservare gli alimenti non deperibili, stivati nei magazzini o nei congelatori rimasti in funzione; di ospitare macchinari e attrezzature; di utilizzare le cucine per confezionare cibo da asporto; di preservare l’avviamento dell’attività economica); oppure che, alla riapertura successiva al lock down, l’uso convenuto del bene non sia mutato rispetto al periodo prepandemico (tanto può accadere, ad esempio, per i ristoranti particolarmente esclusivi, con tavoli già distanziati per garantire riservatezza alla clientela): in questo caso il rispetto delle misure di distanziamento interpersonale è infatti compatibile con l’uso originariamente convenuto[18], sì che il conduttore non avrà diritto ad alcuna riduzione di canone, neppure se, per ipotesi, avesse subìto comunque una contrazione di utili (che potrebbe derivare dalle maggiori spese da sostenere per sanificare i locali o anche dal ridotto flusso di clienti dovuto al generale timore di uscire di casa): una tale contrazione non è infatti in alcun modo imputabile all’idoneità del bene all’uso convenuto e rientra nel tipico rischio di impresa che grava sull’impresa conduttrice[19].
7. La riduzione del canone tra clausole generali e regole puntuali
La linea interpretativa proposta in queste note ha, forse, il pregio di ridurre quell’ampio margine di discrezionalità che inevitabilmente consegue alla creazione di regole di matrice giudiziale, derivante dall’uso, non mediato da norme puntuali e dalle regole generali che da esse possono ritrarsi, di princìpi costituzionali e clausole generali[20].
L’ordinamento è necessariamente incompleto e ricco di lacune normative. Quando, però, le norme puntuali esistono, e la loro applicazione non confligge, come nel caso di cui si sta discutendo, con i princìpi costituzionali, decidere in base a esse riduce la discrezionalità (e i conseguenti margini di opinabilità e imprevedibilità) che sempre accompagna l’applicazione delle clausole generali. La bontà del richiamo alle norme codicistiche si coglie del resto riflettendo proprio sul caso affrontato, sia pur con apprezzabilissimo coraggio, dal giudice romano: perché per i tre mesi del lock down la riduzione del canone dovrebbe essere del 40% e per i successivi mesi del 20%?
La soluzione qui suggerita ha, forse, il pregio di dettare una regola operativa (o, meglio, un principio di regola operativa) con un aggancio normativo un po’ più solido delle ragioni equitative che hanno sorretto la cautela concessa. D’altro canto, conoscere con ragionevole probabilità l’esito di un contenzioso è sempre il miglior viatico per evitare le liti e stimolare le parti a rinegoziare volontariamente: confrontandosi magari, nel caso delle locazioni commerciali, non sul solo canone ma anche su ulteriori e non meno rilevanti profili[21].
[1] Così Benedetti – Natoli, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in https://www.dirittobancario.it/editoriali/alberto-maria-benedetti-e-roberto-natoli/coronavirus-emergenza-sanitaria-e-diritto-dei-contratti-spunti-un-dibattito, p. 4.
[2] Una sintesi completa del dibattito sul tema in Tuccari, Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, Milano, 2018, spec. p. 64 ss.
[3] Anche le pronunce di merito più innovative raramente si spingono sul terreno della riscrittura delle condizioni (o di talune condizioni) contrattuali. Se non ci si inganna, tra le pronunce edite solo Trib. Bari (ord.) 14 giugno 2011, in Contr., 2012, p. 571, ha modificato in sede cautelare il quadro complessivo delle obbligazioni di fonte contrattuale la cui economia fosse stata alterata da fatti sopravvenuti, ordinando alla resistente di eseguire una prestazione diversa da quella originariamente dovuta e “adattata” alle nuove circostanze.
[4] “nel caso di specie, a riportare in equilibrio il contratto entro la sua normale alea atteso che nella fattispecie a fronte del recupero di poco più della metà del credito di imposta per un solo mese si sono verificate delle perdite nette dei ricavi per i mesi di marzo, aprile, maggio di euro 136.555,11 rispetto al corrispondente periodo di gestione dell’anno precedente.
[5] Natoli (e Roppo), Contratto e Covid-19. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza economica, in questa Rivista, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1033-contratto-e-covid-19-dall-emergenza-sanitaria-all-emergenza-economica-di-vincenzo-roppo-e-roberto-natoli
[6] Gentili, Una proposta sui contratti d’impresa al tempo del Coronavirus, in giustiziacivile.com, approfondimento del 29 aprile 2020, p. 7.
[7] Altra questione è se, in questi casi, il conduttore possa in autotutela sospendere o ridurre il canone in applicazione del principio, codificato all’art. 1460 c.c., per cui inadimplenti non est adimplendum. Questione tradizionalmente risolta in senso negativo dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, ma rispetto alla quale si registrano, assai di recente, prese di posizione di segno dichiaratamente opposto: v., ad es., Cass. 25 giugno 2019, n. 16918, in Foro it., 2019, I, p. 3147, così massimata: “in tema di locazione immobiliare ad uso non abitativo, l’inesatto adempimento da parte del locatore dell’obbligo di consegnare il bene in buono stato di manutenzione e di mantenerlo in maniera tale da servire all’uso convenuto legittima l’exceptio inadimpleti contractus da parte del conduttore, con conseguente facoltà di sospendere in proporzione il versamento del canone”.
