Diritti negati: supplenza dei giudici nell’inerzia del Parlamento?
di Chiara Saraceno
Sono molti i cambiamenti che dal dopoguerra ad oggi hanno modificato la percezione di ciò che è normale e socialmente accettabile, anzi necessario e di ciò che non lo è, investendo la stessa configurazione dei diritti e di conseguenza hanno messo in questione norme giuridiche che vuoi li negano, vuoi li ignorano... Alcuni di questi cambiamenti riguardano i mutati rapporti tra uomini e donne, che hanno reso sempre più inaccettabili norme e comportamenti prima dati per scontati – dalle differenze salariali al prevalere del cognome paterno su quello materno, dalla illiceità dell’aborto all’idea che il sesso nel matrimonio sia un debito che la donna deve onorare e l’uomo può esigere. Altri riguardano la crescente diversificazione di ciò che è considerato normale (e moralmente e socialmente accettabile) nella sfera della sessualità e della formazione della famiglia, a partire dall’orientamento sessuale. Altri ancora riguardano le opportunità offerte dalle tecnologie mediche nel campo della riproduzione e le loro conseguenze sul modo di concepire la filiazione da un lato, chi ha diritto ad avere figli dall’altro. Ed altri riguardano – in quella che mi sembra una riformulazione del diritto alla base di tutti i diritti civili, l’habeas corpus - la crescente richiesta di avere un controllo sul proprio corpo, che si tratti del diritto alla contraccezione o viceversa all’aborto, di decidere a quali cure sottoporsi e quando rifiutarle, del diritto ad essere aiutati a por fine alla propria vita se questa è diventata intollerabile e non si è in grado di farlo da soli. Stefano Rodotà ha parlato di diritti di terza generazione, riferendosi al fatto che riguardano ambiti della vita e comportamenti prima ignorati come possibili ambiti di diritti, anche se in molti casi ciò avviene perché soggetti prima esclusi dalla piena cittadinanza (quando non criminalizzati nel caso degli omosessuali e transessuali) chiedono di uscire dallo status di denizen, di persone a cittadinanza limitata. Denunciano il dato per scontato di uno standard unico, cui risponde una gerarchia di “differenti”, come base delle norme e dell’accesso al riconoscimento. Forse per questo i temi sollevati da questa rottura sono definiti “sensibili”: perché toccano i modelli di normalità dati per scontati in sfere della vita la cui regolazione è stata a lungo sottratta alla discussione pubblica. Anche se con il tempo alcuni di questi temi, ad esempio l’uguaglianza tra uomini e donne, sono usciti dall’ambito di quelli “sensibili” ed entrati a far parte di quelli condivisi almeno a livello di principi, stante che sul piano pratico è tutt’ora un’altra storia. Per altro, proprio la definizione di un tema come “sensibile” è servita e serve come legittimazione per non affrontarlo, o solo parzialmente, per non urtare la “sensibilità” di chi è messo a disagio, quando non è più o meno violentemente contrario, dall’idea che non esista uno standard compattamente omogeneo, con buona pace delle conseguenze discriminatorie e limitanti la libertà e dignità derivanti dall’abuso di questa nozione.
Ma non sono soltanto i temi cosiddetti sensibili ad interrogare l’attuale configurazione dei diritti (o la loro mancanza) e delle norme. La presenza di cittadini stranieri, oltretutto con uno statuto diverso a seconda che facciano o meno parte della UE, e la stessa appartenenza ad una comunità sovranazionale come la UE, con le sue norme e i suoi principi, mentre mette in questione l’idea di uno stato chiaramente circoscritto da confini univocamente individuabili e con un’unica fonte normativa, non consente più la sovrapposizione quasi automatica tra cittadinanza nazionale e cittadinanza sociale, richiedendo di normare la seconda anche a prescindere dalla prima. E se consente ai cittadini di un paese in cui alcuni diritti sono negati (ad esempio il matrimonio tra persone dello stesso sesso, o la filiazione omosessuale) di muoversi in un altro dove invece sono riconosciuti, richiede anche di regolare come integrare queste difformità, così come richiede di decidere quanto delle regolazioni – legali, o anche solo culturali – di altri paesi possano essere accettate senza, vuoi mettere in discussione i propri principi fondamentali, vuoi ledere gravemente diritti di libertà di qualcuno.
Se spetta al Parlamento legiferare, eventualmente innovando nelle norme, spetta ai giudici prima, alla Corte Costituzionale poi verificare se le norme esistenti sono coerenti con il dettato costituzionale, anche quando i casi presentati non facevano sicuramente parte dell’orizzonte cognitivo dei costituenti e della cultura in cui essi erano radicati.
