Concessioni affidate alle società in house: una contradictio in adjecto
di Guido Greco
1. Si legge sovente in giurisprudenza che “l’affidamento in house costituisce modalità ordinaria e nient’affatto eccezionale della concessione di servizi”[1]. Del resto anche la Direttiva 2014/23/UE, in tema di aggiudicazione dei contratti di concessione, statuisce che una concessione aggiudicata ad una società in house (ivi indicata non nominativamente, ma per i requisiti che questa deve rivestire) “non rientra nell’ambito di applicazione della presente direttiva”: così confermando che sussiste compatibilità tra l’istituto della concessione e quello dell’in house, anche se la disciplina concernente il relativo affidamento fuoresce dal campo di applicazione della Direttiva.
Non dissimile è anche il tenore dell’art. 5 del nostro Codice dei contratti pubblici, che statuisce che “una concessione o un appalto pubblico, nei settori ordinari o speciali, aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, non rientra nell’ambito di applicazione del presente codice quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni”, che sono poi le condizioni perché si possa riconoscere a detta persona giuridica il carattere dell’in house. Sicché con tale soggetto può essere indifferentemente stipulato un contratto di appalto o di concessione.
Tuttavia tale acquisizione fa insorgere più di una perplessità, almeno per quel che concerne le c.d. concessioni in house. Infatti, per quanto si possa concepire una dissociazione tra forma e sostanza (sul punto si tornerà di qui a poco), un trattamento differenziato di tali aspetti può essere assecondato finché peraltro non vengano intrinsecamente a confliggere.
Scopo delle presenti note è un approfondimento del tema, appena accennato. Non senza prima ricordare che i contratti di concessione dovrebbero concorrere “al miglioramento della concorrenza in seno al mercato interno” e dovrebbero consentire “di beneficiare delle competenze del settore privato e contribuiscono a conseguire efficienza e innovazione” (Direttiva 2014/23/UE, considerando 3). Obbiettivi, questi, incompatibili con l’in house, che di per sé preclude in radice anche l’utilizzazione di investimenti privati: con la conseguenza che viene a mancare una caratteristica tradizionalmente tipica della concessione di costruzione e gestione o della concessione di servizi, soprattutto nel caso in cui si tratta di concessione che si inquadra nel più ampio contesto di un project financing.
2. Come si ricorderà l’istituto dell’in house è di origine giurisprudenziale (della Corte di giustizia) ed è stato concepito per escludere dal regime di affidamento dei contratti pubblici quei contratti intercorrenti tra un’amministrazione aggiudicatrice (o un ente aggiudicatore) ed una propria società, avente le caratteristiche di essere estremamente dipendente dalla prima (o dal primo), quanto a proprietà delle quote o delle azioni, quanto al controllo e alla destinazione dell’attività. Infatti, sin dalla prima sentenza in argomento, si ha affidamento in house “nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale esercita sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano”[2].
Si è infatti argomentato che, in presenza di tali condizioni, non sussiste una vera e propria distinzione (sostanziale) tra soggetto affidante e soggetto affidatario e, dunque, neppure quella composizione degli interessi tra soggetti diversi, che sta alla base del contratto. Mancando, dunque, un vero e proprio contratto (sempre secondo una visione sostanzialistica del fenomeno), mancherebbe anche il presupposto per l’applicazione della disciplina comunitaria e unionale dei contratti pubblici e si può pertanto procedere con l’affidamento diretto, senza gara.
Si tratta, dunque, come si è accennato di un caso particolarmente rilevante di dissociazione tra forma (pluralità di soggetti) e sostanza (immedesimazione di un soggetto nell’altro). E tale dissociazione consente un trattamento diverso del fenomeno, a seconda che lo si consideri sotto il primo profilo o il secondo, come è confermato anche dalla disciplina positiva come si vedrà.
La società in house è espressione della c.d. libertà di autoproduzione e cioè della “libertà degli Stati membri e delle autorità pubbliche di eseguire lavori o fornire servizi direttamente al pubblico o di esternalizzare tale fornitura delegandola a terzi”[3]. Il che non significa che si tratti di libertà assoluta, almeno per le singole autorità pubblica. Tant’è che, ad esempio, in Italia (ma lo stesso vale per altri Stati membri[4] la scelta dell’in house è assoggettata a precise condizioni, sia nella fase di costituzione di una società di tal fatta (art. 5, D. Lgs. 175/2016), sia all’atto dell’affidamento ad essa del singolo servizio (art. 192, c. 2, D. Lgs. n. 50/2016, a sua volta richiamato dall’art. 16, u. c., D. Lgs. 175/2016, nonché art. 34, c. 20, d.l.179/2012).
