Appare utile, a beneficio non solo degli operatori del settore ma anche delle persone assoggettate a procedura fallimentare, effettuare uno schematico riepilogo dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito in ordine ai beni non compresi nel fallimento e al sussidio alimentare che può essere concesso al fallito quando a quest’ultimo e alla sua famiglia vengano a mancare i mezzi di sussistenza.
Va anzitutto chiarito che la problematica concerne esclusivamente le ipotesi di fallimento di persone fisiche, sia pure, eventualmente, in qualità di soci illimitatamente responsabili di società.
La disciplina vigente in materia, contenuta negli artt. 46 e 47 l.f., persegue la finalità di riservare al fallito una condizione di vita dignitosa, liberandolo da ogni misura di carattere inutilmente afflittivo e incentivandolo alla continuazione o alla ripresa dell’attività lavorativa già nel corso della procedura fallimentare.
Ciò premesso, si riportano di seguito le risposte fornite dalla giurisprudenza agli interrogativi che si sono posti in materia, nel tentativo di fornire una sorta di “prontuario” per curatori fallimentari e ai giudici delegati e, al contempo, uno strumento utile alle persone “colpite” dalla dichiarazione di fallimento e alle loro famiglie.
QUAL È, NEL CORSO DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE, LA SORTE DEGLI STIPENDI E DELLE PENSIONI PERCEPITI DAL FALLITO?
In base al combinato disposto dei commi 1 n. 2) e 2 dell’art. 46 l.f., i limiti entro i quali gli stipendi e le pensioni del fallito non sono compresi nel fallimento, in quanto necessari per il mantenimento del fallito e della sua famiglia, sono fissati con decreto motivato dal giudice delegato tenendo conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia.
Ciò significa, evidentemente, che non può mai essere acquisita alla procedura fallimentare l’integralità delle somme che il fallito ricava dalla sua attività lavorativa (anche, eventualmente, quale lavoratore autonomo: v. Trib. Padova, 26 aprile 2002, in Il fallimento, 2003, 1375) o percepisce a titolo di pensione, e che almeno una parte di tali somme deve essere quindi lasciata nella piena disponibilità del fallito (v. Cass. 26201/2016).
Il diritto del fallito di percepire e trattenere gli emolumenti necessari al mantenimento suo e della sua famiglia sussiste già prima che intervenga il decreto del giudice delegato che ne fissi la misura ed indipendentemente da esso, sicché, da un lato, l’acquisizione della pensione o dello stipendio all’attivo fallimentare non può essere totale neppure per il periodo precedente l’emissione di tale decreto, e, dall’altro, il decreto in questione ha natura dichiarativa ed efficacia retroattiva, comportando l’inefficacia ex art. 44 l.f., per la parte eccedente il limite fissato, dei pagamenti – relativi a stipendi e pensioni maturati dopo la dichiarazione di fallimento – già effettuati direttamente al fallito dal datore di lavoro o dall’Ente previdenziale (v. Cass. 6999/2015, Cass. 18598/2014, Cass. 18843/2012, Cass. 17751/09 e Cass. 20325/07).
LA DISCIPLINA IN QUESTIONE SI APPLICA ANCHE AL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO? E VALE ANCHE PER GLI STIPENDI ARRETRATI (RELATIVI CIOÈ A MENSILITÀ PRECEDENTI LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO) E PER I RATEI ATTETRATI DI PENSIONE NON ANCORA CORRISPOSTI?
La risposta è affermativa, pur dovendo sul punto effettuarsi una precisazione.
Stante la sua connotazione retributiva (sia pure sotto forma di “risparmio forzoso”: v. Cass. 4261/01), anche il trattamento di fine rapporto è soggetto al regime stabilito dai commi 1 n. 2) e 2 dell’art. 46 l.f., ed è dunque escluso dall’attivo fallimentare nei soli limiti di quanto occorre per il mantenimento del fallito e della sua famiglia (v. Cass. 17751/09 e Cass. 2591/99, nonché, con specifico riguardo all’indennità di fine rapporto spettante agli agenti di commercio, Cass. 5787/79).
