Indennizzo “reale” ed attività espropriativa nel caleidoscopio dei poteri ablatori.
Il punto delle Sezioni Unite
di Fabrizio Tigano
Sommario: 1. Il presupposto fondamentale per la quantificazione dell’indennizzo e del valore “reale” del bene: la distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi; - 2. Il criterio di quantificazione dell’indennità sulla base della normativa interna e comunitaria; - 3. La quantificazione dell’indennità; - 4. Statuto proprietario e pianificazione urbanistica; - 5. Quantificazione dell’indennizzo e art. 42 bis d.p.r. n. 327/2001: osservazioni conclusive.
1. Il presupposto fondamentale per la quantificazione dell’indennizzo e del valore “reale” del bene: la distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi
Le Sezioni Unite (sent.n.7454/2020) tornano sul tema dei vincoli urbanistici e delle indennità spettanti ai proprietari delle aree interessate, tema, invero, assai vasto e ricco di implicazioni sistematiche circa i rapporti con lo statuto proprietario e l’esercizio dello ius aedificandi[1].
Presupposto fondamentale dal quale prende le mosse il ragionamento è la distinzione tra vincoli urbanistici a contenuto conformativo ed espropriativo[2]: i primi investono le zone della pianificazione urbanistica, comunque non singoli beni, ed hanno una durata tendenzialmente indeterminata[3] a differenza dei secondi, posti su specifici beni e quindi in grado di incidere sul diritto di proprietà in termini ben più significativi; questi ultimi, inoltre, sono soggetti alla disciplina posta dall’art. 2 della l. 19 novembre 1968, n. 1187, ancorchè dichiarata incostituzionale e infine sostituita dall’art. 9 del d.p.r. n. 327 del 2001[4].
In termini di principio, va ancora ricordato come, secondo quanto ritiene la costante giurisprudenza, possa essere corrisposto un indennizzo esclusivamente in caso di vincoli espropriativi, in considerazione della limitazione che, data la loro riconosciuta natura ablatoria, determinano sul diritto di proprietà[5]. Non così per i vincoli a contenuto conformativo, laddove l’impatto sulle facoltà di godimento del bene è di diversa latitudine, potremmo dire “quantitativo” anziché “qualitativo”[6].
E dunque, se il vincolo conformativo delinea e plasma il contenuto della proprietà e le relative facoltà in funzione di esigenze pianificatorie di carattere generale concernenti aree più vaste e pluralità di soggetti, il vincolo espropriativo incide sul singolo bene determinando una sostanziale “perdita” del diritto di proprietà.
2. Il criterio di quantificazione dell’indennità sulla base della normativa interna e comunitaria
Sulla scorta delle superiori premesse, le Sezioni Unite, investite della questione relativa alla corretta quantificazione dell’indennità di espropriazione (e di occupazione legittima), svolgono il loro esame muovendo dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 2011 e dall'annessa dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis comma 4 del d.l. n. 333/1992, convertito in legge 8 agosto 1992 n. 352, in combinato disposto con la legge n. 865 del 1971 (art. 15 c. 1 e 16 c. 5 e 6) e la legge n. 10 del 1977 (art. 14), laddove l’indennità di espropriazione veniva indistintamente commisurata al valore agricolo medio[7].
Altro riferimento fondamentale è operato alla decisione della Grande Camera del 29 marzo 2006, ove, richiamando l’art. 1 del protocollo n. 1 sono stabiliti alcuni principi[8] direttamente correlati alla necessità, ai sensi dell’art. 42 c. 3 Cost., che l’indennizzo costituisca un “serio ristoro”, ossia una riparazione non integrale ma nemmeno irrisoria a fronte dell’incisione subita dal diritto di proprietà[9]. Pertanto, l’indennizzo, anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria, va determinato tenendo conto del valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali ed alla sua potenziale (quanto effettiva) utilizzazione economica.
Le Sezioni Unite rammentano, quindi, come (e perché), tenuto conto dell’art. 1 del primo protocollo addizionale CEDU, dell’interpretazione data dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dello stesso art. 42 c. 3 della Costituzione italiana, il criterio, previsto dall’art. 5bis.
Da tale dichiarazione di incostituzionalità è discesa, in un primo tempo, la “reviviscenza”, ai fini della stima, del criterio del valore venale pieno previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865 n. 2359[10].
