Sulla tutela cautelare monocratica richiesta con «flaggatura» (note critiche a T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, decr. 31 dicembre 2020, n. 503)
di Angelo Giuseppe Orofino e Andrea Panzarola
Sommario: 1. La questione - 2. Sul generale potere di qualificazione della domanda giudiziale da parte del giudice amministrativo - 3. Segue: l’individuazione per relationem delle domande formulate - 4. Alcune conclusioni.
1. La questione
Queste brevi osservazioni traggono origine dalla lettura di un decreto cautelare[1] con il quale il Tar bolognese ha ritenuto che la semplice spuntatura di una casella del modulo adoperato per il deposito telematico del ricorso e dei suoi allegati, sarebbe idonea a manifestare la volontà del ricorrente di chiedere tutela cautelare monocratica, mai domandata nell’atto processuale notificato alle controparti, né con altro atto versato in giudizio anche in tempo successivo alla notifica.
Le argomentazioni addotte dal Tribunale per supportare la conclusione accolta possono essere così sintetizzate: a) la «flaggatura» della casella per mezzo della quale, con il modulo di deposito, si indica di aver chiesto tutela cautelare monocratica, sarebbe equivalente ad una domanda cautelare ex art. 56 c.p.a.[2] e sarebbe chiara, ancorché non espressa, manifestazione dell’intenzione della parte di richiedere misure urgenti anticipate; b) in tal senso si pone la normativa, comunitaria e nazionale, che consente la adozione, anche senza contraddittorio, di strumenti cautelari di urgenza per la tutela delle situazioni giuridiche dei soggetti che si confrontino con una pubblica amministrazione.
Alla luce di queste argomentazioni, il Tar ha ritenuto ammissibile la richiesta monocratica formulata con la sola spunta della casella del modulo di deposito a ciò dedicata, salvo poi reputarla infondata per mancanza dell’urgenza qualificata che deve sussistere ai fini della concessione di un provvedimento presidenziale ex art. 56 c.p.a.
Qui non interessa tanto stabilire se sia, o meno, condivisibile l’affermazione secondo cui è possibile concedere misure cautelari non precedute dalle forme conoscitive richieste dall’art. 56, commi 2[3] e 5[4], c.p.a.
Come tutti sanno, l’art. 61 c.p.a. consente adesso, a somiglianza della soluzione da tempo accolta nel processo civile, la pronunzia di misure cautelari anteriori alla causa[5], vale a dire prima della notificazione del ricorso introduttivo. La norma pone condizioni stringenti[6] per questa forma di tutela cautelare ante causam, incentrate sulla comprovata sussistenza di una ipotesi di eccezionale gravità ed urgenza che non permetta neppure la previa notificazione del ricorso[7].
Nel caso di specie non si è a fronte di una richiesta formulata ante causam, ai sensi dell’art. 61 c.p.a., visto che l’istanza è stata rinvenuta dal Tar all’interno del modulo di deposito di un ricorso previamente notificato.
Il che lascia intendere che la regola iuris alla luce della quale avrebbe dovuto essere esaminata la vicenda è (non già quella deducibile dall’art. 61 c.p.a., ma) quella recata dall’art. 56 c.p.a., il quale richiede la previa notifica della «domanda cautelare».
Si badi bene, non di una istanza purchessia, ma di una istanza che possegga i requisiti di forma-contenuto di una vera e propria «domanda cautelare», con la quale, per ripetere il testo dell’art. 56 comma 1, c.p.a., il ricorrente esteriorizzi gli estremi tanto oggettivi quanto soggettivi di una «domanda» per una tutela urgente, giustificandola con la circostanza che la «”estrema gravità” che contraddistingue la controversia non consente “neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”».
2. Sul generale potere di qualificazione della domanda giudiziale da parte del giudice amministrativo
In questo contesto la parte del decreto che suscita fatalmente maggiore interesse è quella in cui il Tribunale afferma che la semplice spunta di una casella di testo del modulo predisposto per il deposito degli atti nel processo telematico sarebbe di per sé idonea a manifestare la volontà del ricorrente di chiedere una domanda di tutela monocratica, non espressamente formulata nell’atto processuale notificato alle controparti.
Il TAR ha, dunque, ritenuto che le indicazioni espresse con il deposito del modulo fossero idonee ad integrare la domanda svolta dal ricorrente che – secondo quanto è dato comprendere dalla lettura del provvedimento in esame – non conteneva nessuna esplicita richiesta di tutela cautelare monocratica.