Peraltro, poiché di regola ciò che rileva sono le esigenze attuali di mantenimento, laddove tali esigenze siano già “coperte” da altri emolumenti percepiti a titolo di stipendio o pensione può essere disposta anche la totale acquisizione del trattamento di fine rapporto all’attivo fallimentare (v. (Cass. 17751/09), e solo in caso di mancanza di tali emolumenti il fallito può ottenere una sorta di capitalizzazione mensile della parte del t.f.r. necessaria al mantenimento suo e della sua famiglia durante la procedura fallimentare (in tal caso cioè il curatore fallimentare, una volta acquisito integralmente il trattamento di fine rapporto, dovrà utilizzarlo almeno in parte per erogare al fallito quanto necessario per il predetto mantenimento, nella misura e con la periodicità stabiliti dal giudice delegato con il decreto di cui all’art. 46, co. 2, l.f.).
Le esigenze di mantenimento relative al periodo precedente l’apertura della procedura fallimentare vengono in rilievo solo laddove il fallito dimostri di avervi fatto fronte facendo ricorso al credito: in tal caso egli potrà percepire anche la quota di t.f.r. necessaria ad adempiere agli obblighi di restituzione dei prestiti a tal fine ottenuti (v. Cass. 18598/2014 e Cass. 9268/95).
Le considerazioni che precedono valgono anche per gli stipendi arretrati (v. Cass. 2072/03 e Cass. 2738/64) e per i ratei arretrati di pensione (v. Cass. 3373/98).
QUID IURIS PER I RIMBORSI SPESE?
Poiché ai sensi dell’art. 42, co. 2, l.f. i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare sono compresi nel fallimento “dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi”, il fallito ha sempre diritto a percepire integralmente le somme che il datore di lavoro gli corrisponde a titolo di rimborso spese (v. Cass. 1724/2015).
E PER LA PENSIONE DI INVALIDITÀ?
Tra le “pensioni” di cui all’art. 46, co. 1, n. 2), che sono escluse dal fallimento (e possono essere quindi percepite dal fallito) nei soli limiti fissati dal giudice delegato entro quanto occorre per il mantenimento del fallito e della sua famiglia, vanno annoverate anche quelle di invalidità (v. Cass. 2939/08, Cass. 2719/07, Cass. 17839/02 e Cass. 9268/95).
E PER L’INDENNITÀ DI ACCOMPAGNAMENTO?
L’indennità di accompagnamento, stante la sua funzione assistenziale, non può essere acquisita neppure in parte all’attivo fallimentare, e il fallito ha quindi diritto a trattenerla nella sua totalità (v. Trib. Napoli, 11 marzo 2014, in www.expartecreditoris.it).
E PER LE INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE E DI MOBILITÀ?
Le indennità di disoccupazione e di mobilità hanno invece una funzione previdenziale (v. Corte Cost. 234/2011), per cui devono ritenersi soggette al regime stabilito dai commi 1 n. 2) e 2 dell’art. 46 l.f.;
CHI DEVE ATTIVARSI PER LA FISSAZIONE DEL LIMITE EX ART. 46, CO. 2, L.F. DA PARTE DEL GIUDICE DELEGATO?
Non è necessaria un’istanza del fallito (v. Cass. 26201/2016), ben potendo la richiesta provenire dal curatore fallimentare o da chiunque altro vi abbia interesse, come gli stessi familiari del fallito o il suo datore di lavoro.
Giova peraltro evidenziare come la tempestiva emissione del decreto di fissazione del limite da parte del giudice delegato sia nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti: del datore di lavoro o l’Ente previdenziale erogatore del trattamento pensionistico, per non rischiare la parziale inefficacia del pagamento effettuato direttamente in favore del fallito; del fallito, per non vedersi opporre da parte del datore di lavoro o dell’Ente previdenziale il legittimo rifiuto del pagamento in attesa della fissazione del limite; del curatore fallimentare, per acquisire all’attivo fallimentare le somme eccedenti il limite fissato dal giudice delegato e recuperare i pagamenti eventualmente effettuati in favore del fallito in eccedenza rispetto a tale limite.
PRIMA DI EMETTERE IL DECRETO DI FISSAZIONE DEL LIMITE, IL GIUDICE DELEGATO DEVE SENTIRE IL CURATORE E IL COMITATO DEI CREDITORI? E SE LA RICHIESTA PROVIENE DAL CURATORE, VA SEMPRE SENTITO PREVENTIVAMENTE IL FALLITO?
