GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il ruolo del Pubblico Ministero nell'emersione tempestiva dell’insolvenza, tra legge fallimentare e nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza

    Il ruolo del Pubblico Ministero nell'emersione tempestiva dell’insolvenza, tra legge fallimentare e nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza di Giorgio Orano

     A diciotto mesi dalla entrata in vigore del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, la prevista introduzione degli strumenti di allerta, al dichiarato scopo di contribuire alla tempestiva emersione della crisi di impresa, impone una riflessione sul ruolo che il P.M. e la magistratura nel suo complesso, avrebbero dovuto svolgere secondo l’impianto della legge fallimentare - tuttora vigente -  e sui compiti e le prerogative che la riforma attribuisce agli Uffici di Procura quali garanti della legalità del sistema economico nel suo complesso.

     Sommario: 1. Domani accadrà, e il domani è fra diciotto mesi. – 2. I sistemi di allarme ante litteram presenti nella Legge Fallimentare del 1942. – 3 Il ruolo del Pubblico Ministero nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza. – 4. Le procedure di allerta e il Pubblico Ministero. 

    1. Domani accadrà, e il domani è fra diciotto mesi.

    Tanto ci separa dall’entrata in vigore del nuovo codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (prossima la pubblicazione in gazzetta); evidentemente il legislatore è convinto che le nuove regole avranno effetti significativi, se non dirompenti, sulla nostra realtà socio economica e dunque ha concesso a tutti i soggetti coinvolti, fra cui gli operatori del diritto, molto tempo per riflettere, e per organizzarsi. 

    Può sembrare molto, forse troppo tempo, per noi penalisti, dal momento che in fondo il diritto penale fallimentare, al netto di qualche modifica terminologica, esce dalla riforma sostanzialmente immutato, risultando di fatto trascritto, nel nuovo codice, nel titolo IX del nuovo codice (artt. 322 – 347) rubricato “Disposizioni Penali”.

    Tuttavia, anche se la riforma non contiene alcuna modifica degli strumenti di contrasto al crimine economico è evidente che il nuovo codice presenti una novità molto importante, destinata ragionevolmente a cambiare, forse da subito, le strategie illecite dell’imprenditore disonesto e dunque il concreto atteggiarsi dei futuri delitti di bancarotta.

    Il legislatore ha preso infatti le mosse dalla constatazione del diffuso e gravissimo ritardo con cui le imprese, in questi anni, hanno avuto accesso alle procedure concorsuali.

    E’ fatto dolorosamente notorio che oggi i fallimenti siano procedure per lo più inutili, costose e di frequente chiuse per mancanza di attivo da ripartire. Quanto ai concordati, spesso i piani proposti dall’impresa prevedono percentuali di soddisfacimento dei creditori minime, se non irrisorie o si basano, nel caso della cosiddetta “continuità”, su irrealistiche previsioni di futuri flussi reddituali che, in assenza di assets prontamente liquidabili, dovrebbero consentire il pagamento dei debiti pregressi. 

    In sede penale, il ritardo nella dichiarazione di fallimento, o nell’accesso delle imprese al  concordato, fa sì che le indagini sui reati fallimentari si svolgano a distanza di mesi, se non di anni, dalla commissione dei fatti di bancarotta oggetto di accertamento.

    Ecco perché il nuovo codice ha messo in primo piano, fra i doveri del debitore di cui all’art. 3 del codice, quello della “tempestiva rilevazione dello stato crisi”, necessaria affinchè l’imprenditore assuma “senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte” anche attraverso l’adozione di un idoneo assetto organizzativo ai sensi del novellato art. 2086 del codice civile.

    Ecco perchè l’obiettivo di una tempestiva emersione dell’insolvenza e della crisi, è perseguito nel codice attraverso il complesso sistema (Titolo II del Codice) delle “Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi” che, come detto, rappresentano l’aspetto veramente innovativo della riforma.

    La composizione (il tentativo di soluzione concordata) della crisi è affidata ad un organismo  istituito presso le Camera di Commercio cui pervengono le segnalazioni della crisi di impresa o da parte del debitore, a ciò incentivato anche con importanti misure premiali, o da parte dei creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate,  I.N.P.S. e agente della riscossione) al superamento di prestabilite soglie di esposizione debitoria, o da parte degli organi di controllo societari, del revisore contabile e delle società di revisione.

    L’attenzione degli interpreti è ovviamente concentrata sui tanti aspetti problematici della nuova disciplina, sia pure nella concreta speranza che la stessa vada a incidere in maniera virtuosa sui comportamenti e sulle scelte degli imprenditori, indirizzandoli verso un tempestivo e “leale” utilizzo degli strumenti di composizione della crisi d’impresa.

