Recensione a G.Terranova, Il ragionamento giuridico, Giuffrè Lefebvre, 2021, pp. 191
di Michele Perrino
Una tavola rotonda svoltasi il 10 dicembre 2021 presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo ha riunito un gruppo di studiosi (Mauro Barberis dell’Università di Trieste, Salvatore Mazzamuto Emerito dell’Università di RomaTre, Luca Nivarra dell’Università di Palermo, Aldo Schiavello dell’Università di Palermo e Francesco Viola emerito Università di Palermo) intorno al libro recente di Giuseppe Terranova, Il ragionamento giuridico, Giuffrè Lefebvre, 2021, presente l’Autore.
Gli interventi dei relatori saranno a breve pubblicati, il libro è da mesi in circolazione, perciò queste righe vogliono solo restituire traccia di alcune parole introduttive, con cui chi scrive ha aperto, quale moderatore dell’incontro, il dibattito sull’opera.
Con la presentazione del suo ultimo lavoro Giuseppe Terranova, professore emerito di Diritto commerciale nell’Università di Roma “La Sapienza”, fa ritorno nell’Università di Palermo, dove ha lungamente e largamente insegnato, soprattutto diritto commerciale ma anche diritto privato, fallimentare (o, come si chiama oggi, della crisi di impresa), industriale e bancario. E vi è tornato ora con il suo magistero al livello più alto, quello sul senso stesso del mestiere di giurista e del suo modo di ragionare.
È un percorso che l’Autore ha intrapreso già con un primo ampio studio del 2015, dal titolo “Elogio dell’approssimazione. Il diritto come esperienza comunicativa”; proseguendolo con il libro di non minore respiro del 2020, su “Il diritto e il suo linguaggio”; e che approda ora, con “Il ragionamento giuridico” del 2021, ad una messa a fuoco particolarmente nitida ed efficace circa il modo in cui si è nel tempo strutturato il pensiero di Terranova sul senso, i modi e, in special modo, l’esperienza dell’interpretazione.
Colpisce il riferimento a p. 3 alla famosa frase paolina (Paolo, II ai Corinzi): “la lettera uccide, lo spirito vivifica”.
Qui la lettera è il testo, l’enunciato da interpretare e applicare. Lo spirito è il processo interpretativo. L’uno, il testo, l’enunciato, è sempre in qualche modo “poroso”, perché così è di tutte le espressioni linguistiche, che assumono un senso definito solo con riferimento a un certo contesto. L’altro, il processo interpretativo, è appunto un processo, non un risultato, è ἐνέργεια, non έργον; è una complessa esperienza comunicativa, con l’obbiettivo di adeguare la norma ai fatti, di “garantire che il contenuto precettivo di una norma, o di una manifestazione di volontà negoziale, venga adattato al contesto di riferimento in vista degli obbiettivi da perseguire” (p. 72, corsivo ns.). Senza però che l’interpretazione sia qualcosa che si aggiunge al precetto o alcunché di esterno all’enunciato; è piuttosto un’attività che con questo si integra e che lo modella, formando insieme parte integrante del processo comunicativo.
E si tratta, nella visione dell’A., di un processo collettivo e corale, il quale si nutre del contributo di fasce diverse di giuristi, e non solo dei giuristi; e che dal testo procede a ricostruire e conoscere il co-testo (il testo che sta intorno) e soprattutto il con-testo, qui visto più propriamente come lo scenario: che non è il mondo, o un pezzo di mondo, nella sua insondabile realtà, ma una visione inevitabilmente parziale e approssimativa della realtà, quale è ci dato ricostruire sulla base degli elementi disponibili.
Una ricostruzione da compiersi attraverso una selezione il più possibile ampia dei fatti, selezione che, a sua volta, non può che avvalersi però, di fronte alla ingovernabile complessità, anche di strumenti di semplificazione e standardizzazione dei materiali, come la teoria dei tipi o la tipologia della realtà, o come avviene con la disciplina del processo – e la portata inevitabilmente selettiva del rito rispetto ai fatti tenuti in conto nel decidere – innanzi alle corti.