Sebbene – diversamente dall’art. 47 l.f. – l’art. 46, co. 2, l.f. non menzioni espressamente la necessità di sentire il curatore e il comitato dei creditori, l’acquisizione dei relativi pareri appare opportuna: il coinvolgimento preventivo del curatore è necessario affinché egli compia le doverose verifiche in merito all’effettiva sussistenza delle esigenze di mantenimento dedotte dal fallito e alle reali condizioni economiche e personali di quest’ultimo e della sua famiglia, la partecipazione del comitato dei creditori è opportuna per consentire a tale organo, espressione degli interessi della massa dei creditori sui quali il provvedimento è destinato ad incidere, le proprie osservazioni.
Il fallito, ove ciò sia concretamente possibile (salvo, cioè, il caso di sua irreperibilità), va sempre preventivamente sentito e messo in condizione di esporre adeguatamente e di documentare le esigenze di mantenimento sue e del suo nucleo familiare.
QUALI SONO I PARAMETRI CUI IL GIUDICE DELEGATO DEVE ATTENERSI NELLA FISSAZIONE DEL LIMITE?
Premesso che la determinazione della parte di pensione o stipendio necessaria per assicurare al fallito mezzi adeguati al mantenimento è rimessa alla valutazione in fatto del giudice delegato e deve essere da quest’ultimo sempre adeguatamente motivata (v. Cass. 6548/2011), e che non operano della procedura fallimentare i limiti di pignorabilità posti dall’art. 545, co. 3 e 4, c.p.c. (ben potendo quindi gli stipendi e le pensioni acquisirsi all’attivo fallimentare oltre il limite del quinto: v. Cass. 17751/09, Cass. 2939/08, Cass. 2719/07, Cass. 4740/99 e Cass. 971/95), il reddito da lavoro o pensione da destinare al mantenimento del fallito e della sua famiglia non deve essere ridotto a coprire le sole esigenze puramente alimentari (poiché altrimenti il fallito non sarebbe incentivato a svolgere attività lavorativa o comunque giustamente premiato per averla svolta, liberando la procedura fallimentare dal “peso” del sussidio alimentare che gli spetterebbe ai sensi dell’art. 47 l.f.), ma non può neppure arrivare a soddisfare il parametro costituzionale della retribuzione socialmente adeguata ex art. 36 Cost., dovendo pur sempre considerarsi che nella condizione sociale del fallito assume rilievo la sua posizione di debitore verso una collettività di creditori concorrenti (v. Cass. 2939/08, Cass. 17235/02, Cass. 9391/02, Cass. 13171/99, Cass. 10736/94).
Il limite va dunque fissato in una misura intermedia fra il minimo alimentare, rappresentato dalla pensione sociale minima, e il livello di retribuzione – cui fa riferimento l’art. 36 Cost. – sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (v. Trib. Udine, 21 maggio 2010, in www.ilcaso.it, Trib. Locri, 4 gennaio 2003, in Il fallimento, 2003, 897, e Trib. Sulmona, 14 marzo 2000, in Il fallimento, 2000, 682).
In definitiva, al di là di ogni considerazione sulla funzione del lavoro come strumento per consentire all’individuo una piena espressione della sua dignità e personalità concorrendo allo sviluppo materiale e spirituale della società, lo svolgimento di un’attività lavorativa da parte del fallito nel corso della procedura fallimentare giova sia alla massa dei creditori (sulla quale graverebbe, altrimenti, il rischio di dover subire il peso del sussidio alimentare di cui all’art. 47 l.f.) sia allo stesso fallito, il quale, oltre a percepire una somma superiore a quella conseguibile con il predetto sussidio, può contribuire alla parziale soddisfazione dei suoi creditori anche nell’ottica di una sua esdebitazione ex art. 142 l.f. al termine della procedura.
DI QUALI RIMEDI PUÒ AVVALERSI IL FALLITO (O LO STESSO CURATORE, IN RAPPRESENTANZA DELLA MASSA DEI CREDITORI) PER CONTESTARE LA DECISIONE DEL GIUDICE DELEGATO OVE RITENUTA INGIUSTA?
