GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    LIBERTA’, DIRITTI, RESPONSABILITA’

    LIBERTA’, DIRITTI, RESPONSABILITA’

    di Bruno Montanari

    Sulle pagine di “Giustizia insieme” è comparso il 16 marzo scorso un articolo di Maurizio Bozzaotre (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/922-il-diritto-ai-tempi-del-coronavirus-come-cambia-la-nostra-vita-e-perche) il quale, con grande acribia, ha analizzato le disposizioni contenute nei diversi decreti che si sono succeduti in questi giorni per contrasto al contagio di cui siamo vittime noi, come il resto del mondo.

    Non intendo entrare nel merito delle diverse disposizioni, che sono motivate dalla drammaticità inedita della situazione e che, d’altra parte, Bozzaotre ha magistralmente spiegato e riassunto. Voglio trarre spunto, invece, da una sua frase quasi conclusiva: “…quando l’emergenza sarà finita avremo tutti il dovere di non dimenticare quanto siano preziose le nostre libertà e i nostri diritti…”.

    Certo, può essere considerata una proposizione scontata e in qualche misura anche retorica; se si va fuori dall’ovvio, è una frase, invece, che pone una serie di questioni, che si dislocano su piani tra loro diversi, ma tra loro strettamente connessi: dallo stile linguistico-comunicativo, attorno al quale mi sono soffermato in un mio precedente contributo su questa Rivista, al profilo socio-politico-governativo.

    Il primo livello è quello “prescrittivo”, che non può che avere una forma comunicativa dal contenuto tipizzante: il contenuto prescrittivo di una qualsiasi norma è sempre “tipico”, poiché la norma è, come si usa dire, una disposizione generale e astratta e non individuale e concreta. Qui si apre una prima considerazione: quale può essere l’ampiezza della materia sulla quale operare in modalità tipizzante. Infatti, quanto più si tipizza nello specifico, tanto più – paradossalmente – si lascia fuori la rilevanza della “particolarità” di ciascun caso concreto e che è essenziale alla corretta esecuzione della norma. Tale sottolineatura vale in modo particolare quando oggetto della norma è la limitazione di comportamenti che riguardano la libertà personale: vale a dire lo “stato di necessità”, consistente nell’interesse pubblico alla non diffusione del contagio. Nella esecuzione del divieto occorre tener presente se nel caso concreto ricorrano, in maniera attuale o anche solo potenziale, le condizioni materiali per fronteggiare le quali la prescrizione è stata emanata. Qualora esse non ricorrano, la normativa non è applicabile perché mancano le premesse di fatto che ne hanno giustificato l’emanazione e che costituiscono parte integrante della sua motivazione. Faccio un esempio semplice, per il quale ci sono state incertezze e controversie: il divieto di passeggio e simili. Un conto è che si passeggi in una strada di città, altro che ciò avvenga in una strada di campagna o su di una spiaggia in quasi perfetta solitudine Gli esempi potrebbero continuare, come il divieto della bicicletta, quando questo è un mezzo che per sua natura non può stare fermo e certamente non consente di avvicinarsi a meno di un metro (se no, si cade in due o più!), in più, non inquina. O ancora, l’uscire in mare con una imbarcazione quale forma di contagio si rischia di ricevere o di infliggere (è molto più rischioso l’equipaggio di un peschereccio)? Eseguire il decreto interdittivo da parte dei funzionari preposti, in mancanza delle condizioni di fatto che ne hanno legittimato l’emanazione in base alla sola motivazione della sua esistenza formale, integra una violazione indebita della libertà personale. Certo si potrebbe osservare che la tipizzazione del divieto è una misura per stabilire l’uguaglianza di tutti cittadini; come dire perché dare diritto ad alcuni di uscire mentre altri stanno a casa? La risposta è: infatti il divieto non impedisce di uscire ad ognuno, purchè non ricorrano nel singolo caso concreto condizioni di pericolo; qualora queste si verifichino, il divieto va immediatamente applicato. Un esempio appropriato: che senso ha vietare in generale di uscire da casa, quando il problema è l’affollamento dei mezzi pubblici o le file ai supermercati, dettate queste ultime, dall’ansia di approvvigionamento, che muove il cittadino impaurito? Come dire: usiamo la paura e non educhiamo il buon senso. A dopo qualche riflessione, per il momento proseguo il quadro.