Si tratta essenzialmente dei casi in cui il ricorso al mercato non è possibile o non è idoneo a far fronte alle esigenze del singolo servizio -c.d. fallimento del mercato-, mentre una maggiore convenienza economica, sostenibilità finanziaria e vantaggi per i cittadini presenta la scelta dell’autoproduzione). Infatti, “l’opzione di fondo dovrebbe essere nel senso che, fermo restando specifiche prescrizioni imposte dal diritto europeo, la decisione di non esternalizzare l’attività deve essere rigorosamente motivata dimostrando che la scelta organizzativa interna si risolve in un maggior vantaggio per i cittadini”[5].
Ciò non significa sminuire l’importanza della società in house, quale modulo organizzativo che può rivelarsi molto efficace (come spesso è accaduto), soprattutto nella gestione dei pubblici servizi. Significa soltanto che la sua istituzione e i relativi affidamenti devono risultare davvero necessari per supplire alle carenza del mercato e non frutto di una scelta essenzialmente politica, diretta a creare, ceteris paribus, un’ennesima struttura a disposizione degli organi di governo dei singoli enti.
La disciplina nazionale, che pone precisi paletti al ricorso all’in house, è stata giudicata costituzionalmente legittima[6] e non in contrasto col diritto dell’Unione[7]. Infatti, sul versante nazionale è stata riconosciuta la coerenza con gli interessi costituzionalmente protetti della trasparenza e della concorrenza (ma, aggiungerei, con il principio di sussidiarietà orizzontale[8], che preclude interventi pubblici -e anche la creazione di moduli organizzativi pubblici- là dove è possibile ricorrere all’iniziativa dei privati). Sul versante dell’Unione è stata riconosciuta la libertà degli Stati membri di scegliere il modo di gestione ritenuto più appropriato[9].
A quest’ultimo proposito la Corte di giustizia ha parlato di “un’operazione interna, denominata anche «contratto in house»”, la cui conclusione è subordinata “all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna”[10]. Ma può un rapporto concessorio essere racchiuso in un’operazione meramente interna dell’ente pubblico?
3. Una volta costituita, la società in house presenta profili fortemente problematici sotto molteplici aspetti, sia dal punto di vista pubblicistico/organizzatorio, sia dal punto di vista privatistico/societario.
Sotto il primo profilo si è parlato, ad esempio, di società-organo e di delegazione interorganica, per rappresentare l’attenuazione della intersoggettività tra soggetti pur formalmente diversi, ma di cui l’uno sarebbe il braccio operativo dell’altro. Ma si tratta di qualificazioni non del tutto appaganti.
La società in house è pur sempre una persona giuridica e dunque un centro di imputazione di rapporti giuridici, con capacità giuridica e con capacità d’agire propria, sia pure con talune limitazioni, previste dalla disciplina di settore. Dunque non si può parlare di “organo” dell’ente pubblico (o degli enti pubblici) di appartenenza, perché l’organo (almeno nella concezione più rigorosa del termine) imputa all’ente gli atti e gli effetti della propria azione, mentre la società in house imputa tutto a se stessa e non può produrre conseguenze giuridiche dirette in capo all’ente o agli enti proprietari.
Espressione massima della alterità tra la società e l’ente proprietario è data dalla possibilità che sorga una controversia tra detti soggetti e che la stessa sia portata alla attenzione del Giudice, come non di rado è successo, almeno in passato. Del resto il consiglio di amministrazione della società in house ha pur sempre il dovere di salvaguardarne il patrimonio anche contro le eventuali inadempienze del suo socio unico e proprietario.
Anche dal punto di vista societario l’istituto è apparso fortemente border line[11]. Come è dimostrato “dalla totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico, titolare della partecipazione societaria”[12]. E anche se tale assoggettamento non appare assoluto -per quanto più sopra riferito- è chiaro che si tratta pur sempre di un fenomeno ben diverso dal potere di indirizzo e coordinamento, spettante alla capogruppo di un gruppo societario, e più in generale una notevole attenuazione della soggettività della società, tale da non poter riconoscere in essa “un centro di interessi davvero distinto dall’ente pubblico che la ha costituita e per il quale essa opera”[13].