Il decreto di fissazione del limite è impugnabile con reclamo ex art. 26 l.f. al Tribunale, la cui decisione, incidendo sui diritti del fallito e dei creditori, è a sua volta ricorribile per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (v. Cass. 26956/2016, Cass. 2939/08, Cass. 13171/99, Cass. 4740/99 e Cass. 10736/94).
IL FALLITO È TENUTO A DOCUMENTARE L’EFFETTIVA DESTINAZIONE DELLE SOMME PERCEPITE AL SODDISFACIMENTO DELLE ESIGENZE DI MANTENIMENTO?
L’imposizione al fallito di una rendicontazione periodica circa l’utilizzo delle somme percepite a titolo di stipendio, pensione o proventi di attività di lavoro autonomo è rimessa alla discrezionalità del giudice delegato, avuto riguardo alla particolarità dei singoli casi, sicché non sussiste alcun obbligo di rendicontazione ove ciò non sia espressamente stabilito dal giudice (v. Cass. 26206/2013).
COSA ACCADE SE IL FALLITO, PERCETTORE DI PENSIONE, MUORE NEL CORSO DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE?
In tal caso il decreto di fissazione del limite emesso dal giudice delegato perde immediatamente efficacia, ferma l’acquisizione all’attivo degli eventuali ratei arretrati di pensione, non potendo prospettarsi con riguardo a tali ratei un trasferimento del diritto in favore del coniuge superstite sotto forma di pensione di reversibilità (v. Cass. 2658/2015).
E SE AL FALLITO, NON PERCETTORE DI REDDITI DA LAVORO O DI PENSIONE, VENGONO A MANCARE I MEZZI DI SUSSISTENZA?
L’art. 47, co. 1, l.f. stabilisce che in tal caso il giudice delegato, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori, può concedere al fallito un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia.
Deve tuttavia escludersi che il fallito vanti un diritto soggettivo agli alimenti, essendone rimessa la concessione alla decisione discrezionale del giudice delegato anche in ordine alla relativa entità e durata nel tempo, ed essendo possibile l’ottenimento del sussidio solo se al fallito vengano effettivamente a mancare i mezzi di sussistenza (il che non accade, ad esempio, quando vi siano persone obbligate a prestagli gli alimenti ai sensi dell’art. 433 c.c.: v. Trib. Torino, 27 maggio 1988, in Dir. fall., 1989, II, 899) e nella massa attiva del fallimento vi siano disponibilità economiche sufficienti a farvi fronte (v. Cass. 9790/2013, nonché Trib. Sulmona, 18 agosto 2000, in Gius, 2000, 22, 2648; contra, per la qualificazione del sussidio come situazione giuridica direttamente tutelata dall’ordinamento e qualificabile come diritto soggettivo radicato nel principio solidaristico dell’art. 2 Cost., sia pure subordinato all’effettiva mancanza dei mezzi di sussistenza e alla presenza nella massa attiva delle necessarie disponibilità economiche, Cass. 3518/99).
Tra i mezzi di sussistenza devono ritenersi incluse anche le somme occorrenti per le cure mediche essenziali (v. Trib. Napoli, 22 ottobre 1982, in Il fallimento, 1983, 698, e in Dir. fall., 1983, II, 995), ma non quelle necessarie per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio, comunque garantite, in presenza dei relativi presupposti, dall’istituto del patrocinio a spese dello Stato (v. Cass. 5787/79, nonché Trib. Torino, 27 maggio 1988, in Dir. fall., 1989, II, 899, e Trib. Ravenna, 4 gennaio 1967, in Dir. fall., 1967, II, 218).
Nella valutazione del giudice delegato non assume alcun rilievo la meritevolezza del soggetto richiedente (v. Trib. Torino, 27 maggio 1988, in Dir. fall., 1989, II, 899; contra Trib. Verona, 15 maggio 2015, in Il fallimento, 2015, 12, 1350, secondo cui rileverebbero anche le ragioni dell'indisponibilità o dell'insufficienza dei redditi del fallito).