[8] Nella prassi, peraltro, i contratti di locazione a uso commerciale prevedono frequentemente clausole che vietano espressamente di svolgere attività diverse da quelle convenute.
[9] Nello stesso senso Dolmetta, Locazione di esercizio commerciale (o di studi professionali) e riduzione del canone per «misure di contenimento» pandemico, in www.ilcaso.it, 23 aprile 2020, p. 8, secondo cui “non è da escludere a priori l’eventualità che, in certi casi, la riduzione del canone dovuto si spinga – per una o più mensilità – sino a portarlo allo zero”.
[10] La sospensione del pagamento del canone può peraltro evitarsi valorizzando gli elementi di fatto dai quali emerge comunque una qualche utilità dal bene locato, persino durante il lock down (v. infra, § 6)
[11] La posizione tradizionale della giurisprudenza, si ricordava supra (nota 7), è, infatti, nel senso dell’inopponibilità dell’eccezione di inadempimento al locatore e della conseguente illegittimità della c.d. autoriduzione del canone: cfr. Cass. 26 febbraio 2012, n. 10639, in Arch. loc. cond., 2012, p. 668, la cui massima recita così: “in tema di locazione di immobili urbani per uso diverso da quello abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone (e, cioè, il pagamento di questo in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita) costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provoca il venir meno dell’equilibrio sinallagmatico del negozio, anche nell’ipotesi in cui detta autoriduzione sia stata effettuata dal conduttore in riferimento al canone dovuto a norma dell’art. 1578, comma 1, c.c., per ripristinare l’equilibrio del contratto, turbato dall’inadempimento del locatore e consistente nei vizi della cosa locata. Tale norma, infatti, non dà facoltà al conduttore di operare detta autoriduzione, ma solo a domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, essendo devoluto al potere del giudice di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti”.
[12] Nello stesso Salanitro, La gestione del rischio nella locazione commerciale al tempo del Coronavirus, in giustiziacivile.com, Editoriale del 21 aprile 2020, che invoca per l’applicazione della garanzia per i vizi non in via diretta, ma analogica.
[13] Tabet, La locazione conduzione, in Trattato Cicu Messineo, Milano, 1972, p. 491.
[14] V., ad es. Trib. Mantova 11 febbraio 2014, in Foro it., 2014, I, 3003, che ha disposto la riduzione del canone concordato del 40% in ragione del fatto che, in un immobile adibito a uso abitativo, l’acqua fosse risultata contaminata da arsenico, per tutta la durata dell’inconveniente.
[15] Tabet, op. cit., p. 494 s.
[16] Sotto questa luce, peraltro, anche l’argomento fondato sul rilievo del credito d’imposta pari al 60% dei canoni corrisposti per i mesi di aprile e maggio perde di peso, non solo perché è noto che la normativa tributaria non si riflette sull’interpretazione delle norme civilistiche, ma soprattutto perché quest’agevolazione intanto presuppone un debito d’imposta (evenienza per nulla ovvia) e, più in generale, ha la finalità di dare sostegno alle imprese che, a causa della chiusura delle loro attività e del pedissequo azzeramento dei ricavi, hanno subìto una crisi di liquidità.
[17] Nel caso deciso, come si è già ricordato, la domanda della società ricorrente era infatti limitata a ottenere, oltre alla sospensione della garanzia fideiussoria, una riduzione pari al 50% dei canoni pattuiti.
[18] A tanti contratti di locazione ad uso commerciale sono allegate le planimetrie e in non pochi casi anche i disegni relativi all’attività da svolgersi, di talché non è arduo evincere la tipologia di attività ristorativa da esercitare e l’impatto sulla stessa delle misure di contenimento.
[19] Specularmente, se la riduzione della clientela all’interno dei locali fosse stata compensata dalla possibilità di ospitarla negli spazi esterni limitrofi all’immobile locato (perché, ad esempio, i regolamenti locali hanno ampliato la possibilità di fruire del suolo pubblico), la riduzione di canone sarebbe comunque dovuta.
[20] Le previsioni che contemplano clausole generali producono un ineliminabile fenomeno di produzione normativa da parte del giudice (Belvedere, Le clausole generali tra interpretazione e produzione di norme, in Pol. dir., 1988, p. 634 ss.). Ciò significa che è il legislatore, con una “tattica consapevole di delegazione” (Bartole, Principi generali del diritto (dir. cost.), Enc. dir., vol. XXXV, Milano, 1986, p. 515), ad affidare al giudice il compito di formare la regola di condotta del caso concreto per reagire all’impossibilità di prevedere tutti i futuri stati del mondo attraverso una normazione casistica minuziosa, capillare e assolutamente puntuale: da ciò deriva, evidentemente, uno spostamento del baricentro della produzione normativa dalla sede legislativa alla sede giudiziale. Ovviamente tale strategia di delega non è neutra sotto il profilo della certezza del diritto.
[21] Per limitarsi al tema di queste note, cioè alle locazioni commerciali, la pandemia è stata un’occasione per tante imprese per rinegoziare, oltre al canone per i mesi di chiusura, anche la durata dei contratti; ovvero per prevedere ex ante regole convenzionali per disciplinare futuri lock down. La drammatica esperienza recente ha reso infatti non più imprevedibili tante delle misure di contenimento che, in misura più o meno drastica, sono state adottate nei diversi paesi del mondo. Il “non farsi trovare impreparati” a future pandemie investe, insomma, anche la scrittura dei contratti.