Stanti questi sommovimenti nel campo delle aspettative e le tensioni che ne derivano, non deve stupire che i tribunali siano sempre più frequentemente investiti da questioni che riguardano la legittimità delle norme esistenti, che i giudici ordinari le sottopongano alla Corte Costituzionale e che questa demandi al Parlamento di modificare questa o quella norma. Aggiungo che ciò avviene tanto più quanto meno il Parlamento prende autonomamente l’iniziativa di modificare norme non più adeguate o accettabili, o individuando nuovi settori che richiedono regolazione, rispondendo a cambiamenti culturali, a movimenti di opinione o di pressione, come è avvenuto in passato, per quanto tardivamente, per il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia. La periodica lamentazione sulla prevaricazione normativa da parte del sistema giudiziario dovrebbe piuttosto diventare riflessione autocritica sulla difficoltà che il Parlamento incontra nell’affrontare le conseguenze dei cambiamenti sociali e culturali.
Nella conferenza stampa seguita alla sua elezione a presidente della Corte Costituzionale, Amato ha indicato come uno dei problemi che si presentano oggi nel rapporto tra Corte Costituzionale come soggetto che verifica la costituzionalità delle norme e il Parlamento come soggetto legislatore la crescente mancanza di cooperazione tra i due. Alle indicazioni della Corte in merito alla incostituzionalità di alcune norme e alla necessità di modificarle il Parlamento risponde con una forte difficoltà, quando non riluttanza, a darvi seguito, formulando norme costituzionalmente più adeguate. Ciò avviene particolarmente, direi quasi sempre, quando sono in gioco diritti civili – ad esempio il fine vita e il suicidio assistito – o i modelli di famiglia – dal cognome materno al diritto dei figli di genitori dello stesso sesso ad avere un rapporto istituzionalmente riconosciuto con entrambi coloro che li hanno voluti. Questa resistenza del Parlamento a dar seguito alle indicazioni della Corte lascia nell’incertezza le persone ed è occasione di sistematico arbitrio interpretativo da parte delle istituzioni. Il caso più drammatico al momento è quello del suicidio assistito, dove all’indicazione della Corte dei criteri entro i quali può essere ammesso, il Parlamento non ha ancora risposto con una legge che regoli puntualmente la cosa, definendo chiaramente le responsabilità e i doveri delle istituzioni, lasciando chi, secondo la Corte, avrebbe diritto ad accedere al suicidio assistito alla mercè di istituzioni sanitarie che si negano. Ma anche questioni meno “eticamente sensibili”, e sicuramente meno drammatiche per la vita delle persone coinvolte, come il diritto a trasmettere il cognome materno, rimangono da anni irrisolte dal Parlamento.
Vi sono, tuttavia, anche questioni in cui il Parlamento, non volendo o potendo decidere stanti i propri conflitti interni, dopo aver legiferato in modo palesemente anticostituzionale e/o contro la normativa europea, demanda implicitamente alla Corte (e prima ancora a ricorsi in sede giudiziaria) di pronunciarsi, in modo da far apparire una eventuale modifica alla norma come un atto dovuto sotto costrizione. È stato, in parte, il caso della legge 40 sulla fecondazione assistita, progressivamente smantellata a suon di sentenze. È il caso, oggi, di norme discriminatorie nei confronti degli stranieri. E’ recente la doppia sentenza – prima della Corte di Strasburgo poi della Corte Costituzionale, che dichiara contraria sia al diritto europeo sia alla Costituzione italiana (articoli 3 e 31) la norma che richiede il requisito di lunga residenza per accedere al bonus bebé e all’assegno di maternità (nel caso di madri non altrimenti indennizzate e appartenenti a famiglie a basso reddito). Che questa norma fosse illegittima non solo sul piano etico, ma anche su quello del diritto europeo e dei principi costituzionali era chiaro fin da principio. Ma il legislatore ha preferito farla passare comunque, per guadagnare punti nell’elettorato contrario ai migranti, salvo poi doversi mostrare costretto a modificarla da un’autorità esterna. Lo stesso sta avvenendo nel caso del Reddito di cittadinanza, dove l’asticella per gli stranieri è stata posta ancora più in alto: dieci anni di residenza, il doppio di quanto richiesto per il permesso di lungo soggiorno. A fronte delle richieste di modifica avanzate da più parti e da ultimo anche da parte del Comitato di valutazione del RdC, il governo ha dichiarato l’impossibilità di farla accettare dalla maggioranza che lo sostiene e quindi di sottoporla all’approvazione del parlamento, rimandando la cosa ad un possibile (auspicato?) ricorso alla Corte Europea e al pronunciamento di questa, eventualmente con seguito nella Corte Costituzionale. Ha quindi buttato ancora una volta la palla nel campo della giurisdizione e prima ancora della capacità di iniziativa di individui e gruppi, e dei loro avvocati, di dare forma giuridicamente accettabile alla contestazione di una norma legalmente sbagliata in partenza. È un modo non solo di non assumersi le proprie responsabilità di legislatore, ma anche di prendere tempo e risparmiare soldi, lasciando il più a lungo possibile senza sostegno le mamme, le famiglie, i bambini stranieri poveri, che pure si sa già in partenza che ne avrebbero diritto in base sia al diritto europeo sia ai principi costituzionali.