L’istanza è legittimamente reiterabile dal fallito, sicché l’eventuale provvedimento di diniego emesso dal giudice delegato, non pregiudicando definitivamente e irreversibilmente la posizione dell’interessato, è reclamabile ai sensi dell’art. 26 l.f. ma la decisione del Tribunale sul reclamo non è ricorribile in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (v. Cass. 9790/2013, Cass. 2755/02, Cass. 3664/01, Cass. 7564/96, Cass. 1589/62 e Cass. 2070/59).
QUAL È LA SORTE DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO EVENTUALMENTE DETERMINATO PRIMA DELL’APERTURA DEL FALLIMENTO IN FAVORE DEL CONIUGE SEPARATO E DELL’ASSEGNO DI DIVORZIO?
Il credito maturato dal coniuge separato del fallito dopo la dichiarazione di fallimento non può essere fatto valere direttamente nei confronti del fallito, e il provvedimento di fissazione dell’assegno di mantenimento non è opponibile alla procedura fallimentare. L’interessato può ottenere un assegno alimentare sostitutivo con provvedimento del giudice delegato solo qualora ricorrano i presupposti di cui all’art. 47 l.f. (v. Cass. 1589/62, nonché Trib. Napoli, 8 luglio 2009, in Corr. mer., 2009, 10, 947).
Lo stesso principio è stato affermato per l’assegno di divorzio (Cass. 268/82), ma in dottrina si è giustamente rimarcato che al coniuge divorziato non dovrebbe potersi attribuire il sussidio in questione, essendo venuto meno il vincolo familiare con il fallito.
IL FALLITO PUÒ CONTINUARE AD ABITARE NELLA CASA DI PROPRIETÀ O CONDOTTA IN LOCAZIONE? E COME INCIDE IL FALLIMENTO SUI RAPPORTI DI UTENZA DI LUCE, ACQUA, GAS E TELEFONO?
La casa di proprietà del fallito (che ivi risieda sin dal momento della dichiarazione di fallimento: v. Cass. 869/58), ai sensi dell’art. 47, co. 2, l.f., nei limiti in cui è necessaria all'abitazione di lui e della sua famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla liquidazione delle attività.
Va chiarito, tuttavia, che la norma non impone che la casa del fallito sia venduta solo dopo che siano stati liquidati tutti gli altri beni (v. Cass. 869/58, nonché Trib. Ferrara, 2 ottobre 2000, in Il fallimento, 2001, 834, Trib. Messina, 6 giugno 2000, in Dir. Fall., 2000, 2, 1050, e Trib. Velletri, 6 settembre 1991, in Il fallimento, 1992, 406), e che l’ordine di liberazione della stessa ben può essere emesso dal giudice delegato anche prima dell’aggiudicazione al miglior offerente, purché dopo l’avvio della procedura competitiva di vendita o contestualmente all’inizio di tale procedura (v. Trib. Pescara, 3 giugno 2016, in Leggi d’Italia, e Trib. Reggio Emilia, 26 ottobre 2013, in www.ilcaso.it).
Quanto alla casa condotta in locazione, la locazione immobiliare avente ad oggetto la casa di abitazione del fallito e della sua famiglia non integra un rapporto patrimoniale compreso nella massa attiva fallimentare ma un rapporto di natura personale sottratto al fallimento, al quale non si applica l’art. 80 l.f.. per cui il curatore non può subentrare nel rapporto o recedere dallo stesso e il fallito può proseguire il rapporto per soddisfare la sua primaria esigenza di abitazione (v. Cass. 20804/09, Cass. 16668/08, Cass. 7142/2000, Cass. 6424/93 e Cass. 5397/82, nonché Trib. Nocera Inferiore, 28 aprile 2010, in Leggi d’Italia).
Parimenti esclusi dal fallimento, in ogni caso, sono i rapporti derivanti dai contratti per la fornitura di luce, gas, acqua e telefono alla casa di abitazione del fallito (v. Trib. Ascoli Piceno, 3 aprile 1984, in Dir. fall., 1984, II, 861).
LE SOMME SPETTANTI AL FALLITO A TITOLO DI RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE SONO ESCLUSE DAL FALLIMENTO?