Pur successivamente abrogato l’art. 39, il principio è transitato nel d.p.r. n. 327 del 2001, laddove è espressamente demandato all’autorità espropriante, in un procedimento aperto alla partecipazione del privato, l’accertamento del valore dell’area e la determinazione della misura dell’indennità di espropriazione[11].
Da questo momento, l’indennità sarà quantificata sulla scorta di dati reali e “tangibili” come il territorio sul quale il bene insiste, il suo utilizzo, la presenza di acqua, energia elettrica ed altro affinchè sussista un “ragionevole legame” con il valore di mercato e l’indennizzo costituisca, di conseguenza, un “serio ristoro”[12].
Il rispetto di tali parametri è tassativo perché inteso ad identificare un punto di equilibrio tra il ristoro spettante all’espropriato e le esigenze pubbliche, scongiurando la possibilità che l’indennizzo risulti irrisorio o comunque non proporzionato. La valutazione in ordine al quantum debeatur, cioè, discende da un esame in concreto delle “qualità” del singolo bene oggetto di ablazione, ferma restando la non omogeneità tra aree agricole ed edificabili[13].
3. La quantificazione dell’indennità
Il suddetto carattere di concretezza, come si diceva, obbliga l’amministrazione ad una valutazione assai puntuale, in particolare quando “pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, il fondo presenti caratteristiche che ne consentono lo sfruttamento per fini ulteriori e diversi da quello agricolo, e quindi di attribuire allo stesso una valutazione di mercato tale da rispecchiare la possibilità di utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificatoria”[14]. Tale criterio di valutazione delinea un “sistema” che muove dalla distinzione – ab initio ricordata – tra vincoli conformativi ed espropriativi, avendo i primi durata tendenzialmente indeterminata a differenza dei secondi[15].
Il combinato disposto discendente dall’applicazione congiunta dell’art. 42 c. 3 della Costituzione italiana e dell’art. 1 primo protocollo della CEDU, opera, quindi, nel senso di richiedere forme di indennizzo, a fronte di incisioni al diritto di proprietà da parte di pubbliche amministrazioni nell’esercizio di poteri ablativi, “tarate” sull’effettivo valore del bene, a prescindere, in tesi, dalla natura agricola o edificatoria dello stesso.
In questa “taratura” rientra una modulazione che determina una oscillazione “in concreto”, tenuto conto delle caratteristiche intrinseche e della presenza di vincoli conformativi. In particolare, in caso di destinazione a verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità, ecc., la valutazione muove dai limiti alle attività di trasformazione del suolo che rientrano nella nozione tecnica di edificazione “da intendere come estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area”.
Pertanto, “ove una zona sia stata concretamente destinata ad un utilizzo meramente pubblicistico, la classificazione apporta un vincolo che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, come tali soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia, con la conseguenza che l’area va qualificata come non edificabile, restando irrilevante la circostanza che la destinazione richieda la realizzazione di strutture finalizzate unicamente alla realizzazione dello scopo pubblicistico”[16].
4. Statuto proprietario e pianificazione urbanistica
Il sistema di quantificazione dell’indennità spettante al soggetto espropriato delineato dalle Sezioni Unite è, come appare evidente, fondato su rilevanti principi di matrice interna e comunitaria, dando la misura di un ragionamento complessivamente equilibrato, a patto che nella sua concreta applicazione non si traduca in un indennizzo irrisorio.
E’, pertanto, necessario, in sede di quantificazione del valore del bene specificamente oggetto dell’attività espropriativa, l’utilizzo del giusto “calibro”.
Del resto, la diretta attinenza del vincolo allo ius aedificandi comporta comunque, in capo al titolare del diritto, un sacrificio significativo derivante dal vincolo e dalla correlativa diminuzione del valore, che si traduce, in sede di esproprio, in un’indennità “dimidiata” (rectius: “conformata”), che "ascende" dal valore agricolo (piuttosto che discendere da quello edificatorio).
Partendo dal presupposto che il diritto dominicale abbia un contenuto essenziale all’interno del quale si rinviene lo ius aedificandi, lo “schema” proposto in ordine alla quantificazione dell’indennizzo suscita, in sede di prima analisi e salvo quanto appresso si dirà, il dubbio che l’applicazione del criterio di valutazione “in concreto” possa determinare condizioni di ingiustizia, tenuto conto che il diritto di proprietà subisce “a monte” una conformazione che discende dalla apposizione del vincolo, mentre, "a valle", gli viene riservata una considerazione, in termini di valore, che, se non operata con la giusta perizia potrebbe riproporre di fatto e sotto mentite spoglie proprio i criteri dell'art. 5bis dichiarato incostituzionale nel 2011.