Ed è appunto collocando le norme in questo scenario così ricomposto, che è possibile per T. passare dalla legge al diritto: in un processo, di nuovo, che avanza per gradi, dalla ricerca delle interpretazioni canoniche, dei grumi stabilizzati dell’interpretazione fino alla lettura attualizzata dei fattori e interessi sullo sfondo. In uno sforzo di adeguare la norma ai fatti, che è anche e anzitutto impegno di adeguamento dell’intelletto dell’interprete alla “cosa” (secondo la formula di ascendenza aristotelico-scolastica della adaequatio rei et intellectus richiamata dall’A.), grazie ad un adeguato sforzo di acquisizione di informazioni sulla realtà.
Si tratta per T. di un processo che si alimenta dei valori in gioco, senza però ipostatizzarli, ma cogliendone la storica relatività e la necessità di rilettura costante; che aspira alla razionalità ma è consapevole di quanto questa resti inattingibile, e coltiva allora la “ragionevolezza” come percorso di costante avvicinamento - ecco la “approssimazione” al centro del libro di T. del 2015 – agli obbiettivi. Un processo in cui si tratta di accostarsi ai fatti, nello scenario di riferimento, grazie alla disponibilità ad immergersi nell’esperienza osservata. Un processo, ancora, che dalla conoscenza contestualizzata – nello scenario dato, ma anche pazientemente indagato e ricomposto – deve però ad un certo punto passare alla “decisione”. Con uno scarto ineliminabile (richiamando Searle) tra le ragioni dell’agire e la scelta effettivamente compiuta: quello scarto dove si insinua l’intuizione, il bias cognitivo, fattori irrazionali; ma dove al tempo stesso abita e si esprime la libertà.
Rispetto ad un affresco così ricco ed “umano” dell’esperienza interpretativa mi limito ad esprimere due considerazioni, o forse preoccupazioni tratte dalla mia esperienza giuridica quotidiana, nella ricerca universitaria così come nel foro.
La prima è che in questo processo che dovrebbe essere collettivo, corale, e di mutuo arricchimento, oggi mi sembra esistano delle zone di incomunicabilità, che mi sembra di vedere soprattutto nella giurisprudenza, tendenzialmente sempre più autoreferenziale. Nel senso che la selezione dei significati “canonici” – punto di partenza per procedere oltre, come insegna T. – ha luogo qui per lo più esclusivamente a partire dal proprio universo dei precedenti, con tendenziale riduzione di spazi per il riconoscimento agli apporti della dottrina. Per restare agli esempi che T. largamente fa in tema di diritto impresa nel libro di cui parliamo, specie nello scenario delle procedure concorsuali si consolidano letture spesso molto distanti da ciò che si dice nelle università: difficile che si riconosca nei giudizi la natura esclusivamente agricola di un’attività; o che non si qualifichino “economiche” ex art. 2082 anche attività ben distanti dal modo di intendere questo requisito per una dottrina da lungi consolidata, a meno di una assoluta gratuità; per non dire della nozione codicistica di azienda, dove da tempo le divergenze, e le reciproche opacità, sono assai marcate. È ovviamente anche vero che l’impegno allo sviluppo cooperativo dell’esperienza giuridica deve riguardare tutti, a partire dalla dottrina e dagli operatori professionali, in una sinergia fra giurisprudenza teorica e pratica e universi professionali che valga a non perdere di vista quegli obbiettivi di ragionevolezza delle soluzioni, che T. addita quale frutto eletto della ricerca da parte del giurista di un bilanciamento qui ed ora – nel contesto cioè di riferimento dato – sostenibile fra i valori in gioco.
L’altra preoccupazione attiene agli strumenti di selezione delle informazioni, dove sempre gioca un ruolo la scelta di campo dell’interprete, ma dove sempre più oggi, con la scomparsa della stessa possibilità di repertori onnicomprensivi e la diffusione di banche date su piattaforme on line che obbediscono a logiche editoriali, la ricerca è spesso, più che il frutto di scelte di chi esplora, piuttosto il risultato di un matching (non per forza “casuale”) fra una domanda e una offerta di servizi informativi. Con un abbinamento che ha luogo su una piattaforma virtuale, nella quale sotto l’apparente neutralità di sistemi algoritmici si celano rischi di condizionamento dei risultati, comunque orientati quantomeno sugli interessi di un gruppo editoriale.
E questo della parzialità e non neutralità dei moderni sistemi di ricerca e selezione dell’informazione giuridica, una non neutralità spesso inavvertita o occulta, credo potrà costituire un rischio, o quantomeno una sfida per la ricerca giuridica delle generazioni attuali e future, e per la connessa serietà ed integrità delle basi del “ragionamento giuridico”.