Si può immaginare che, provvedendo nel modo descritto, il Tar abbia inteso far prevalere la sostanza sulla forma[8], magari nella auspicata prospettiva di garantire una più ampia effettività della tutela del ricorrente[9], così equiparando la mera spuntatura della casella di un modulo predefinito ad una «domanda cautelare» (quella «domanda cautelare» prescritta dall’art. 56 cit.).
Il tema specifico merita di essere collocato in un quadro più ampio.
In termini generali è risaputo che, perseguendo un approccio sostanzialistico e volto all’ampliamento delle forme di tutela, si è fatta spazio nella giurisprudenza amministrativa l’idea secondo la quale il compito del giudice è anche quello di procedere ad interpretare il gravame ed i motivi con esso proposti[10] in base all’effettiva volontà del ricorrente, quale è desumibile dal tenore complessivo dell’impugnativa e dal contenuto delle censure ivi dedotte[11], sicché il giudice può individuare dal contesto del ricorso il significato delle doglianze e la tipologia di domande formulate dalla parte[12].
Tale potestà del giudice è stata espressamente ricondotta alla necessità di garantire la pienezza della tutela giurisdizionale[13]: costituisce – si dice – una articolazione del principio di effettività la circostanza che il giudicante possa (e debba) procedere ad una interpretazione del petitum e della causa petendi facendo perno, non solo sulle argomentazioni chiaramente esplicitate nel testo dell’atto processuale, ma anche su quelle che emergono dall’intero contesto del gravame[14].
Connesso con il potere di interpretazione della domanda è quello di conversione ex art. 32 c.p.a.[15]: l’organo giurisdizionale potrà disporre la conversione dell’azione solo dopo aver proceduto ad una qualificazione della domanda[16], basandosi sulle ragioni esposte dal ricorrente e sulle richieste da egli formulate, se del caso convertendola in quella che ritiene appropriata, ove ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma: ciò al fine di soddisfare immanenti esigenze di economia processuale e di dar seguito al principio di effettività della tutela giurisdizionale[17].
E, però, la potestà di qualificazione offerta al giudice incontra un evidente limite recato dal necessario rispetto del principio dispositivo che, pur non espressamente richiamato tra i principi enunciati nel capo I del titolo I del libro I del Codice del processo amministrativo, dedicato ai «principi generali», trova un riconoscimento nell’art. 34, comma 1, c.p.a. dove si stabilisce l’obbligo del giudice di pronunciarsi «nei limiti della domanda» e, comunque, negli artt. 99 e 112 c.p.c., espressamente applicabili al processo amministrativo[18] anche in ragione del rinvio esterno operato dall’art. 39 c.p.a.[19]
Tale principio è evidentemente violato quante volte il giudice alteri petitum e causa petendi pronunciandosi in merito ad un bene diverso da quello richiesto, che non sia nemmeno implicitamente compreso nella domanda, o qualora ponga a fondamento della decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere[20].
L’interpretazione e la qualificazione della azione è, dunque, consentita con una certa elasticità, ma con la preclusione di esaminare questioni non espressamente formulate dalle parti.
Ovviamente, è compito del giudice quello di interpretare la domanda (o le domande) proposte, tenendo presente il loro contenuto sostanziale quale desumibile dagli atti del giudizio e dalle allegazioni delle parti, ma sempre nel rispetto del divieto di ultra o extra petita.
3. Segue: l’individuazione per relationem delle domande formulate
Nello svolgere i compiti qualificatori e interpretativi delle azioni proposte dalle parti, il giudice dovrà attenersi agli atti prodotti in giudizio, non essendo possibile trarre dagli allegati indicazioni utili per la precisazione della domanda ma, al più, per la dimostrazione degli elementi fattuali che la sottendono.
Appare, quella appena illustrata, una esplicitazione della regola espressa dall’art. 40 c.p.a., comma 1, lett. f), secondo cui il ricorso deve contenere distintamente l’indicazione dei provvedimenti (evidentemente, anche cautelari) richiesti al giudice.
Analoga regola è contenuta, per il giudizio di appello, dall’art. 101 c.p.a.[21].
Non sono, dunque, ammissibili censure svolte per relationem, né in primo grado[22], né in seconde cure[23], né, a maggior ragione, in sede di revocazione[24].
È, quella appena esposta, una articolazione amministrativistica del principio di autosufficienza, impiegato (con interpretazione altrettanto pacifica, quanto discutibile) dalla Cassazione che lo ha dedotto dall’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.[25].