Espressione tangibile di tale semisoggettività - e dell’ambiguità di disciplina che essa comporta - è data, tra l’altro, dalla circostanza che la società in house è, da un lato, soggetta, almeno secondo l’opinione prevalente, al fallimento[14]. Ma, d’altro lato, è soggetta, come un soggetto pubblico, alla giurisdizione della Corte dei conti per il danno causato dai suoi amministratori e dipendenti (art. 12, c.1, D.Lgs. 175/2016).
L’assoggettamento al fallimento è espressione della natura privatistica della società, come tale sottoposta al regime (anche) codicistico dell’insolvenza, tipico delle società di capitale. L’assoggettamento degli amministratori alla giurisdizione della Corte dei conti è viceversa espressione del carattere pubblico del capitale sociale, costituito esclusivamente dai versamenti operati dall’ente pubblico-socio totalitario o dagli enti pubblici-soci, titolari (salve talune eccezioni marginali) dell’intero capitale sociale.
Sicché si può dire - conformemente del resto alla genesi dell’istituto - che la società in house è formalmente distinto dall’ente proprietario e, sempre formalmente, ha una propria soggettività, con le conseguenze di regime, che si sono tratteggiate, e con l’applicazione residuale della disciplina del codice civile (art. 1, c. 3, D. Lgs. 175/2016). Dal punto di vista sostanziale è una mera struttura dell’ente pubblico proprietario (organo, in senso lato), rispetto al quale sussistono vari aspetti di immedesimazione.
4. Tutto ciò non è stato mai apprezzato, a quanto consta, dal punto di vista della tipologia dei contratti che possono intercorrere tra amministrazione proprietaria (operante un controllo analogo a quello esercitato nei confronti dei propri uffici) e società in house. Una volta acquisito che in proposito si può parlare di contratto solo sotto il profilo formale e non sostanziale, è parso conseguenziale ritenere che, dal punto di vista, appunto, formale, l’affidamento può riguardare qualunque tipo di contratto: dunque, per quel che qui rileva, sia un contratto che “oggettivamente” sia inquadrabile nello schema dell’appalto o sia quello che presenta le prestazioni tipiche della concessione.
Il che poteva essere accettato finché la nozione di appalto e di concessione fosse rimasta quella originaria. Gli appalti, come “contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi”[15]. Le concessioni di lavori o di servizi, come “un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto di lavori [o di servizi] ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori [o dei servizi] consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera [o i servizi], o in tale diritto accompagnato da un prezzo”[16].
In tale contesto, ferma la peculiarità del rapporto (di quasi immedesimazione) tra i due soggetti “contraenti”, nulla impediva che dal punto di vista dell’oggetto “contrattuale” l’affidamento in house potesse presentare, indifferentemente, i caratteri dell’appalto o della concessione. Infatti, nulla impedisce di concepire di affidare ad un proprio organismo (formalmente distinto, ma sostanzialmente compenetrato) i compiti tipici dell’appalto o della concessione (basta ricordare l’esperienza delle aziende municipalizzate, costituenti organo dell’ente territoriale, prima della relativa trasformazione in aziende speciali, come tali dotate di personalità giuridica).
Ma tale indifferenza non pare che possa essere riconosciuta anche nell’attuale assetto definitorio della concessione.
5. Come è noto, infatti, l’attuale nozione della concessione di lavori o di servizi, da un lato ricalca quella tradizionale sopra richiamata, ma d’altro lato precisa che “l’aggiudicazione di una concessione di lavori o di servizi comporta il trasferimento al concessionario di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta, o entrambi”, con la conseguenza che “non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi” (art. 5, punto 1, c. 2, Direttiva 2014/23/UE). Analoga è la definizione della concessione dei lavori e della concessione di servizi contenuta nel nostro Codice dei contratti pubblici, che all’art. 3, punti uu e vv, aggiunge alle nozioni note la precisazione “con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione delle opere (o dei servizi)”.