Da questo punto di vista potrebbe rivelarsi pericoloso e persino inquietante procedere in senso “ascendente”, muovendo, cioè, dal valore agricolo “mediato” e “corretto” percentualmente sulla scorta di un esame in concreto delle caratteristiche del bene e delle attività – esclusa quella edificatoria – in esso consentite.
Le superiori perplessità, così come suggerisce la decisione in commento, vanno, tuttavia, lette alla luce del rapporto che i commi 2 e 3 dell’art. 42 Cost. instaurano proficuamente (ed anche dialetticamente) con la (forse, occorrerebbe dire: le) proprietà[17], la quale è riconosciuta e garantita dall’ordinamento entro i limiti nei quali opera la clausola generale della funzione sociale, spettando al legislatore determinarne i modi di acquisto e di godimento, nonché i limiti, in ragione della sua funzionalizzazione al bene comune.
In questo quadro il diritto di proprietà può subire legittime compressioni, certamente ammesse e contemplate in termini di principio dalla Carta costituzionale: la funzione sociale pone, infatti, un limite “non alla proprietà in quanto tale, ma alla proprietà di quei beni che rivestono importanza dal punto di vista degli interessi sociali”[18].
Ciò consente di evidenziare un dato fondamentale, ossia che la conformazione non costituisce, a ben guardare, un vero e proprio limite, in quanto il contenuto della proprietà “sarà di volta in volta quello (più ristretto) fissato positivamente dalla legge e non già quello (più ampio) rispondente ad un immutabile modello astratto di proprietà, desunto dal diritto naturale”[19]. Il criterio di valutazione del valore reale è, dunque, aderente al dettato costituzionale, non avendo il proprietario alcuna pretesa protetta nella misura in cui il bene sia oggetto – in aderenza con la normativa vigente – di vincoli conformativi in sede di pianificazione urbanistica.
Lo stesso ius aedificandi (la cui consistenza ha notoriamente impegnato, soprattutto nella seconda metà degli anni ’70, dottrina e giurisprudenza e, non ultimo, il legislatore[20]) attiene al diritto di proprietà solo e nella misura in cui venga riconosciuto in tale sede e non in ragione di presunte (e difficilmente dimostrabili, per la verità) vocazioni che renderebbero il bene stesso edificabile a prescindere dalla destinazione di zona, dal vincolo (conformativo) e dalla funzione sociale[21].
Né può tacersi che siffatto sistema trovi una delle sue ragioni giustificative nelle questioni poste dalla c.d. rendita urbanistica e dal connesso rischio di trattamenti differenziati delle situazioni proprietarie di fronte al potere di pianificazione.
La conformazione della proprietà, operata dal legislatore o dall’amministrazione in sede di pianificazione, non è, in definitiva, a sua volta vincolata dalle “cose immobili che costituiscono il territorio”, in quanto esse sono “soggette al potere conformativo della pubblica autorità che ne stabilisce destinazioni ed usi”[22].
Sul piano legislativo, risulta in linea con il quadro testè tracciato il d.p.r. n. 327 del 2001, il quale – in particolare, agli artt. 32 c. 1 e 37 – conferisce piena rilevanza ai vincoli esistenti nel computo dell’indennità di espropriazione[23].
Stante quanto testè osservato, risulta confermata la correttezza, anche in confronto alle obiezioni sopra sollevate, dell’orientamento espresso dalla decisione in commento, nella misura in cui adotta il criterio del c.d. “valore mediato” concernente le aree sulle quali insistono vincoli conformativi, basato sul valore agricolo piuttosto che su quello edificatorio e poi adeguato in concreto tenuto conto delle attività effettivamente consentite.
Con una sola avvertenza: è necessario che le forme e le modalità della “conformazione” siano previamente poste in modo da indicare con chiarezza gli ambiti di competenza e la caratura dei poteri esercitati nei procedimenti di pianificazione in ossequio anzitutto al principio di imparzialità (ragione per la quale non è escluso che gli interessi dei privati possano, in determinate e specifiche ipotesi, prevalere su esigenze di carattere generale)[24].