    Altro divieto: quello di alcune attività commerciali certamente non essenziali. Anche qui ci si accorge di alcuni aspetti che sfuggono alla tipizzazione. Occorrerebbe, infatti, distinguere le attività commerciali o artigianali “di quartiere”, nelle quali l’attore vive del quotidiano, da quelle svolte da aziende o imprese di maggiore ampiezza e di più alto fatturato. Le prime possono non essere essenziali per l’utente, ma lo sono per il titolare; ed essendo “di quartiere” possono raggiungersi a piedi senza l’uso di mezzi pubblici. La tipizzazione non distingue né può farlo, poiché vi sono aspetti non tipizzabili.

    Ho mostrato come la tipizzazione linguistica apra la questione della applicazione della norma al caso concreto. L’ “applicazione” implica o dovrebbe implicare, come ho segnalato, l’interpretazione della norma, il cui riferimento, nel caso presente, è quello “secondo le sue finalità”. Il nesso applicazione – interpretazione conduce ad una “decisione”, che apre ad altre due questioni: la capacità interpretativa del decisore ed il suo “potere” decisionale. A partire da qui, un’altra questione: la legittimazione funzionale del decisore, che va da quella dell’agente di pubblica sicurezza (genericamente inteso) a quella del Sindaco, del Presidente di Regione e del Presidente del Consiglio. Tali posizioni chiamano in causa l’ampiezza costituzionale del potere decisorio di queste figure, la loro formazione tecnico-professionale, la loro “cultura” intellettuale e socio-politica e, non ultima, la loro “mentalità” e “psicologia” di persone. Proprio queste ultime, spesso così trascurate quando si discute di questioni giuridico-formali, vanno considerate quando entra in campo il “potere”. Prescrivere o anche solo eseguire è, comunque, decidere (si può sempre, infatti, non eseguire); e decidere è esercizio di “potere”.

    Il “potere” è per sua struttura una situazione umana formata dalla sequenza comando-obbedienza-sanzione. Tale sequenza sta a significare che il potere deve fronteggiare il suo paradosso strutturale: da un lato la sua effettività o “performatività”, che coincide con la sua assolutezza; dall’altro, effettività e assolutezza dipendono dalla osservanza-obbedienza dei destinatari. Di qui l’uso necessario della sanzione, come mezzo per immunizzarsi dalla sempre possibile disobbedienza. Per questo il potere è per struttura non debole, ma fragile. E, ancora per questo, il modo più semplice, pratico e apparentemente efficace di esercitarlo è l’interdizione immediata della libertà altrui, senza giudizio, ma come conseguenza, altrettanto immediata, della mera applicazione senza interpretazione di una disposizione normativa, a qualsiasi livello essa si dispieghi. Poiché, però, resta in campo la disobbedienza in quanto possibilità, che appartiene alla strutturale finitudine della condizione umana, il “tempo” corrode la forza della immunizzazione propria della sanzione. La storia delle rivolte e delle rivoluzioni lo ha ampiamente dimostrato; non solo, ma la stessa prassi di una politica criminale costruita sull’ aggravamento delle sanzioni, dalla loro crudeltà pubblica di un tempo a quella carceraria delle attuali democrazie liberali, non ha ridotto il crimine né sembra essere in grado di fronteggiarlo efficacemente.

    Fin qui il tema dei limiti della tipizzazione normativa che riguarda chi, a vari livelli, pone o “applica” le disposizioni. Vediamo ora cosa succede dalla parte dei destinatari. Cominciamo con il distinguere le caratteristiche dell’ambiente umano: età, formazione (lato sensu), educazione, provenienza sociale, consistenza economica. Sono questi i fattori principali, così mi sembra, che costituiscono il modo nel quale ciascuno di noi vede la propria vita, ed il cosiddetto “mondo” che lo circonda, e di conseguenza costruisce i propri orizzonti. In pratica: chi deve mettere insieme il pranzo con la cena non ha la stessa visione della vita di chi ha una consistenza economica e culturale che gli consente di riflettere e decidere oltre la contingenza della mera quotidianità, sia in termini di spazio che di tempo. Ne segue che l’effetto di una normatività solamente interdittivo-sanzionatoria è diverso a seconda delle caratteristiche psico-antropologiche dei destinatari. In ogni caso, anche se l’effetto del modello interdittivo-sanzionatorio è diverso, in nessun caso è utile oltre la contingenza dell’immediato, cioè nel medio tempo. In coloro che hanno esigenze di vita impellenti si sviluppa una sorta di osservanza passiva e quindi di subordinazione securitaria (che è la base di ogni dittatura); in chi vive una condizione più agiata prende consistenza una riflessione critica che può condurre, nel medio tempo, a forme di contestazione normativa più o meno organizzate.