Non si tratta di innovazione vera e propria, dato che da tempo la giurisprudenza della Corte aveva individuato l’assunzione del rischio operativo, come una caratteristica della concessione[17]. Ma sembrava trattarsi di una conseguenza naturale della gestione dell’opera o del servizio, mentre il suo inserimento nell’ambito definitorio dell’istituto fa sì che esso assuma una precisa (o più spiccata) valenza selettiva tra la concessione e l’appalto: nel senso che un contratto avente per corrispettivo dell’opera o del servizio unicamente il diritto della gestione dell’opera o del servizio (con o senza la previsione di un ulteriore “prezzo”) dovrebbe essere definito come appalto, in mancanza del trasferimento del rischio operativo[18].
Data dunque l’importanza preminente (ai fini della distinzione tra appalti e concessioni) del trasferimento del rischio operativo, occorre chiedersi se una tale vicenda è concepibile nel caso di (e compatibile con l’) affidamento in house. Ovvero, detta altrimenti, se nell’affidamento in house è possibile (non già soltanto l’affidamento dell’opera o del servizio, col diritto alla relativa gestione, ma anche) la traslazione del rischio operativo tra l’ente pubblico proprietario (da solo o con altri enti pubblici) della società e la società medesima.
A me pare che la risposta debba essere negativa.
Nell’affidamento in house l’ente pubblico non si spoglia affatto del rischio operativo, per la stessa ragione per la quale non vi è esternalizzazione nella gestione dell’opera o del servizio. In altri termini, l’ente proprietario non trasla a terzi detto rischio, dato che lo stesso rimane in capo alla società in house, che ne risponde col proprio capitale sociale e, dunque, con gli investimenti finanziari dell’ente pubblico stesso: infatti, come è stato giudicato “la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità”[19] (da qui, come si è visto, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti delle questioni di responsabilità dei relativi amministratori).
Anche la giurisprudenza della Corte di giustizia riconosce il carattere “pubblico” del patrimonio e delle risorse messe a disposizione di una società di tal fatta. E, così, in un recente caso di impresa pubblica, il cui capitale era detenuto quasi al 100% da autorità pubbliche e i cui membri del consiglio di amministrazione erano nominati da dette autorità, la Corte non ha esitato a parlare di risorse pubbliche e, più specificamente, di “risorse statali”[20]. Con la conseguenza di individuare un caso di aiuto di Stato nell’uso di dette risorse al fine di alleviare gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di (altra) impresa (collegata alla prima): infatti, “anche se le somme corrispondenti alla misura in questione non sono permanentemente in possesso dell’Erario, il fatto che restino costantemente sotto il controllo pubblico, e dunque a disposizione delle autorità nazionali competenti, è sufficiente perché siano qualificate come risorse statali”[21].
Ma se il patrimonio di una società interamente partecipata da enti pubblici non cessa di essere pubblico (nel senso che si è esposto), a maggior ragione ciò si verifica in una società in house, ove sussiste pure quel controllo analogo che annichilisce pressoché del tutto l’autonomia gestionale della società. Con la conseguenza che ogni rischio gravante su quest’ultima società finisce per ricadere nel patrimonio “erariale” degli enti proprietari: a parte, infatti, l’imputazione contabile al bilancio della società (e non a quello dell’ente pubblico), le conseguenze giuridiche ed economiche non potranno che gravare, in definitiva su quest’ultimo.
Vero è che l’ente proprietario non risponde dei debiti della società oltre il valore della quota di capitale da esso detenuto[22] (che peraltro corrisponde all’intero capitale sociale, dato che è praticamente esclusa la partecipazione di soggetti privati). Infatti, trattandosi di società di capitale, sussiste pur sempre l’autonomia patrimoniale della stessa.
Ma vero è che lo schermo societario potrà valere per limitare il rischio operativo, non per trasferirlo a terzi, che nella specie non vi sono. Entro tale limite, il rischio operativo rimane dunque interamente in capo all’ente pubblico proprietario della società in house, con la conseguenza che è impossibile conseguire l’oggetto stesso di un contratto di concessione.
E ciò a prescindere dal rilievo che un fallimento della società in house è un evento più teorico che pratico, posto che l’ente proprietario ben può intervenire con operazioni di salvataggio, attraverso sistematici aumenti del capitale sociale. Il che non è certo precluso (come l’esperienza dimostra), salvo il limite dell’aiuto di Stato[23], che peraltro a sua volta presuppone che l’intervento sia idoneo ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri[24].