Esiste, invero, la possibilità che le scelte di pianificazione (e di conseguente conformazione) creino condizioni di disparità: ciò può avvenire fisiologicamente (come anche patologicamente[25]) richiedendo (potremmo forse dire: “esigendo”) particolare cura nell’esercizio di poteri in grado di incidere in modo assai gravoso (non solo sui diritti dominicali dei singoli, ma anche) su fattori di ordine sociale, laddove entrano in campo valori costituzionali come gli artt. 3 e 53[26].
Per questa ragione, senza nulla togliere alla bontà dell’impostazione proposta dalle Sezioni Unite (che, anzi, come già anticipato, si condivide pienamente), il criterio del “valore reale” deve accompagnarsi ad un uso equo e proporzionato del potere di conformazione “a monte” e a criteri di valutazione del bene che non (ri)propongano strumentalmente “a valle” – come pure può accadere – indennità “comodamente” parametrate sul valore agricolo, imponendo un sacrificio ulteriore, non richiesto né giustificato dal quadro costituzionale e dalla normativa di rango comunitario che investe la materia.
5. Quantificazione dell’indennizzo e art. 42bis d.p.r. n. 327/2001: osservazioni conclusive
L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, infine, merita, per scrupolo di completezza dell’analisi (e dunque fatti salvi i debiti e necessari approfondimenti, considerato che trattasi di materia ancora “magmatica” sulla quale è in corso di assestamento la stessa giurisprudenza amministrativa), di essere valutato – in quanto argomento potenzialmente connesso, ma non affrontato nella decisione in commento – alla stregua della evoluzione della normativa e della giurisprudenza per quanto concerne i parametri da utilizzare in relazione all’applicazione dell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327 del 2001.
Come ampiamente noto, relativamente a tale norma, frutto della dichiarazione di incostituzionalità per eccesso di delega del precedente art. 43[27], è sorto un dibattito giurisprudenziale di significativa portata che ha richiesto l’intervento dell’Adunanza Plenaria sia in ordine alla latitudine operativa della norma, sia in ordine agli obblighi ricadenti sulle amministrazioni protagoniste di espropriazioni nate o divenute sine titulo. Infatti, anche l’art. 42bis delinea un indennizzo parametrato sul valore venale del bene, con espresso richiamo, ove si tratti di aree edificabili, all’art. 37 commi 3, 4, 5, 6 e 7 (con rinvio all’art. 32 c. 1).
In ragione delle più recenti acquisizioni della giurisprudenza interna e comunitaria, per l’ipotesi di occupazione ab origine o successivamente divenuta sine titulo all’amministrazione rimangono aperte tre possibilità: 1) acquisire l’area ricorrendo alla stipula di fattispecie negoziali civilistiche; 2) restituire l’area, previa remissione in pristino stato e corresponsione del risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla restituzione; 3) adottare un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42bis del d.p.r. n. 327/2001, corrispondendo al privato un indennizzo parametrato sul valore venale del bene, il risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla emissione del provvedimento e le ulteriori poste risarcitorie contemplate dalla medesima norma[28].
La fattispecie di cui all'art. 42 bis è, dunque, articolata quale potere-dovere, nel senso che l'Amministrazione è chiamata ad esercitare "il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente o restituirlo al soggetto privato" alla luce dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione[29].
Quanto al rapporto tra la tutela risarcitoria e quella restitutoria, merita di essere segnalato quanto ha avuto modo di osservare di recente l’Adunanza Plenaria n. 2 del 2020: “Qualora sia invocata solo la tutela (restitutoria o risarcitoria) prevista dal codice civile e non si richiami l'art. 42-bis, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo sopra delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dall'art. 42 bis all'amministrazione".
La domanda, pertanto, va inserita nel quadro normativo legale delineato dall'art. 42 bis, considerato, altresì, che "l'ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l'orientamento giurisprudenziale di riferimento assunto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello"[30].
Le Sezioni Unite si sono pronunciate relativamente ad una ipotesi di c.d. "occupazione appropriativa" con riferimento al periodo di occupazione legittima; la soluzione da esse prospettata circa la quantificazione dell'indennità, in tesi, potrebbe (dovrebbe) risentire del criterio di valutazione "reale" sopra rammentato, così come appunto previsto dall'art. 42bis del d.p.r. n. 327 del 2001.
D’altro canto, come si è visto, la domanda risarcitoria va interpretata alla luce della predetta norma, posta al fine di costruire un sistema in grado di “razionalizzare” la materia facendo coincidere le situazioni di fatto con quelle di diritto, per le ipotesi di attività espropriativa sine titulo (relativamente alle quali, dato il loro alto numero, la giurisprudenza comunitaria ha ripetutamente sollevato fondate obiezioni e duri rilievi): non è, pertanto, da escludere – anzi, è prevedibile – l’applicazione del medesimo criterio in presenza di attività illegittima e di una conseguente domanda risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo, con l’effetto di determinare un “appiattimento” di queste ipotesi rispetto a quelle derivanti da attività legittima.
