GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Emergenza Covid-19, carceri e diritto alla salute

    Emergenza Covid-19, carceri e diritto alla salute 

    Intervista a  Davide Galliani.  

    di Michela Petrini     

    La situazione di emergenza determinata dalla pandemia è ancora attuale. Ogni giorno vengono comunicati dalla protezione civile e commentati dai mass- media  i dati relativi al numero dei contagiati, dei morti e dei guariti, ma non sembra che vi sia particolare attenzione alla situazione sanitaria nelle carceri, secondo lei quali sono le ragioni di questo silenzio?  

    La scena “carcere” nel Faust di Goethe – la più antica di tutta l’opera, composta quando l’autore, appena ventenne, fu testimone della tragica fine di Margherita Brandt – inizia con queste parole, pronunciate da Faust mentre sta per entrare nella cella di Margherita: “Mi penetra, da tanto non più provato, un brivido; tutta l’umana miseria mi stringe (…). Il tuo esitare è la sua  morte”.

    Lei mi chiede quali sono le ragioni del silenzio sul problema pandemia in carcere. La risposta più sincera e più giuridica che riesco a darle è questa: abbiamo smesso di provare i brividi che provoca l’umana miseria, e non comprendiamo che esitare significa morire.

    Esiste nella nostra testa un maledetto muro, che impedisce di pensare al mondo ristretto come pensiamo al mondo non ristretto. Sto parlando di pensare al carcere, non delle soluzioni da prendere. Ma è evidente che se la premessa è giusta (il carcere non abita Marte, il carcere in fondo siamo noi), allora le soluzioni sono conseguenti. Soluzioni che possono essere differenti, alcune più giuste di altre, alcune più sbagliate, come sempre del resto. Quello che non possiamo sbagliare è il punto di partenza: ed è esattamente il nostro grande errore, se vogliamo individuare il motivo del silenzio al quale lei accenna nella domanda.

    Vorrei aggiungere una riflessione. Tutti abbiamo nella  testa questo maledetto muro. I politici, salvo alcune rarissime eccezioni. La protezione civile, che però non ho idea se abbia autonomia  nella scelta dei temi sui quali relazionare. Le chiedo e mi domando: il giornalismo esiste ancora, se intendiamo l’arte di provocare, far riflettere, indirizzare? A me sembra che il giornalismo italiano viva un periodo di decadimento. Cosa aspetta un giornalista a chiedere della questione carcere e pandemia al presidente del consiglio, al ministro della sanità, al responsabile della protezione civile, al direttore dell’Istituto superiore della sanità, al presidente della regione, all’assessore alla sanità regionale, al sindaco? Il muro è presente anche nella mente dei giornalisti. Il carcere non può diventare una notizia solo dopo le rivolte, le morti, i contagi. Non è questo il senso del giornalismo: chi racconta l’accaduto fa cronaca, per la quale spesso bastano le immagini; il giornalista è lì pronto a torchiare il potente di turno, a tartassarlo di domande che disturbano. Il giornalista accomodante non è un giornalista, che deve invece dare fastidio, e se è bravo prescrivere più che descrivere.

    Troppi giornalisti ammiccano, ridono quasi compiaciuti dopo le risposte che ricevono. Non fanno bene il loro mestiere: devono spremere, quasi interrogare il potente di turno, come fossero i pubblici ministeri dell’informazione e il potente di turno l’imputato di turno. Il giornalista ha l’obbligo di essere scomodo: il bravo pubblico ministero ha fiuto, arriva dove sente che qualcosa non torna, è per definizione scomodo; il giornalista più o meno la stessa cosa: non deve pensare a quello che il potente di turno dice, ma a quello che non dice, alle cose dette e non dette, deve leggere tra le righe, con intelligenza e giusta curiosità. Che non è la curiosità idiota (del tipo dove taglia i capelli il presidente del consiglio), ma quella sensibile, attenta, direi quasi investigativa. In fondo, il giornalista assomiglia al giurista: come diceva Salvatore Satta, giurista è colui che dice di no, e mi sembra che si possa tranquillamente estendere questa definizione anche al giornalista.

