Franco Cordero processualista
di Giulio Illuminati
Franco Cordero è stato forse il più importante fra i maestri del diritto processuale penale. Il manuale ha formato generazioni di studiosi e continua ad essere di grande utilità per gli operatori; le molteplici opere scientifiche hanno portato in Italia la lezione di James Goldschmit e hanno posto le fondamenta della dottrina processualpenalistica. La sua costruzione teorica delle linee portanti di un processo accusatorio resta alla base della riforma del codice del 1989.
1. La prima edizione della Procedura penale di Cordero è del 1966, e fu per molti una rivelazione. In sole seicento pagine, con quel linguaggio capace di sintesi straordinarie e suggestive ma al tempo stesso ricche di implicazioni profonde anche sul piano puramente esegetico, il manuale era in grado di illustrare il diritto processuale penale in forma completa ed esauriente, portandone alla luce le radici storiche e culturali in una maniera mai vista in precedenza.
La procedura era prevalentemente, all’epoca, faccenda da pratici, sicuramente meno nobile del diritto penale sostanziale e meno raffinata del diritto processuale civile, avendo sofferto di una “catalessi”, ancora di recente addebitata dall’Autore ad una “stasi lunga quanto l’epoca inquisitoria, 5 secoli” e alla corrispondente “eclissi del contraddittorio”. Ma il rigore della trattazione e la chiara definizione delle categorie concettuali – che portava in Italia la lezione di James Goldschmidt, come apertamente riconosciuto – fondavano un impianto teorico scientificamente ineccepibile; mentre non va sottovalutato il merito di avere svincolato il diritto processuale penale dalla tradizionale posizione subalterna alla più ricca ed elaborata dottrina generale del processo civile, rivolta cioè a cercare simmetrie spesso inconferenti (prima fra tutte quella relativa al cosiddetto rapporto giuridico processuale penale).
Le successive edizioni del manuale, prima sul vecchio e poi sul nuovo codice (fino al 2012), progressivamente aumentate di dimensione, hanno formato generazioni di studiosi e hanno rappresentato e continuano a rappresentare uno strumento di grande utilità per gli operatori più attenti. L’acuta capacità sceveratrice espressa nel testo fa sì che quasi sempre – e talvolta anche inaspettatamente - si trova la risposta a dubbi interpretativi di ogni sorta: risposta magari non necessariamente condivisibile, ma sempre stimolante e feconda sul piano dialettico. Al punto che circola fra i processualpenalisti una facezia ricorrente: quando voglio sapere come la penso su un determinato problema, vado a leggere “il Cordero”. In una delle sue rare apparizioni nei dibattiti televisivi, a chi gli contestava di essere soltanto un teorico Cordero rispose rivendicando proprio il successo del manuale presso i pratici del diritto. Docente a tempo pieno, non esercitava la professione di avvocato, ma la sua vocazione di puro studioso non gli faceva perdere il contatto con la realtà delle aule di giustizia.
Col passare del tempo, e con le nuove edizioni riguardanti il codice del 1989, l’opera era venuta perdendo l’approccio asciutto ed essenziale del prototipo, risultando di volta in volta arricchita dalla critica al legislatore (“garrulo, invadente, confuso, pasticheur”), dall’analisi di casi clinici e da colte digressioni storiche, anche se restano di grande efficacia le mirabili sintesi premesse ad ogni capitolo. Didatticamente, dunque, era diventata meno utilizzabile per la generalità degli studenti: tuttavia è possibile constatare che quelli che sceglievano di affrontarla ne rimanevano quasi sempre affascinati e si appassionavano alla materia, raggiungendo un livello di preparazione superiore, sicché il maggiore impegno richiesto era largamente ripagato, anche (e forse soprattutto) dopo la conclusione degli studi.
Certo, come tutti sanno non si tratta di un testo facile: la prosa icastica e forbita, dotata di un sontuoso vocabolario, priva di ripetizioni o perifrasi, ricca di riferimenti eruditi, richiede al lettore una costante concentrazione per restare in sintonia col filo del discorso. Ma parlare di Cordero “ermetico”, come qualcuno ama definirlo, è completamente fuori luogo, anche se bisogna riconoscere che alcune conoscenze elementari di diritto, di logica e di storia sono indispensabili. Si tratta di un autore che in qualche modo chiede la collaborazione del lettore per far arrivare il suo messaggio in tutte le implicazioni.