Premesso che l’art. 42bis non si esaurisce nel solo profilo indennitario, forse, più che di “appiattimento” dovrebbe parlarsi di “omogeneizzazione” di un sistema che trova nella corretta individuazione della base sulla quale calcolare il quantum dovuto per l’incidenza dei poteri ablatori in senso lato sul diritto dominicale, la sua radice comune. Si è ritenuto, pertanto, di segnalare – senza entrare funditus in un tema che esula dal presente commento e dalle sue precipue finalità – questa apparente reductio ad unum, attraverso la potenziale riconduzione delle ipotesi di indennizzo da attività legittima e illegittima (sine titulo) ad un genus unitario, per le implicazioni che potrebbero discenderne in subiecta materia.
In conclusione, tenute presenti le considerazioni sistematiche e salvo quanto potrà emergere in sede applicativa (unico vero pericolo che si intravede nella specie), la decisione in commento mostra numerosi spunti di riflessione che riportano a tematiche di fondamentale e primaria rilevanza.
Indubbiamente, il rapporto tra diritto di proprietà e potere conformativo in vista della valutazione reale (più che venale, diremmo) del bene, superate alcune obiezioni di principio circa la sua compatibilità costituzionale, trova nel criterio adottato un punto di equilibrio stabile perché sostenuto da numerose fonti normative (interne e comunitarie), nonché da arresti fondamentali della Corte costituzionale, della Corte di giustizia e delle stesse Sezioni Unite.
Non si tratta però, come si è cercato di evidenziare, di un solo quadro, ma, in un certo qual modo, di pictures at an exhibition, di un caleidoscopio di suoni e immagini che trovano una sintesi magistrale in principi ispirati alla solidarietà (ed alla funzione) sociale, recuperando il senso “sinfonico[31]” (e complementare) delle singole e talora assai diversificate questioni che pone l’esercizio dei poteri pubblici, in particolare quelli ablatori, nelle relazioni giuridiche che investono i singoli come le collettività.
[1] A.M. Sandulli, I limiti della proprietà privata nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1971; M. Luciani, Corte costituzionale e proprietà privata, in Giur. Cost., 1977; A. Baldassarre, Proprietà (dir. costituzionle), in E.d.D., XXV, 1990; D. Sorace, Espropriazione della proprietà e misure dell’indennizzo Milano 1974; V. Cerulli Irelli, Statuto costituzionale della proprietà privata e poteri pubblici di pianificazione, in AA.VV., Politiche urbanistiche e gestione del territorio. Tra esigenze del mercato e coesione sociale, a cura di P. Urbani, Torino 2015, 11 ss.: “Il contenuto della proprietà privata (come diritto soggettivo) dei beni immobili è stabilito, in maniera differenziata per categorie di cose, e, in determinati casi per categorie di soggetti (i proprietari), dalle legge, e nei limiti e secondo i criteri stabiliti dalle leggi, dalle pubbliche autorità attraverso l’esercizio dei poteri di pianificazione, secondo la rispettiva competenza” (p. 39).
[2] Ai quali si aggiungerebbero, a rigore, i vincoli a contenuto “sostanzialmente espropriativo”, quei vincoli, come osserva v. Cerulli Irelli, cit., 27, “che dovrebbero essere equiparati a quelli espropriativi ai fini dell’indennizzo ai sensi dell’art. 42 comma 3, Cost., ... prodotti dalle destinazioni di piano, che pur non comportando l’appropriazione pubblica della cosa, ne limitano le facoltà di utilizzazione da parte del proprietario in modo tale dar rendere il suo diritto (il suo bene) privo di ogni utilità (sia in termini di valore d’uso che di valore di scambio)”.
[3] V. ad. es., Tar Puglia, Le, 2 ottobre 2018 n. 1401: “E’ legittima, in quanto correttamente motivata, una deliberazione con la quale il Consiglio comunale ha opposto un formale diniego in merito ad una istanza avanzata dal proprietario di alcuni terreni, interessati da vincoli di destinazione urbanistica recanti Zona C/3 comprendente aree destinate allo localizzazione di insediamenti di edilizia economica e popolare e Zona E2 comprendente aree per servizi e attrezzature per dotazione minima degli standard di cui al d.m. n. 1444/68, tendente ad ottenere la declaratoria di avvenuta decadenza dei suddetti vincoli; in tal caso, infatti, si tratta di vincoli che, in ragione della relativa natura conformativa, non possono che avere durata tendenzialmente indeterminata”.