Ne deriva che quando la direttiva parla di concessioni escluse dall’ambito di applicazione della direttiva medesima (art. 17), perché intercorrenti tra un’amministrazione aggiudicatrice ed una società in house, dovrebbe forse più correttamente ricollegare tale esclusione all’impossibilità che vi sia (non solo sostanzialmente, ma anche giuridicamente) un tipo di contratto di tal fatta. In tali casi non solo manca un vero contratto (per la relazione intercorrente tra le parti dello stesso), ma manca altresì una vera concessione, perché si tratterebbe di trasferire il rischio operativo a se stessi: il che rappresenta, appunto, una contradictio in adjecto, che logicamente non può essere tollerata.
Il vero è che risulta inappropriato utilizzare schemi concettuali e tipi contrattuali, previsti per i rapporti veramente intersoggettivi, ad un fenomeno quale l’in house providing. In questo caso, più che di un contratto di concessione o appalto, bisognerebbe parlare puramente e semplicemente di un “contratto in house”, come si esprime la Corte di giustizia, ovvero di un mero contratto di servizio[25], diretto a disciplinare i rapporti tra i vari protagonisti dell’operazione: un contratto atipico, dunque, che potrà richiamare di volta in volta la disciplina propria degli appalti o delle concessioni, a seconda della maggiore o minore assimilazione, ma che non può identificarsi in tali tipologie.
In particolare, il caso delle concessioni pare espressivo di tale irriconducibilità ad una società in house. Infatti, a meno di non ricorrere a inaccettabili finzioni, non pare proprio che si possa dire che con l’affidamento in house l’amministrazione si spogli del rischio relativo all’intera operazione.
[1] Così, con. Riferimento ai servizi pubblici di trasporto, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 7 febbraio 2020, n. 1680. Cfr. pure T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, 7 ottobre 2019, n. 753;Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 2017, n. 2626; Cons. Stato, sez. III, 24 ottobre 2017, n. 4902; Cons. Stato, sez. V, 22 gennaio 2015, n. 257.
[2] Corte giust. 18 novembre 1999, in causa C-107/98, affare Teckal; Corte giust. 7 dicembre 2000, in causa C-94/99, affare ARGE.
[3] Così 5° considerando della Direttiva 2014/23/UE. Inoltre, si legge nell’art. 2, par. 1, della medesima direttiva che essa “riconosce e riafferma il diritto degli Stati membri e della autorità pubbliche di decidere le modalità di gestione ritenute più appropriate per l’esecuzione di lavori e la fornitura di servizi. In particolare, la presente direttiva non dovrebbe in alcun modo incidere sulla libertà degli Stati membri e delle autorità pubbliche di eseguire lavori o fornire servizi direttamente al pubblico o di esternalizzare tale fornitura delegandola a terzi”.
[4] La giurisprudenza della Corte di giustizia ha preso in considerazione, ad esempio, il caso della Lituania (cfr. sentenza 3 ottobre 2019, Irgita, in causa C-285/18,)
[5] Così Cons. Stato, Comm. Speciale, parere in data 21 aprile 2016, n. 968/2016, sullo schema di decreto legislativo sulle società a partecipazione pubblica, pag. 77, in relazione all’art. 16 di detto schema di decreto.
Rileva detto parere (pag. 78) che “il ricorso al mercato e non all’in house può, infatti, costituire esso stesso, permettendo l’accesso di nuovi operatori, un utile strumento di liberalizzazione economica”.
[6] Cfr. Corte Cost. 27 maggio 2020, n. 100, con nota di M. Trimarchi, La Corte costituzionale conferma l’eccezionalità dell’affidamento dei servizi pubblici a società in house, in Giustizia insieme, 2020.
[7] Cfr. Corte giust. 6 febbraio 2020, ordinanza in cause riunite C-89/19, 90/19,91/19, con nota di C. Deodato, gli ambiti dell’intervento pubblico nell’organizzazione e nella gestione dei servizi di interesse economico generale, in Giustamm., n. 10/2020.
[8] Principio che negli ultimi tempi è sovente dimenticato, nonostante la sua costituzionalizzazione (art. 118, u.c. Cost.). Viceversa era ben presente nel Regolamento dei servizi pubblici, di cui al D.P.R. 168/2010, che all’art. 2, c. 1, lo poneva come uno dei criteri basilari ai fini della “realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali”.
[9] Si legge nell’ordinanza da ultimo citata, che richiama in proposito la precedente e già citata sentenza 3 ottobre 2019, Irgita, in causa C-285/18, che la direttiva 2014/23/UE “riconosce il principio per cui le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici e di conferirli a operatori economici esterni”.