    I giornalisti bravi esistono. I discorsi che generalizzano meglio evitarli. Ma per quanto sia sbagliato estendere il ragionamento, sul banco degli imputati bisogna metterci pure i giornalisti. Meglio, il sistema dell’informazione (se sistema è la parola esatta), che assegna ad uno dei più bravi giornalisti italiani, che si occupa da sempre di carcere, la miseria di 700 battute per dire non una ma tutte queste cose: che qualche procuratore ha deciso di dare un freno agli arresti, che c’è stato il quarto morto per il virus nelle carceri, che si sono verificati tre suicidi in quattro giorni sempre nelle carceri, carceri nelle quali ci sono una quarantina di positivi tra i detenuti e più di 150 tra gli agenti della penitenziaria e, infine, che stanno ripartendo le rivolte. 

    Questo capoverso che ho appena scritto è di 700 battute. A lei sembra normale che nello stesso spazio il giornalista possa fare (bene) il suo mestiere, vale a dire informare sui temi elencati? Povero giornalista, povero giornalismo, poveri noi. Il giornalismo, come le carceri, sono lo specchio del grado di civiltà di un paese.

    Alla sua domanda si potrebbero dare anche molte altre risposte. Da giurista sento dentro tutto il dramma del carcere perché non ho mai pensato al carcere in modo diverso da come penso alla vita di tutti i giorni. In tanti oggi (forse) iniziano a pensarsi detenuti: il “passeggio”, avanti e indietro, contando i passi, appena fuori da casa (dalla cella), la “ora  d’aria” (a volte dieci minuti, come accade in carcere), il vetro divisorio (lo schermo del cellulare che ci separa dai nostri cari). La reclusione, come momento di privazione della libertà, non è mai stata così diffusa come oggi, eppure  non c’è niente da fare: al carcere non si pensa, il carcere tra i nostri pensieri (se viene) viene per ultimo.

    Nessuno è al sicuro finché non lo saremo tutti, ha detto un membro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In quel tutti ci sono davvero tutti, non tutti tranne alcuni. Se non mettiamo tutti al sicuro, ciascuno di noi rischia. Se non riusciamo a capirlo altrimenti, perché alla umana miseria uno o ci pensa o non ci pensa (fino a quando non gli tocca da vicino), un pizzico di pragmatismo utilitaristico potrebbe aiutarci: “conviene a tutti pensare al carcere” è una delle frasi più azzeccate quando riflettiamo sul carcere, e oggi è una frase azzeccatissima. Pensare al carcere fa sempre bene, significa pensare a noi stessi. Se cala il silenzio, cala il silenzio anche su noi stessi.

     

    In questi giorni diverse sono le riflessioni che vengono svolte, anche all’interno della magistratura, in ordine alle misure da adottare per scongiurare il rischio che il contagio si diffonda negli istituti di pena. C’è chi ritiene che i detenuti siano più al sicuro in carcere che fuori e chi, invece, propone di far accedere alla detenzione domiciliare anche  coloro che devono ancora scontare una pena non superiore a tre anni. Qual  è la sua opinione?

     

    Da quando è scoppiata la pandemia sento dentro fortissime due sensazioni. La prima: va bene pensare, ma va ancora meglio fare qualcosa. Mettiamola così: pensiamo operativamente, se proprio non riusciamo a fare niente di concreto. Dobbiamo avere coraggio, per una benedetta volta  nella vita pensare anche agli altri e non solo a noi stessi. Solo un fesso in questo periodo non ha paura. Ma il punto è far derivare dalla paura dei momenti di concentrazione, individuare degli obbiettivi e fare di tutto affinché si possano realizzare.

    Un esempio: se si pensa alla detenzione domiciliare ma solo con braccialetto elettronico non si fa scattare quel disperato bisogno odierno di pensare operativamente. Prima recuperi i braccialetti, li testi, ti assicuri che funzionino. Poi, dopo, modelli il residuo di pena per i domiciliari con braccialetto. Non ho mai amato i braccialetti, ma oggi me li faccio andare bene, se esistono e non rimangono una parola sulla carta.