[4] “Le indicazioni del piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che comportino l'inedificabilità, perdono ogni efficacia qualora entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati. L'efficacia dei vincoli predetti non può essere protratta oltre il termine di attuazione dei piani particolareggiati e di lottizzazione”. L’art. 2 è stato abrogato dall’art. 58 d.p.r. n. 327/2001 dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 20 maggio 1999, la quale “dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma, della legge 19 novembre 1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo”. Per la disciplina vigente, v. oggi artt. 9 e ss. del medesimo Testo Unico.
[5] L’indennizzo, come noto, viene riconosciuto in caso di rinnovo di vincoli espropriativi scaduti.
[6] Su questo aspetto si tornerà a breve.
[7] Viene, infatti, dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli)”. Vale la pena di rammentare che la Corte costituzionale, ricostruendo il complesso “sistema di rapporti” tra l’art. 117 c. 1 Cost. e le norme Cedu, come interpretate dalla Corte europea di Strasburgo[7], articola la decisione in funzione della risoluzione di alcuni quesiti di base, ovvero: “a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007 citate)”. A tal fine, viene riportato l’art. 1 del protocollo n. 1 CEDU, secondo il quale: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende”.
[8] “a) le tre norme di cui si compone l’art. 1 del protocollo n. 1 sono tra loro collegate, sicché la seconda e la terza, relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima norma (punto 75); b) l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve contemperare un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (punto 93); c) nello stabilire se sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo Stato gode di un ampio margine di discrezionalità, sia nello scegliere i mezzi di attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti dall’attuazione siano giustificate, nell’interesse generale, per il conseguimento delle finalità della legge che sta alla base dell’espropriazione (punto 94); d) la Corte, comunque, non può rinunciare al suo potere di riesame e deve determinare se sia stato mantenuto il necessario equilibrio in modo conforme al diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni (punto 94); e) come la Corte ha già dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma in ragionevole rapporto con il loro valore, di norma costituisce un’ingerenza sproporzionata e la totale mancanza d’indennizzo può essere considerata giustificabile, ai sensi dell’art. 1 del protocollo n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorché non sempre sia garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); f) in caso di “espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il bene (punto 96); g) obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o da misure tendenti a conseguire una maggiore giustizia sociale, potrebbero giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato (punto 97)”. I medesimi principi sono stati, altresì, ribaditi in diverse pronunce successive, ossia: sentenza del 19 gennaio 2010 (causa Zuccalà contro Italia); sentenza dell’8 dicembre 2009 (causa Vacca contro Italia); sentenza Grande Camera 1aprile 2008 (causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia).
[9] Ci si riferisce, tra le altre, alle sentenze: n. 173 del 1991; n. 1022 del 1988; n. 355 del 1985; n. 223 del 1983; n. 5 del 1980.
[10] L’art. 39 della legge n. 2359 del 1865 così recitava: “nei casi di occupazione totale, la indennità dovuta all’espropriato consisterà nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita”. Tale legge è stata abrogata dall'art. 58 del d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, con la decorrenza indicata nell'art. 59 dello stesso decreto. L’abrogazione è stata confermata dall’art. 24 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112.
[11] Cfr. art. 20 c. 3 d.p.r. n. 327 del 2001: “L’autorità espropriante, prima di emanare il decreto di esproprio accerta il valore dell’area e determina in via provvisoria la misura dell’indennità di espropriazione”.
[12] Sembra appena il caso di segnalare che l’art. 834 del Codice civile, a differenza dell’art. 42 della Costituzione, parlava già di “giusta indennità”; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, 2015, 833.
[13] Così, infatti, la sentenza della Corte cost. n. 348 del 2007: “Sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato”.
[14] Così, SS.UU., n. 7454/2020, la quale cita copiosa giurisprudenza tra cui: SS.UU., 3 luglio 2013 n. 17868; Id., 7 maggio 2019 n. 11930; Cass. Civ., 19 luglio 2018 n. 19295; Cass. Civ., 8 marzo 2018 n. 5557; Cass. Civ., 17 ottobre 2011 n. 21386; G. Pagliari, op. loc. cit.