    Personalmente ritengo invece importante volgere ancora per un attimo lo sguardo indietro, per chiedersi: il tema della tempestiva emersione dell’insolvenza era stato ignorato o sottovalutato nell’impianto dell’attuale legge fallimentare? In altri termini: le misure di allerta riempiono un vuoto legislativo o vanno a sostituire strumenti che già esistevano ma che, per qualche motivo, non hanno funzionato?

    E se è così, cosa esattamente non ha funzionato?

    2. I sistemi di allarme ante litteram presenti nella Legge Fallimentare del 1942

    Si può partire da un dato. L’art. 217 L. F.  (che vivrà nell’art. 323 del nuovo codice) punisce a titolo di bancarotta semplice l’imprenditore che ha aggravato il proprio dissesto “astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento”.  Se pensiamo al fatto che solo la dichiarazione di fallimento interrompe il decorso degli interessi legali o convenzionali (art. 55 LF), si può dire che quasi sempre a un ritardo nella dichiarazione di fallimento consegue un aggravamento della situazione debitoria.

    Dunque il legislatore aveva già nel 1942 ben presente l’importanza di una tempestiva rilevazione dell’insolvenza in primis da parte dello stesso debitore, solo che all’epoca decise di usare nei confronti dello stesso solo “il bastone”, criminalizzando la sua inerzia, mentre nel nuovo codice è contemplata anche “la carota” sotto forma di variegate misure premiali per l’imprenditore che accede senza ritardo agli strumenti di composizione della crisi.

    Il legislatore del 1942, saggiamente, non ha fatto esclusivo affidamento sulla spontanea adesione da parte degli imprenditori al suddetto precetto, sia pure penalmente sanzionato, né ha lasciato che l’emersione della crisi d’impresa fosse rimessa alla decisione dei creditori di promuovere, a seconda del loro interesse particolare, istanza di fallimento piuttosto che di proseguire le azioni esecutive individuali nei confronti del patrimonio del debitore. 

    Ha invece attribuito il potere di iniziativa fallimentare anche ad un soggetto pubblico, privo di interessi patrimoniali propri da tutelare, ossia il Pubblico Ministero, onerandolo (art. 7 della Legge Fallimentare) di promuovere istanza di fallimento ogni qual volta l’insolvenza dell’imprenditore risultasse nel corso di un procedimento penale.

    Nel medesimo articolo di legge ha previsto che il Pubblico Ministero attivasse il suo potere di iniziativa fallimentare anche sulla base di segnalazioni provenienti dal Giudice Civile, con ciò affidando anche a quest’ultimo il compito di “sentinella dell’insolvenza”.

    Dunque nel piano del legislatore del 1942 l’insolvenza dell’impresa avrebbe dovuto, nella normalità dei casi, emergere con tempestività: o per ammissione dello stesso imprenditore, o per l’iniziativa dei creditori o nel corso di cause civili e procedimenti penali, conseguenza indefettibile di ogni crisi imprenditoriale.

    Ed allora, posto che il sistema di allarme c’è anche nella vigente legge fallimentare, l’approccio ai nuovi strumenti di allerta non può prescindere, a mio parere, da una riflessione tesa a capire perché quel piano non abbia funzionato, ossia il motivo per cui la magistratura si sia dimenticata di svolgere il ruolo che la legge fallimentare le aveva assegnato.

    La risposta più immediata  è che l’analisi dei presupposti per la segnalazione della insolvenza (da parte del giudice civile) o per l’istanza di fallimento (da parte del Pubblico Ministero) costituisce, soprattutto in assenza di specializzazione, di apposite dotazioni informatiche e di facile accesso alle banche dati, un appesantimento significativo del lavoro quotidiano, percepito come insostenibile in realtà giudiziarie già impegnate in via ordinaria di un soverchiante numero di affari.

    Credo tuttavia di non sbagliare se dico che in ben pochi Tribunali e Procure d’Italia, anche quelli meno gravati, il problema del ruolo dei magistrati nella emersione dell’insolvenza sia stato oggetto di una qualche attenzione e soprattutto abbia ispirato modifiche all’organizzazione interna, circolari, protocolli eccetera.

    E allora forse la vera spiegazione è un’altra, ed è di natura culturale: di fronte ad una impresa in difficoltà, il magistrato vive l’iniziativa fallimentare pubblica come una sorta di accanimento, istintivamente assume un atteggiamento conservativo nei confronti di una realtà aziendale che percepisce composta, almeno in parte, di persone incolpevoli che lavorano e la cui sopravvivenza dipende, almeno nell’immediato, dalla prosecuzione della attività commerciale.

    Peccato che fissare lo sguardo sulla vicenda particolare, in questo caso, sfochi la vista sul quadro generale.