Un principio, questo, che viene ritenuto applicabile anche nel giudizio innanzi al g.a.[26], seppur nella forma attenuata innanzi richiamata e, cioè, facente perno sull’onere della parte di specificare negli atti processuali le censure e le domande.
Tale onere è espressamente riaffermato anche con specifico riferimento agli atti con cui si chiedano misure interinali, come chiaramente evincibile vuoi dall’art. 55, comma 3, vuoi dall’art. 56, comma 1, c.p.a., che presuppongono che la domanda di misure cautelari debba essere contenuta in apposito atto notificato alle controparti.
Anche l’art. 61 (come detto inconferente nel caso di specie), con riferimento alla cautela ante causam, prescrive che sia presentata una domanda apposita nella quale vengano esplicitate le ragioni di eccezionale gravità ed urgenza che fondano la richiesta.
La mancata indicazione di tali ragioni nel testo del gravame con il quale la istanza è veicolata ha portato a ritenere inammissibile la richiesta di misure cautelari monocratiche[27].
4. Alcune conclusioni
È giunto il momento di verificare in che modo l’insegnamento giurisprudenziale sul generale potere di qualificazione della domanda spettante al giudice amministrativo si rifletta nel caso di specie.
Non pare dubbio che da tale generale potere di qualificazione – dai suoi limiti quali forgiati in giurisprudenza – non si possono trarre elementi che giustifichino la soluzione assunta con il decreto annotato. Il quale, anzi, si pone in contrasto con quei medesimi limiti.
Non convince, in altri termini, la tesi volta a conferire alla semplice spunta di un modulo per il deposito degli atti nel processo telematico, il ruolo di strumento idoneo a manifestare la volontà delle parti processuali e di mezzo utile per chiarire quali siano le domande da essi proposte.
Vi ostano le regole ed i principi innanzi richiamati.
Lo impedisce altresì il dato testuale ricavabile dall’art. 56 c.p.a. il quale, come evidenziato, vuole che la richiesta di tutela cautelare urgente non sia rinvenibile in una attività materiale purchessia (la spunta di una casella di un modulo, per l’appunto), ma sia esteriorizzata in una vera e propria «domanda cautelare», espressione di una attività intellettiva declinata in un discorso giustificativo che manifesti univocamente così l’oggetto della richiesta, come i presupposti che ex lege debbono accompagnarla.
Insomma, per nessuna ragione è permesso omologare quoad effectum una mera attività materiale ad una «domanda cautelare» con quei requisiti di forma-contenuto.
Se i concetti tramandati da una lunga tradizione hanno ancora un senso (se le parole hanno un senso, verrebbe da aggiungere), altro è la spunta di una casella, altro il contenuto dichiarativo di una «domanda» giudiziale[28] (quale che sia, senza dubbio anche «cautelare»).
Va da sé, poi, che non sempre l’opzione sostanzialistica è quella che garantisce maggiore tutela[29], ed anzi in taluni casi si può ritorcere in danno della parte e presentare persino dei gravi rischi, quando dall’adozione del provvedimento derivino precise conseguenze, come accade in materia di appalti pubblici dove, al riscontro negativo della richiesta di cautela accidentalmente proposta, consegue il venir meno del periodo di stand still[30].
La vocazione creativa della giurisprudenza ha certamente giovato alla evoluzione del diritto amministrativo[31], anche di quello processuale. E tuttavia è auspicabile ponderatezza e senso del limite nel giudicare, e anche nel giudicare del senso e della portata delle norme processuali, tanto più quando esse siano di adamantina chiarezza.
[1] T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, decr. 31 dicembre 2020, n. 503.
[2] La prima parte dell’art. 56, comma 1, stabilisce, come noto, che «prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente può, con la domanda cautelare o con distinto ricorso notificato alle controparti, chiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie».
[3] Tra l’altro, il comma 2 esige che il giudice adito verifichi, prima di provvedere con decreto motivato, «che la notificazione del ricorso si sia perfezionata nei confronti dei destinatari o almeno della parte pubblica e di uno dei controinteressati».
[4] Il comma 5 dispone che – se la parte si avvale della facoltà di cui al secondo periodo del comma 2 – «le misure cautelari perdono efficacia se il ricorso non viene notificato per via ordinaria entro cinque giorni dalla richiesta delle misure cautelari provvisorie».
[5] R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla L. 205/2000 al Codice del processo amministrativo, Milano, 2011, 249. Circa l’influenza della giurisprudenza comunitaria sull’evoluzione della tutela ante causam, cfr. M.V. LUMETTI, Processo amministrativo e tutela cautelare, Padova, 2012, 30.