[15] Cfr., art. 9 d.p.r. n. 327 del 2001.
[16] Cass. Civ., 14 settembre 2016 n. 18057.
[17] Sul concetto di proprietà, per tutti, S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà, in La proprietà nel nuovo diritto, Milano 1954.
[18] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, 1994, 201
[19] F. Gazzoni, op. loc. cit.
[20] Basti richiamare le questioni poste dalla legge n. 10 del 1977 (c.d. “legge Bucalossi”).
[21] V. Cerulli Irelli, op. cit., 42 ss.: “Lo ius aedificandi viene a configurarsi come una facoltà inerente solo ad alcune categorie di proprietà … lo scorporo del ius aedificandi dalla proprietà della cosa immobile sulla quale verrebbe esercitato, si configura come un dato positivo, dal momento che il privato proprietario di un’area (che egli ritenga vocata all’edificazione) non può pretendere che detto jus gli sia concesso se non previsto a monte in sede di piano e sulla base di un procedimento di cui egli può solo pretendere che si svolga correttamente … Né può essere fatta valere una pretesa “vocazione edificatoria” dell’area o della zona … come fondamento della pretesa, ovvero come elemento da tenere conto al fine della qualificazione come “vincolo”, della destinazione non edificatoria impressa dal piano”.
[22] V. Cerulli Irelli, La soggezione della proprietà immobiliare al potere di pianificazione, in AA.VV., Le nuove frontiere del diritto urbanistico, a cura di P. Urbani, Torino 2013, 69.
[23] Secondo l’art. 32 c. 1, “salvi gli specifici criteri previsti dalla legge, l’indennità di espropriazione è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di cessione o alla data dell’emanazione del decreto di esproprio, valutando l’incidenza dei vincoli di qualsiasi natura non aventi natura espropriativa e senza considerare gli effetti del vincolo preordinato all’esproprio e quelli connessi alla realizzazione dell’eventuale opera prevista, anche nel caso di espropriazione di un diritto diverso da quello di proprietà o di imposizione di una servitù”. Il successivo art. 37 precisa: “L'indennità di espropriazione di un'area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene … Ai soli fini dell'applicabilità delle disposizioni della presente sezione, si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell'emanazione del decreto di esproprio o dell'accordo di cessione. In ogni caso si esclude il rilievo di costruzioni realizzate abusivamente. Salva la disposizione dell'articolo 32, comma 1, non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l'area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa statale o regionale o alle previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del territorio”.
[24] V. Cerulli Irelli, op. ult. cit., 70.
[25] V. Cerulli Irelli, op ult. cit., 71.
[26] v. Cerulli Irelli, op. ult. loc. cit.
[27] Corte Costit., 8 ottobre 2010 n. 293.
[28] Tar Lazio, Rm, sez. II, 12 giugno 2017 n. 6894. La medesima giurisprudenza, al fine di consentire al titolare del diritto reale leso di non sottostare all’inerzia dell’amministrazione espropriante ed ottenere il bene della vita cui aspira nell’ambito della libera disposizione dello stesso illecitamente coartata da una sottrazione dello stesso sine titulo da parte della p.a., aveva costruito la figura della c.d. “rinuncia abdicativa”. Attraverso questa figura, valorizzando il contenuto dispositivo implicito nella domanda risarcitoria, veniva desunta l’implicita rinuncia, sul piano sostanziale, al diritto di proprietà da parte del soggetto titolare del bene conteso, una volta verificatasi la sua irreversibile trasformazione quale diretta conseguenza della illegittima procedura espropriativa e dell’illecito comportamento della p.a. agente. Questione connessa e di non poco momento concerne la possibilità di immaginare, quale conseguenza della rinuncia, un conseguente effetto traslativo della proprietà. Ciò ha aperto ulteriori profili sui quali la giurisprudenza si è specificamente soffermata. In linea di principio, la soluzione che propendeva per l’effetto “abdicativo” ma non immediatamente “traslativo” non ha comportato, invero, alcun arretramento decisivo dalla costruzione della rinuncia abdicativa, trattandosi semplicemente di delineare compiutamente gli effetti della rinuncia medesima riguardo all’acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione. Si osservava come, tenuto conto degli orientamenti provenienti dalla Corte costituzionale (Corte cost. 30 aprile 2015 n. 71), dalle Sezioni Unite (19 gennaio 2015 n. 735; Id., 29 ottobre 2015 n. 22096; Id., 