    Andrebbe infatti tenuto sempre presente che in assenza di una tempestiva instaurazione di procedure concorsuali, l’impresa in crisi assume solitamente decisioni lesive per la garanzia dei creditori; quasi sempre ai danni dell’insuccesso imprenditoriale si sommano pertanto quelli derivanti dalle illecite condotte dell’imprenditore, e questi danni tendono poi a colpire i soggetti più deboli e meno garantiti, a volte messi in ginocchio dal mancato recupero delle proprie spettanze e costretti a loro volta al fallimento. 

    E purtroppo non è tutto qui: gli imprenditori più furbi e disonesti hanno imparato a programmare e utilizzare ai propri fini, spesso all’interno di logiche di gruppo, le crisi di impresa e le procedure concorsuali, accumulando debiti – soprattutto verso l’Erario e gli Enti Previdenziali – per autofinanziarsi e alterare i meccanismi della concorrenza. 

    Lasciare sul mercato una impresa che ha perduto il suo patrimonio per perdite (magari abilmente occultate con un bilancio falso) o addirittura un’impresa cd “criminale” – ossia un soggetto economico sta sul mercato da sempre in maniera slealmente competitiva, violando le normative civilistiche, fiscali e contributive – costituisce una grave mancanza di responsabilità posto che pregiudica la possibilità di sopravvivenza sul mercato delle imprese sane e rispettose delle regole.

    Insomma, questa sorta di “sindrome da plotone di esecuzione” che sembra affliggere i magistrati, impedisce loro di vedere che a morire, in questi anni, è stato il sistema economico nel suo complesso, ostaggio e vittima di condotte imprenditoriali illecite che si sono a tal punto diffuse da divenire “sistema” e regola distorta di fatto imposta a tutti.

    Ecco perché a prescindere da quello che sarà l’impatto delle procedure di allerta, è fondamentale che giudici e pubblici ministeri prendano consapevolezza del loro ruolo e delle loro responsabilità, comprendendone a pieno l’importanza proprio a salvaguardia della tenuta complessiva di un tessuto socio economico che, a parole, tutti vorremmo vitale e pronto a premiare quella competitività sana (basata sul rispetto delle regole) che è peraltro il principale interesse del consumatore.

    3. Il ruolo del Pubblico Ministero nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza

    Un cosa a questo punto va detta chiaramente: le nuove disposizioni del Titolo II del Codice sulle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi – basate come accennato sulla imposizione di obblighi di segnalazione a carico di soggetti qualificati - non sono pensate come sostitutive del compito assegnato alla Autorità Giudiziaria in tema di tempestiva emersione dell’insolvenza, ma vanno piuttosto ad aggiungere un nuovo canale di emersione pronto, in ogni momento, a cedere il passo all’intervento pubblico. Il comma 9 dell’articolo 12 del nuovo codice prevede espressamente, infatti che: “la pendenza di una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza disciplinate dal presente codice fa cessare gli obblighi di segnalazione di cui agli artt. 14 e 15 e, se sopravvenuta, comporta la chiusura del procedimento di allerta e di composizione assistita della crisi.

    Peraltro l’art. 12 comma 4 e 5 del nuovo codice prevede una cospicua lista di esclusioni soggettive dall’applicazione degli strumenti di allerta, non applicabili ad esempio alle grandi imprese, ai gruppi di imprese di grandi dimensioni e alle società quotate.

    In maniera del tutto coerente a questo disegno, il nuovo codice amplia notevolmente il potere di iniziativa del Pubblico Ministero in relazione al ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale prevedendo, al primo comma dell’art. 38, che il suddetto possa presentarlo “in ogni caso in cui ha notizia della esistenza di uno stato di insolvenza” dunque anche senza quello specifico collegamento, formale o sostanziale, con il procedimento penale richiesto dall’attuale art. 7 L.F..

    Allo stesso modo, il secondo comma dell’art. 38, prevede che “l’autorità giudiziaria che rileva l‘insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al Pubblico Ministero". Colpisce anche in questo caso come il legislatore abbia utilizzato i termini più generici e onnicomprensivi che aveva a disposizione (ci si riferisce ad “autorità giudiziaria” e “procedimento”) allo scopo di coinvolgere l’intero sistema giustizia nel perseguimento dell’obbiettivo.

    Nella relazione illustrativa del nuovo codice si legge, con riferimento al richiamato art. 38, che la disposizione “restituisce centralità al ruolo del p.m, coerentemente con il ruolo attribuito a tale organo nelle procedure di allerta”; tale passaggio veicola il messaggio consolatorio che qualcuno o qualcosa abbia voluto spogliare il p.m. del proprio ruolo, mentre è di tutta evidenza che l’art. 7 della legge fallimentare, in vigore da più di settant’anni, sia caduto nel dimenticatoio per le ragioni che prima ho cercato di delineare.

     

    4.Le procedure di allerta e il Pubblico Ministero.