La risposa è affermativa, trattandosi di un diritto di natura strettamente personale (v. Cass. 25618/2018, Cass. 2719/07, Cass. 392/06, Cass. 8022/2000 e Cass. 5539/97). Deve considerarsi superato il precedente orientamento secondo cui la quantificazione dell’ammontare del risarcimento determina la trasformazione del diritto personale all’integrità fisica o psichica in diritto patrimoniale sulla somma, con conseguente acquisizione di quest’ultima all’attivo fallimentare (v. in tal senso Cass. 1210/92 e Cass. 1123/63, nonché Trib. Roma, 19 febbraio 2002, in Il fallimento, 2002, 900, e Trib. Milano, 28 febbraio 2000, in Il fallimento, 2001, 433, secondo cui il risarcimento del danno morale e biologico per morte del fallito in sinistro stradale può essere acquisito al fallimento).
E L’INDENNIZZO A TITOLO DI EQUA RIPARAZIONE PER ECCESSIVA DURATA DEL PROCESSO?
Sebbene la Suprema Corte abbia affermato che il diritto all’indennizzo va acquisito al fallimento nel momento in cui, con la liquidazione del danno subito, si trasforma in diritto patrimoniale all’adempimento dell’obbligazione risarcitoria (v. Cass. 3117/05), tale affermazione va rivista in virtù del summenzionato revirement giurisprudenziale sul tema del danno non patrimoniale.
E GLI INDENNIZZI PER PERDITA DI CAPACITÀ LAVORATIVA SPECIFICA?
Le somme spettanti al fallito a titolo di danno da perdita di capacità lavorativa specifica, configurando un pregiudizio patrimoniale connesso alla perdita di guadagni futuri, sono comprese nel fallimento (v. Cass. 1879/2011 e Cass. 15493/05).
E IL RISARCIMENTO DEL DANNO PER PERDITA DI UN CONGIUNTO?
Sul punto bisogna distinguere i pregiudizi di carattere patrimoniale, il cui risarcimento è senz’altro avocabile al fallimento (v. Cass. 1652/71), dal c.d. “danno da perdita del rapporto parentale”, che costituisce un pregiudizio di natura non patrimoniale il cui ristoro è escluso dal fallimento.
E I CONTRIBUTI PER LA RICOSTRUZIONE O RIPARAZIONE DI IMMOBILI DANNEGGIATI DA EVENTI SISMICI?
Si tratta, evidentemente, di contributi funzionali al ristoro di un danno non patrimoniale, come tali non esclusi dal fallimento. La Suprema Corte ha tuttavia precisato che il pagamento delle somme effettuato direttamente in favore del fallito non può considerarsi inefficace nel caso in cui le stesse siano state effettivamente utilizzate per la ricostruzione o la riparazione degli immobili danneggiati (v. Cass. 16995/04).
E L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO CONCESSO AL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA?
In caso di fallimento del collaboratore di giustizia, l’assegno di mantenimento erogato in suo favore a norma dell'art. 13 d.l. 13/91 non può essere acquisito neppure parzialmente all’attivo fallimentare, né il giudice delegato può rideterminarne l’importo (v. Cass. 22145/2010 e Cass. 24416/09).
COME INCIDE LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO SUL CONTRATTO DI ASSICURAZION SULLA VITA?
Alla dichiarazione di fallimento del beneficiario non consegue lo scioglimento del contratto, né il curatore può agire nei confronti dell’assicuratore per ottenere il valore di riscatto della relativa polizza stipulata dal fallito quando era in bonis, atteso che, ai sensi dell’art. 46, co. 1, n. 5, l.f., tale cespite non rientra tra i beni compresi nell’attivo fallimentare e il valore di riscatto anticipato della polizza deve essere quindi corrisposto direttamente al fallito (v. Cass., SS.UU., 8271/08, Cass. 12261/2016, Cass. 11975/99, Cass. 2802/72, Cass. 1811/65 e Trib. Napoli, 16 marzo 2004, in Il fallimento, 2005, 309; tra le pronunce di segno contrario, v. Cass. 2256/2015 e Cass. 8676/2000, nonché Trib. Roma, 4 ottobre 2003, in Giur. mer., 2004, 683, e Trib. Verona, 23 dicembre 2000, in Il fallimento, 2001, 1140).
Il principio è altresì applicabile all’assicurazione contro gli infortuni con riferimento alle indennità dovute per un infortunio mortale, ma non anche alle indennità dovute per un infortunio che abbia cagionato un’invalidità permanente (v. Cass. 13342/04).