25 luglio 2016 n. 15283), dall’Adunanza Plenaria (9 febbraio 2016 n. 2) e dalla IV sezione del Consiglio di Stato (7 novembre 2016 n. 4636) tenuto conto del quadro elaborato dalla Corte di Strasburgo, non potesse derivare da un comportamento illecito della p.a. alcuna acquisizione del fondo, configurandosi, nella specie, un illecito permanente ex art. 2043 c.c., che veniva a cessare in cinque casi: 1) restituzione del fondo; 2) sopravvenienza di un accordo transattivo; 3) rinunzia abdicativa (ancorchè non traslativa) del proprietario “implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo”; 4) compiuta usucapione; 5) provvedimento “sanante” ex art. 42bis d.p.r. n. 327/2001. In questa prospettiva, restava ferma l’opzione che consentiva al titolare del diritto reale di chiedere il risarcimento del danno, ancorchè al suo atto unilaterale di “rinuncia” venisse accreditato un effetto soltanto “abdicativo” e non propriamente “traslativo”. Riguardo al quantum del risarcimento, esso non poteva che essere commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfezionava la rinuncia abdicativa del proprietario, con rivalutazione ed interessi legali fino al soddisfo. Questa soluzione, tuttavia, non era pacifica in giurisprudenza, prospettando altri Tar, di converso, un differente approccio. Punto nodale del dibattito era la prospettabilità, nell’ambito del giudizio amministrativo della c.d. “rinuncia abdicativa” quale alternativa alle procedure consensuali e comunque collegate all’intervento dell’ente resistente ex art. 42bis. La parte di giurisprudenza che contestava l’applicazione alla specie della rinuncia abdicativa, sottolineava, infatti, la portata meramente unilaterale dell’atto di rinuncia, dalla quale, pertanto, a suo avviso, non può derivare alcun trasferimento della proprietà. In particolare, veniva osservato che “la funzione giudiziaria diverrebbe invero strumento ancillare rispetto all’esercizio dei facoltà discrezionali del privato nonché rispetto ad una forma di circolazione del bene, invero inaudita, che porrebbe per altro serie criticità nei rapporti coi terzi … dalla illegittima ablazione di un immobile per effetto di un procedimento espropriativo non conclusosi con un regolare e tempestivo decreto di esproprio sorge dunque (al di là dell’unica ipotesi alternativa costituita dalla possibilità di un contratto traslativo ovvero di un accordo transattivi) unicamente l’obbligo per l’Amministrazione di sanare la situazione di illecito venutasi a creare, restituendo il terreno con la corresponsione del dovuto risarcimento per il periodo di illegittima occupazione temporanea ovvero, in via subordinata, adottando il decreto di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.p.r. n. 327/2001” (così Tar Calabria, Rc, 12 maggio 2017 n. 438; tra le altre, Tar Sicilia, Pa, n. 2580/2018, n. 279/2018, n. 280/2019, n. 341/2019 e n. 630/2019). Con ordinanza 30 luglio 2019 n. 5391, la sezione Quarta del Consiglio di Stato ha, tuttavia, rimesso all’Adunanza Plenaria alcune questioni, ossia: a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva; b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42 bis; c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42 bis; d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42 bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione. L’Adunanza Plenaria n. 2 del 20 gennaio 2020 ha risolto tale quesito ritenendo non configurabile la rinuncia abdicativa, in quanto: a) "non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all'Autorità espropriante"; b) viene ricostruita quale atto implicito "senza averne le caratteristiche essenziali"; c) "non è provvista di base legale".
[29] A.P. n. 2 del 20 gennaio 2020.
[30] Infine, ancora la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2020, rileva che il giudice amministrativo, nell'ambito della scelta deferita all'Amministrazione tra restituzione ed acquisizione del bene, può nominare un commissario ad acta in esito al giudizio di cognizione, tenuto conto del comportamento omissivo dell’Amministrazione (che, peraltro, costituisce un illecito permanente, così come conferma A.P. n. 4 del 2020, con effetti determinanti in tema di prescrizione).
[31] Pictures at an exhibition è una suite (probabilmente, la più famosa) di Modest Musorgskij. Si parla, nel testo, di senso “sinfonico” per evocare e in qualche modo rappresentare la coralità dei “suoni” che si registrano nella materia espropriativa, senza che ciò privi di autonoma consistenza il rilievo di ciascun quadro.