[10] Cfr. ordinanza ult. cit., punti 41-42.
Ma già in altra occasione la Corte si era espressa in modo analogo (sentenza Irgita, C-285/18, punto 50, ove si legge che “l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una norma nazionale con la quale uno Stato membro subordina la conclusione di un’operazione interna, in particolare, alla condizione che l’aggiudicazione di un appalto pubblico non garantisca la qualità dei servizi forniti, la loro accessibilità o continuità, sempre che la scelta espressa a favore di una particolare modalità di prestazioni di servizi, e effettuata in una fase precedente a quella dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico, rispetti i principi di parità di trattamento, non discriminazione, riconoscimento reciproco, proporzionalità e trasparenza”.
[11] E così M. Antonioli pone il quesito se “L’in house providing identifica un modello societario? Antinomie e dissonanze dell’istituto dopo il decreto n. 175/2016”, in Riv. It. Dir. Pubbl. com., 2018, pag. 555 e ss.
[12] Cass., Sez. Un. 23 novembre 2013, n. 26283, punto 4.3.
[13] Cass., Sez. Un. 23 novembre 2013, n. 26283, cit., punto 4.3.
[14] Cfr. Cass., sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3169.
[15] Così art. 1, c.2, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE, ripetitiva, peraltro, di una definizione da tempo acquisita.
[16] Così art. 1, c.3 e 4 della Direttiva 2004/18/CE. La definizione di concessione di lavori, così configurata, è peraltro risalente almeno alla Direttiva 93/37/CEE, art. 1, punto d).u
[17] Cfr. già la “Comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comuniatario”, in GUCE 29 aprile 2000, C 121/2. Cfr. anche la Comunicazione 15 novembre 2005, in tema di partneriato pubblico-privato.
[18] Sia consentito un rinvio allo scritto “La direttiva in materia di “concessioni””, in Riv. It. Dir. Pubbl. com., 2015, pag. 1095 e ss., pag. 1099.
[19] Corte Cass., Sez. Un., 23 novembre 2013, n. 26283, cit., punto 5 del diritto.
[20] Cfr. Corte di giustizia, sez. II, 10 dicembre 2020, in causa C-160/19 P, punti 30-32.
[21] Corte giust., ult. cit., punto 30.
[22] Così, tra gli altri, F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2020, pag. 859.
[23] Per un recente caso di tal fatta, cfr. Corte di giustizia, sez. II, 10 dicembre 2020, in causa C-160/19 P, cit.
[24] Inoltre, vi è quanto meno da dubitare che nel contratto tra ente proprietario e società totalmente controllata si possano pattuire veri rischi a carico di quest’ultima, esponendola effettivamente alle “fluttuazioni del mercato” (come richiesto dal 20° considerando della Direttiva 2014/23/UE). Trattandosi, infatti, di operazione compiuta “in famiglia” (e le cui conseguenze negative finirebbero per ripercuotersi sullo stesso ente proprietario), v’è da dubitare che il complesso dei compensi contrattuali (siano essi introiti tariffari, ovvero tout court contribuzioni pubbliche) non siano in grado di “coprire la totalità dei costi e degli investimenti sostenuti dal contraente per la fornitura del servizio” (Così la Direttiva 2014/23/UE, considerando 17): e ciò al di là di quanto si legge nei piani economici finanziari, che accompagnano gli affidamenti in house e che sono sovente prodighi di indicazioni in ordine ai rischi operativi, traslati più sulla carta che nella sostanza.
Perplessità analoghe si possono rinvenire persino in sede di giurisprudenza comunitaria. E così, ad esempio, si legge nella sentenza del Tribunale, III sez., 13 dicembre 2018, in T-167/13 (Comune di Milano), che “considerato che tra lo Stato e le imprese pubbliche sussistono relazioni strette, vi è un rischio reale che aiuti statali vengano concessi per il tramite di tali imprese pubbliche, in maniera poco trasparente e in violazione del regime previsto dal Trattato per gli aiuti statali” (sentenza, cit. punto 75).
[25] Cfr. art. 113, c. 11, del D. Lgs. 267/2000, nonché art. 114, c. 8, lett. a, del medesimo D. Lgs., con riferimento alle aziende speciali e alle istituzioni. Sul punto cfr. per tutti C. Iaione, Le società in house, Napoli, 2012, pag. 254 e ss.