Del resto la procedura penale è per sua natura materia molto problematica, il cui studio richiede attenzione ai dettagli e capacità combinatorie, e come tutte le cose difficili non può essere troppo semplificata, tanto più in un periodo storico in cui il legislatore - se così vogliamo continuare a chiamarlo - sembra muoversi casualmente, senza la necessaria lucidità e senza una bussola. L’eccesso di semplificazione si traduce nella banalizzazione - purtroppo oggi assai frequente - che oltre a indurre spesso in errore non è comunque in grado di far comprendere la complessità del fenomeno che si studia. Forse sarebbe il caso di distinguere, allora, fra i libri di testo che si limitano all’obiettivo di superare bene o male l’esame (o il concorso) e quelli che servono per imparare il diritto processuale penale e acquisire una vera competenza.
2. Cordero è forse il più importante fra i maestri che hanno posto le fondamenta del diritto processuale penale moderno in Italia. Umanamente, però, nonostante la soggezione che incuteva la sua smisurata cultura, era persona schiva e gentile, disponibile ad intrattenere rapporti anche con i più giovani studiosi desiderosi di confrontarsi con lui.
Non è qui il caso, e non ci sarebbe nemmeno spazio, di censirne tutti i lavori scientifici che hanno contribuito alla sistemazione e al progresso della disciplina, spesso – va sottolineato - anche attraverso interventi apparentemente minori come relazioni a convegni o note a sentenza.
Limitando la citazione ai libri più importanti, il primo, Le situazioni soggettive nel processo penale (1956) fissa alcuni capisaldi ancora attuali nella teoria del processo penale. Seguono Contributo allo studio dell’amnistia nel processo (1957), Il giudizio d’onore (1959), e le raccolte Tre studi sulle prove penali (1963) e Ideologie del processo penale (1966). Merita inoltre di essere ricordata la Guida alla procedura penale, un piccolo e prezioso manuale che è rimasto poco conosciuto, poiché ha avuto vita breve, essendo stato pubblicato nel 1986, pochi anni prima della riforma del codice.
Accanto a queste opere si collocano quelle di storia e filosofia del diritto, come Gli osservanti – Fenomenologia delle norme (1967), Riti e sapienza del diritto (1981), Criminalia – Nascita dei sistemi penali (1986). Come è noto, il primo di questi lavori gli costò l’esonero dall’insegnamento all’ Università cattolica di Milano, al quale egli reagì con il celebre pamphlet Risposta a monsignore (1970), rivendicando il valore dell’intelligenza e del sentimento religioso, entrambi rifiutati dall’ortodossia più retriva. In quell’occasione bisogna riconoscere che il mondo accademico si dimostrò solidale e determinato, favorendone la chiamata all’Università di Torino, prima del suo approdo alla Sapienza di Roma.
Uno dei meriti di Cordero è indubbiamente quello di aver sgombrato il campo dalle categorie concettuali superflue (secondo la logica, spesso evocata, del “rasoio di Occam”) e dalle false analogie con il processo civile. Oppure di aver messo ordine su nozioni confuse, come la distinzione tra le condizioni del procedere e quelle del punire: oggi la distinzione sembra assolutamente scontata, ma allora non era chiara (dato che se non si può procedere non si può neanche punire).
Vale la pena menzionare, per fare qualche esempio, la ricostruzione della discrezionalità come figura dell’obbligo. Quando la legge impone al giudice di valutare discrezionalmente l’esistenza dei presupposti di un provvedimento da emanare, ciò implica un accertamento di fatto che deve essere svolto secondo i criteri di valutazione predeterminati dalla fattispecie: ma una volta che l’accertamento abbia dato esito positivo, il giudice non ha la mera facoltà, ma l’obbligo, di provvedere (su premesse analoghe si muoverà poi Franco Bricola, sul versante del diritto penale sostanziale).
Un ragionamento in certo qual modo inverso riguarda la situazione dell’onere, che va considerato incompatibile con la categoria dell’obbligo: qui si tratta del potere di conseguire un risultato attraverso il compimento di un determinato atto, e l’onere si dice perfetto se il risultato è raggiungibile soltanto per quella via; in caso contrario, se esistono vie alternative, resta solo il rischio di un più o meno probabile risultato negativo. In tema di onere della prova, l’onere sarebbe perfetto se la prova fosse ammissibile esclusivamente qualora la richiesta provenga dalla parte interessata: altrimenti la parte corre solo il rischio che la prova possa mancare.
Il procedimento probatorio è un'altra delle categorie che Cordero utilizza, articolandolo nelle tre fasi dell’ammissione, acquisizione e valutazione della prova. Sul concetto di prova, in un primo momento recepisce la distinzione di Carnelutti tra prove storiche e prove critiche, per poi rivedere questa classificazione e contrapporre le prove dichiarative a tutte le altre, che richiedono sempre un procedimento logico inferenziale.