    La seconda sensazione: mi trovo quasi sempre a difendere l’indifendibile. In ogni campo, in tutti i campi. Il braccialetto è un esempio. Ma ce ne sono tanti. Obbligo di uscire di casa con la mascherina perché così dice un’ordinanza regionale? Il sindaco che con un’ordinanza lancia i droni per vedere in quale supermercato vado a comprare il pane? Potrei proseguire per pagine, con buona pace di Leonardo Sciascia (quanto manca oggi).

    Mi trovo a difendere l’indifendibile anche rispetto al carcere. Bloccare ogni colloquio tra detenuto e famigliare, ogni attività rieducativa, la sorveglianza dinamica? Anche qui l’elenco dei blocchi è lungo. Ma non cambia la sostanza: se voglio proteggere la salute e la vita del pianeta carcere (direttore, agenti, detenuti), che significa anche proteggere noi stessi, devo difendere queste misure indifendibili. Un secondo dopo, cerco di usare la bilancia, per riequilibrare il piatto, per ristabilire giustizia, che se non è ragionevole non è mai giustizia. Ti nego di vedere tua moglie o tuo figlio per due mesi? Invece di una telefonata di dieci minuti ne potrai fare due di venti minuti. Non puoi più fare alcuna attività rieducativa? Va bene, mi decido a far entrare in carcere una valanga di libri. Non posso più farti stare fuori dalla cella di giorno, allora mi impegno affinché tu possa avere a disposizione, nella cella,  molto più di quanto normalmente puoi avere. Non faccio il direttore di carcere, ma sono sicuro che esistono direttori che hanno mille idee a proposito.  

    Non finisce qui. Che facciamo se non si riesce a garantire l’isolamento sanitario a chi in carcere accusa anche solo un sintomo (oggi in Lombardia se hai la febbre a 37.5 devi isolarti in casa, così dice un’ordinanza regionale). Ci giriamo dall’altra parte e pazienza? Voglio dirle questo. Stiamo capendo che le RSA si dovevano blindare prima e che questo avrebbe evitato tragedie. Non solo delle persone dentro, ma di tutti noi, perché il virus si muove sulle gambe delle persone ed è stato portato dentro ma anche fuori, mettendo a repentaglio un numero sempre più ampio di persone. Questo è il focolaio che non riesci a controllare. Vi è un unico modo (certo) per evitarlo: evitare ogni entrata e uscita da una RSA, come hanno compreso quelle persone che, in modo coraggioso, hanno deciso di chiudersi dentro con i propri pazienti, proprio per tutelarne al massimo la salute e la vita e così anche quella dei loro cari. Con le carceri non è molto differente. Dire che le carceri sono oggi luoghi sicuri è dire una fesseria. Ma certo è che tenendo in isolamento sanitario i nuovi giunti e limitando al massimo i contatti con l’esterno, noi facciamo del bene ai detenuti e quindi a noi stessi. Il problema è però che per fare l’isolamento sanitario in carcere serve allentare la popolazione detenuta, altrimenti gli spazi non esistono, finiremo con avere reparti di isolamento sanitario sovraffollati. Il che è assurdo, rasenta quel reato del quale sentiamo parlare in questi giorni, che è punito anche con il fine pena mai.

    Sto cercando di rispondere alla sua domanda. Abbiamo tutti letto la storia della portaerei Roosevelt. Il comandante ha implorato i vertici della Marina di far sbarcare i suoi uomini, a decine contagiati. Una portaerei non può garantire né l’isolamento sanitario né il distanziamento sociale. Mi sembra di sentire il direttore di un carcere, che dice al ministro, al capo del DAP, al magistrato: va bene blindare il carcere, ma se non esce qualche detenuto non sono in grado di organizzare gli isolamenti sanitari. Fateli uscire, al pari di fateli sbarcare. La risposta alla sua domanda è quindi un ossimoro: sono giuste da fare entrambe le cose, blindare il carcere, allentare la popolazione detenuta.