    Vi è poi il profilo psicologico di chi esercita il potere. Si può riassumere nella immagine che ne dà Canetti in un libretto dal titolo: “Potere e sopravvivenza”. Canetti mette a fuoco uno stato d’animo inquietante, perché subliminale. E’ la sensazione di potere che ha il vivo di fronte al corpo disteso di un morto e indipendentemente da ogni profilo affettivo: “…intanto, Io sono vivo e tu sei morto”. 

    Il profilo psicologico del “potere” si attua in particolare nella comunicazione mediatica. Il paradigma è fondamentalmente analogo a quello già descritto, solo che in questo caso l’ “obbedienza” coincide con la subordinazione-manipolazione dei fruitori, il comando con la performatività dell’atto del comunicare e la sanzione con l’accentuare la tragicità del contenuto comunicato, tale, da farla penetrare “nella pelle”. Il comunicatore si sente, allora, come il vivo di fronte al morto di Canetti: sente, quasi inavvertitamente, esaltato il suo Ego personale, insieme a quello dell’Ente per il quale lavora. E più la notizia è terrifica, più è idonea a sottomettere psicologicamente il destinatario e più soddisfa l’Ego.

    Con queste osservazioni, ho cercato di mostrare come la sequenza comando - divieto – sanzione chiami in causa il “potere”, nei diversi campi nei quali si dispiega e nei suoi profili umani e psicologici e come esso funzioni nella immediatezza propria della intimidazione emotiva, che costituisce il suo fine, sia sotto la specie di “obbedienza – sanzione”, sia sotto quella di “manipolazione psicologica – subordinazione emotiva.

    Queste considerazioni, che restano ovviamente sommarie, possono condurre ad una pausa di riflessione, come si usa dire. Una normativa fatta di divieti e sanzioni, o di manipolazione psicologica, se può essere considerata utile nella immediatezza della contingenza, è praticamente sbagliata di principio, e quindi rischia di non funzionare se si protrae nel medio tempo. Per il tempo, che non è determinabile a priori, dovrebbe affermarsi una normazione per principi forti e di facile indicazione pratica e operativa e di evidente e asciutta comunicazione, che consentano di guidare la vita pratica di ciascuno, nel quotidiano, secondo il fine stabilito: nel caso presente, la non diffusione del contagio. Si dovrebbe porre in essere una educazione culturale dei responsabili istituzionali (diversificata, secondo il loro livello e grado di legittimazione operativa) che induca ad una mentalità collaborativa dei destinatari, fondata sulla abitudine a vivere in un insieme, dove ciascun io è in relazione con un tu, e dove ogni “io” è esso stesso un “tu” per l’ “io” dell’altro. Dunque ognuno di noi contiene in sé l’IO e il TU; quindi è “interesse” (al di là del dovere morale) di ciascuno di esercitare la responsabilità che il principio regolativo impone. Questo evita criminalizzazioni indebite e non necessarie. E’ qui che la collaborazione e responsabilità della “gente” mostra tutta il suo valore sociale; solo educando la libertà si evita l’arbitrio individualistico e si può ottenere responsabilità.

    Purtroppo mi rendo conto che noi viviamo un tempo, in cui, dagli anni ’90 in poi, si è formato un ambiente umano, distribuito tra “classe dirigente” e gente comune, nel quale il mercatismo e la globalizzazione finanziaria, prima, e la loro materializzazione e volgarizzazione attraverso l’ “infosfera”, poi, hanno dato luogo ad una visione della vita improntata ad una sorta di individualismo egoistico di massa, soddisfatto dalla perenne immediatezza delle soluzioni. E questo vale sia per le qualità intellettuali delle classi dirigenti (e qui mi riferisco all’intero mondo dei decisori in ogni campo del vivere civile), sia per quelle di coloro che sono i destinatari delle loro decisioni. Non è un caso che films di fantascienza, come Minority Report di Spielberg o Matrix dei fratelli Wachowski, immaginino un mondo dove l’autoritarismo tecnocratico della intelligenza artificiale ha soppiantato la ragione libera dell’uomo naturale.

     

     

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