Un importante chiarimento, ormai pacificamente acquisito, riguarda il problema delle prove “illecite”. Per escludere una prova occorre verificare se esiste una norma processuale che la vieta, considerandola inammissibile (Cordero non amava la denominazione “inutilizzabile” adottata successivamente), mentre gli altri ordini di norme, in particolare quelle penali, non sono idonee ad incidere sul procedimento di ammissione, ferme restando le eventuali responsabilità. In coerenza con questa impostazione, viene respinta la dottrina cosiddetta dei “frutti dell’albero avvelenato”, secondo cui l’illegittimità della perquisizione rende la cosa sequestrata inammissibile come prova: soltanto le cose che la legge qualifica come non sequestrabili possono essere escluse, e in ogni caso il corpo del reato, a norma di legge, deve sempre essere acquisito.
3. Per chi ha in mente la lunga avventura della riforma del processo penale, un momento topico imprescindibile è rappresentato dal Convegno “De Nicola” di Lecce e Bellagio del 1964, su Criteri direttivi per una riforma del processo penale, nel quale si trovano rappresentate tutte le posizioni scientifiche a confronto, sullo sfondo dell’alternativa inquisitorio/accusatorio. Cordero, allora giovane cattedratico, è il relatore per il gruppo che riteneva indispensabile una svolta radicale, nel solco del cosiddetto progetto Carnelutti del 1962.
Mentre si discuteva sull’alternativa tra istruzione sommaria condotta dal pubblico ministero come rappresentante dell’esecutivo e istruzione formale unificata davanti al giudice istruttore, secondo modalità ricalcate, con qualche doveroso aggiornamento, sul sistema allora vigente, Cordero costruisce lucidamente una struttura autenticamente accusatoria, basata sulla netta distinzione tra la fase di ricerca della prova e il giudizio: non una parola raccolta nel corso delle indagini preliminari deve avere ingresso nel giudizio, se non come strumento di valutazione della prova acquisita in contraddittorio. La proposta suscita un vivace dibattito e molte critiche, alle quali Cordero replica con efficacia, sottolineando come sia una “superstizione” la pretesa che il libero convincimento debba potersi avvalere di qualunque fonte di conoscenza, non importa in che modo raccolta. Solo il contraddittorio è in grado di assicurare un accertamento credibile e rispettoso dei diritti delle parti. Oltre che negli atti del Convegno, i suoi interventi sono raccolti, insieme ad altri scritti, nel già citato Ideologie del processo penale.
Il Convegno non riesce a raggiungere una risoluzione unanime - forse era chiedere troppo - e si conclude con un nulla di fatto, consegnando le tre proposte alternative senza una scelta. Ma alla fine, come sappiamo, sarà l’opzione accusatoria ad avere la meglio: nel codice vigente, dopo lunghe peripezie, rimane molto delle idee propugnate da Cordero. In realtà Cordero non è entusiasta del risultato, ma se lo fa piacere: “l’importante era uscire da un riformismo sterile. Sotto questo aspetto assume un altissimo significato”. Tuttavia, dopo gli stravolgimenti intervenuti nel corso degli anni, soprattutto quelli dovuti alle intemperanze del periodo berlusconiano, il suo atteggiamento da scettico diventa sempre più critico.
Non è questa la sede per discutere della sua ampia produzione storica, letteraria e in anni più recenti anche di critica politica. Quello che ne emerge, comunque, è un intelletto poliedrico ed uno spirito libero, indipendente e non convenzionale, animato da passione civile contro gli abusi del potere, che si riflette nel suo sguardo amaro e disincantato sull’Italia di questi tempi. È comunque quasi paradossale che la sua notorietà sia dovuta, ora che è scomparso, ai corrosivi interventi giornalistici nei confronti di Berlusconi.
Torna in mente, però, dal manuale, un folgorante ritratto di Alfredo Rocco, artefice dei codici penale e di procedura fascisti: “…si dà il caso che sia un giurista di prim'ordine, nettamente superiore alla media dei suoi contemporanei… il solo capace di tradurre un progetto politico in soluzioni tecnicamente ingegnose”; ma è “negato alle sottigliezze dell'anima…, duro, non immune da un fondo di volgarità, spesso vittima del luogo comune, poco o niente dotato di gusto autocritico e quindi incline ad agire senza pentimenti nonché al discorso oracolare (dove si vede come il virtuosismo del giurista sia un'abilità compatibile con più di un limite intellettuale)”. L’ultima lapidaria frase sembra applicabile anche a non pochi contemporanei.