[6] Sul punto v. M.A. SANDULLI, La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 2010, 1130 e spec. 1150, dove viene fatto notare che le limitazioni al principio del contraddittorio attentano alla realizzazione di un processo giusto anche in fase cautelare.
[7] A. PANZAROLA, Il giudizio cautelare, in B. SASSANI, R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, vol. I, Torino, 2012, 813 e spec. 826.
[8] R. TISCINI, Prevalenza della sostanza sulla forma e sue recenti applicazioni, in Riv. dir. proc., 2018, 465.
[9] M.A. SANDULLI, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione: una pericolosa interazione che accresce i rischi di incertezza sulle regole processuali, in Federalismi, n. 1, 2021.
[10] Cfr. V. DOMENICHELLI, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2020, 27 e spec. 30: «Sebbene il rispetto dei motivi di ricorso venisse considerato la massima espressione del principio dispositivo nel giudizio di impugnazione e di annullamento, il giudice non si è sentito mai troppo vincolato ad essi, non perché ritenesse addirittura di poter individuare motivi che non erano stati fatti valere dal ricorrente, quanto perché poteva, si perdoni l’espressione, “manipolarli”, individuando motivi se non inespressi, espressi per implicito, in quanto contenuti in altri più ampi, o sviluppandone altri non adeguatamente sviluppati o esplicitati in termini solo embrionali».
[11] Cons. Stato, sez. IV, 20 ottobre 1992, n. 910; Id., sez. V, 9 ottobre 2003, n. 6070; Id., sez. IV, 10 dicembre 2003, n. 8117 ; Id., sez. V, 21 giugno 2007 n. 3474; Id., sez. V, 7 maggio 2013 n. 2464.
[12] Cons. Stato, sez. II, 30 novembre 2016, n. 2669/2016.
[13] Sul punto v. le osservazioni di M. NIGRO, Processo amministrativo e motivi di ricorso (1975), ora in ID., Scritti giuridici, tomo II, Milano, 1996, 1113 e spec. 1115: «Sono convinto che l’impianto e il corso del processo amministrativo debbano essere guidati da tecniche più elastiche, tecniche che consentano la maggiore possibile aderenza del processo alle situazioni concrete, la cui realizzazione o protezione è il fine reale di esso».
[14] Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2014, n. 5662.
[15] F. FOLLIERI, Qualificazione e conversione dell’azione alla prova del principio della domanda, in Dir. proc. amm., 2013, 177.
[16] La conversione presuppone la necessaria qualificazione della azione intrapresa: G. CORSO, Art. 32, in A. QUARANTA, V. LOPILATO (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 326.
[17] Cons. Stato, sez. V, 22 ottobre 2015, n. 4844; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 25 gennaio 2021, n. 982.
[18] M. NIGRO, Domanda (principio della). Diritto processuale amministrativo (1989), ora in ID., Scritti giuridici, tomo III, Milano, 1996, 2005.
[19] Cons. Stato, Ad. Plen, 13 aprile 2015, n. 4. In argomento v. A. TRAVI, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel processo amministrativo, in Foro it., 2015, III, 286; M. TRIMARCHI, Principio della domanda e natura del processo secondo l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2015, 1101; G. GALLONE, Processo dispositivo e processo dirigistico, in E. FOLLIERI, A. BARONE (a cura di), I principi vincolanti dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato sul codice del processo amministrativo (2010-2015), Padova, 2015, 747.
[20] Cons. Stato, sez. V, 11 aprile 2016, n. 1419.
[21] Sull’attenzione dedicata dal c.p.a. ai requisiti formali degli atti processuali v., in generale, F. FRANCARIO, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Dir. proc. amm., 2018, 129.
[22] T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 21 febbraio 2019, n. 305: «L’atto introduttivo, nonché gli eventuali motivi aggiunti, devono contenere l’esposizione dei motivi su cui il gravame si fonda, per cui sono inammissibili i motivi di impugnazione dedotti per relationem, e cioè mediante il semplice richiamo alle censure dedotte in altro e diverso atto».
[23] Cons. giust. amm., 1 luglio 2019, n. 609: «Il rinvio per relationem ai motivi di primo grado non ha alcuna valenza, atteso che l’atto di appello deve contenere in sé l’elencazione dei motivi di censura».
[24] Cons. Stato, sez. II, 24 settembre 2020, n. 5607.