    Quando il nuovo codice entrerà in vigore il Pubblico Ministero sarà ai sensi dell’art. 22 il destinatario, e non potrebbe essere altrimenti, delle segnalazioni di stato di insolvenza provenienti dall’Organismo di composizione della crisi di impresa (OCRI) e più precisamente dai collegi designati dal medesimo alla trattazione delle singole vicende imprenditoriali. In buona sostanza, tale segnalazione dovrebbe essere la conseguenza necessaria dell’eventuale fallimento dei tentativi di pervenire ad una soluzione concordata (con i creditori) della crisi d’impresa qualora, ciò nonostante, l’imprenditore non si determini a presentare  domanda di accesso ad una procedura concorsuale.

    Va rilevato che tale segnalazione segna il primo momento di coinvolgimento della autorità giudiziaria nella concreta vicenda imprenditoriale posto che, in precedenza, il Pubblico Ministero rimane all’oscuro finanche dell’esistenza della procedura di composizione della crisi presso l’OCRI, e che tale procedure è caratterizzata, nei limiti del possibile, da accorgimenti volti a garantirne la riservatezza e la confidenzialità.

    Ai sensi del secondo comma dell’art. 22 “Il Pubblico Ministero, quando ritiene fondata la notizia di insolvenza, esercita tempestivamente, e comunque entro sessanta giorni dalla sua ricezione, l’iniziativa di cui all’art. 38 comma 1”

    Di tale disposizione vanno a mio parere sottolineati due aspetti.

    Il primo è che la norma fa esplicito riferimento ad un potere di valutazione da parte del Pubblico Ministero della “notizia di insolvenza”, non esplicitato nella norma a carattere più generale di cui all’art. 38 del nuovo codice, così come non lo era nell’art. 7 della legge fallimentare.

    In altri termini l’art. 22 sembra concedere spazio logico giuridico ad una sorta di “archiviazione per infondatezza” della segnalazione di cui la norma generale non parla, ad esempio, con riferimento alle segnalazioni del giudice civile o per quelle che nel nuovo regime arriveranno al P.M. da qualsiasi autorità giudiziaria. Il che peraltro appare anche incongruo rispetto al fatto che le segnalazioni di cui all’art. 22 proverranno da un organo qualificato che ha avuto modo di conoscere in maniera particolarmente penetrante le ragioni e le dinamiche della crisi d’impresa oggetto del suo intervento.

    Il secondo aspetto da rilevare, strettamente connesso al primo, è che la norma invita il P.M. ad esercitare i suoi poteri tempestivamente ed addirittura gli assegna un tempo massimo di 60 giorni per presentare la sua richiesta di apertura della liquidazione giudiziale.

    Con tutta probabilità l’attribuzione anche al P.M. di un termine ultimativo è figlia della preoccupazione, da parte del legislatore, che le procedure di composizione della crisi si traducano  in uno strumento dilatorio, utilizzato dalla imprese per prendere tempo piuttosto che per trovare concrete soluzioni alla crisi.

    Questa novella legislativa, tuttavia, porta a riflettere ancora sulla doverosità e sui tempi  dell’esercizio da parte del P.M. del suo potere generale di iniziativa fallimentare (ancora per diciotto mesi, possiamo usare questo termine), che come si è visto, a differenza di quello derivante dalla segnalazione di insolvenza dei collegi OCRI, non trova nel nuovo codice alcuna ulteriore disciplina.

    Ritengo, per parte mia,  che l’art. 22 citato contenga principi validi in ogni caso di segnalazione di insolvenza: il Pubblico Ministero è libero di valutarla e di decidere autonomamente sulla sussistenza dei presupposti della insolvenza, ma è poi obbligato a richiedere il fallimento senza indugio laddove tali presupposti siano da lui riscontrati (si pensi all’evidenza di una società con grave squilibrio fra attivo e passivo che sia già in liquidazione o che comunque abbia di fatto interrotto l’attività di impresa).

    Di certo, una volta entrato in vigore l’art. 22, il Pubblico Ministero sarà tenuto, entro 60 giorni, onde evitare concreti profili di responsabilità, a depositare ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale o ad emettere un provvedimento motivato nel quale spieghi adeguatamente per quale motivo ritiene non sussistenti i presupposti dell’insolvenza.

    Non è escluso che proprio quest’ultima previsione legislativa, in definitiva, sia in grado di stimolare negli uffici di Procura quel rinnovamento culturale, e l’adozione di quelle misure organizzative, che consentano ai singoli magistrati del Pubblico Ministero l’esercizio corretto e tempestivo delle loro prerogative in tema di controllo di legalità sulle dinamiche del sistema economico, favorendo ad un tempo il ripristino di reali meccanismi di concorrenza sul mercato, l’efficacia della attività investigativa sul crimine economico ed il recupero di dignità ed efficienza delle procedure concorsuali.  

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