[25] La letteratura sul punto è assai vasta. Si v., per tutti, F. SANTANGELI, Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, 607. È risaputo che, a seguito della adozione dei noti protocolli, il principio di autosufficienza dovrebbe essere interpretato nella sua versione c.d. «mite» (onerando il ricorrente del compito di indicare puntualmente atti e documenti richiamati nel ricorso). Si sa, però, che, a dispetto del protocollo, non mancano tuttora pronunzie della Suprema Corte che intendono il principio di autosufficienza in «senso forte», ponendo a carico del ricorrente l’ulteriore onere di trascrizione, nel corpo del testo, del contenuto degli atti e documenti richiamati.
[26] Cons. Stato, sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4375; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 17 febbraio 2020, n. 386. Di diverso avviso Cons. Stato, sez. III, 18 luglio 2018, n. 4378: «Contrariamente a quanto afferma la parte ricorrente, il Codice del processo amministrativo più volte riprende il principio di sinteticità degli atti. In particolare al riguardo si ricorda che: - l’articolo 3, comma 2, del c.p.a. prevede il cardine fondamentale per cui “il giudice e le parti redigono gli atti in materia chiara e sintetica”; - l’articolo 74 consente in linea di principio, secondo i casi, “un sintetico riferimento al punto di fatto e di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”; - l’art. 88, comma 1, che disciplina specificamente la motivazione della sentenza, tra l’altro, prevede alla lett. d) “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi”. Dunque non si rinviene nell’ordinamento processuale amministrativo alcun “principio di autosufficienza”».
[27] Cons. Stato, sez. III, decr. 5 luglio 2013, n. 2536, dove si legge: «- che al momento del deposito del ricorso in appello, l’Ufficio Ricevimento Ricorsi del Consiglio di Stato, presumibilmente in conformità ad una segnalazione verbale del depositante, ha rubricato il ricorso stesso come contenente, fra l’altro, una istanza di “misure cautelari provvisorie”, intendendosi per tali il decreto monocratico di cui agli artt. 56 e 98 c.p.a.; - che peraltro può apparire dubbio che la richiesta di decreto cautelare monocratico sia effettivamente contenuta nell’appello: ed invero, nelle conclusioni del ricorso si legge soltanto che la parte chiede “l’accoglimento dell’appello ... previa sospensione, anche con provvedimento anteudienza, dell’efficacia della sentenza”, espressione di per sé equivoca, in quanto propriamente parlando anche l’ordinanza collegiale cautelare è pronunciata “anteudienza”, ossia in camera di consiglio; inoltre manca ogni riferimento al carattere monocratico (e non collegiale) del provvedimento richiesto, laddove l’art. 56 c.p.a. vuole che il provvedimento cautelare urgente sia espressamente richiesto “al presidente... della sezione cui il ricorso è assegnato”; - che a maggior ragione appare dubbio che in concreto vi sia l’intenzione della parte di ottenere il provvedimento urgente di cui all’art. 56 c.p.a., dato che secondo la medesima norma sarebbe un elemento essenziale della relativa istanza la prospettazione delle specifiche ragioni di una urgenza “tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”, mentre nella fattispecie le supposte ragioni di urgenza non sono neppure accennate; - che tuttavia, volendo tutto concedere alla tutela giurisdizionale, anche cautelare, della parte, si può accedere ad interpretare il ricorso come rivolto appunto ad ottenere, fra l’altro, anche un decreto monocratico (presidenziale) cautelare; - che però anche in tale ipotesi la relativa istanza appare inammissibile, siccome sfornita di qualsivoglia motivazione riguardo alle esigenze cautelari, d’urgenza o meno».
[28] Sul punto si rinvia alla esemplare voce di C. CONSOLO, Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., Sez. civ., vol. VII, Torino, 1991, 44.
[29] R. TISCINI, Prevalenza della sostanza sulla forma, cit., 465.
[30] Come autorevolmente osservato da M.A. SANDULLI, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione, cit.: «La regula iuris teoricamente affermata con il decreto in oggetto può essere estremamente pericolosa nel contenzioso in materia di aggiudicazione dei contratti pubblici. È noto, infatti, che il rigetto della domanda cautelare – collegiale o monocratica – determina la cessazione dell’effetto sospensivo automatico prodotto dalla sua proposizione, il che rende, all’evidenza, inopportuna la formulazione di istanze monocratiche. Quid iuris se, per errore materiale, la segretaria “flagga” la relativa casella?»
[31] A. SANDULLI, il giudice amministrativo e la sua giurisprudenza, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 1363.