    Spetta alla politica adottare le misure emergenziali migliori. E le devo dire, a proposito, una cosa: quello che più mi preme è che non rimangano sulla carta. La magistratura di sorveglianza non ha  poteri sovrannaturali, inutile sparare numeri di quanti ne escono, senza riflettere prima su quanto oggi riesce a fare la magistratura di sorveglianza (e per quanto di competenza le procure). Non amo gli automatismi, e questo perché amo il mestiere del giudice. Mi batto contro gli orribili automatismi perché difendo il bellissimo mestiere del giudice, direi del magistrato. L’idea di fare uscire una persona senza il vaglio della magistratura non riesco a digerirla.

    Detto questo, si può anche ampliare la platea degli ipotetici destinatari della detenzione domiciliare di emergenza (fino a 24 mesi, per alcuni, anche di più, per altri), ma se non si hanno i mezzi per farvi fronte sono solo belle parole, propositi scritti nel libro dei sogni. Altro che indulto mascherato, altro che resa dello Stato alle rivolte: sono e saranno solo fascicoli che si accatasteranno uno sopra l’altro, il che, in situazione di emergenza, è ciò che non deve accadere. Ha fatto bene il Procuratore Generale della Cassazione a dire che l’istanza può essere avanzata anche dal pubblico ministero. Cerchiamo ora di evitare che le pigne di fascicoli diventino montagne, il che significa  ragioniamo anche su ciò che serve alla sorveglianza per fare bene il proprio mestiere. Se i rinforzi non arriveranno dall’alto o dal fianco, cerchiamoli dal basso, in quel IV comma dell’art. 68 dell’ord. pen., introdotto per rispondere alla valanga di istanze dopo la sentenza Torreggiani.

    Venendo al merito, lei tenga conto che più o meno su 500 detenzioni domiciliari concesse oggi, quelle in base all’art. 123 del “cura Italia”, appunto la detenzione domiciliare di emergenza, saranno (se va bene) una trentina. Del resto, cosa dovrebbe pensare un magistrato? Il governo approva per le carceri una misura dichiaratamente emergenziale. All’atto pratico, però, non si riesce ad usare quella misura, per mille motivi.

    Ha senso dare una detenzione domiciliare in attesa della disponibilità del braccialetto elettronico? Ha senso escludere una platea gigantesca di detenuti, quelli dell’art. 4 bis ord. pen., tutto l’art. 4 bis, non solo la prima fascia, che già da sola contiene una ventina di reati? Qualcuno si è preso la briga di contare quanti sono i detenuti ostativi? Non voglio allarmare nessuno, ma un paio di anni fa l’allora Vice Capo del DAP disse che le persone a giudizio per reati in astratto ostativi erano 33.000. In ogni caso, a fine 2019, i detenuti per 416 bis erano 8.000. Sempre a fine anno 2019, i detenuti non definitivi erano 20.000. Approviamo una misura emergenziale ed escludiamo in partenza la metà dei detenuti, ostativi e non definitivi? Che forse la pandemia si arresta a seconda del titolo di reato o della posizione giuridica del detenuto? Questo penserà un magistrato.

    Se conta la salute, se conta l’emergenza, possiamo calibrare la salute e l’emergenza a seconda non della pericolosità di oggi, concreta e individuale, ma in base al titolo di reato, magari commesso nello scorso secolo? Proviamo a essere sinceri: la salute e di rimando la vita di una persona possono dipendere dal tipo di reato commesso? Non si dica che non esiste il problema salute, che non esiste il problema vita, perché è lo stesso governo ad aver previsto delle misure emergenziali proprio per tutelare salute e vita dei detenuti…di quelli che, non ostativi, hanno avuto la fortuna di avere una sentenza di condanna definitiva!

    Questa è la mia risposta alla sua domanda. Da una parte, è giusto blindare il più possibile le carceri, ma, dall’altra parte, si deve procedere con le detenzioni domiciliari, perché altrimenti il rischio è quello di blindare un luogo che comunque esploderà. L’allentamento della popolazione detenuta deve esserci, con il vaglio della sorveglianza, per la quale forse è bene fare qualche che possa derogare alla impossibilità di recarsi in tribunale se non scaglionati, anche perché da remoto non può fare moltissimo.

    Cosa fare di altro? Tamponi a tutti gli agenti della polizia penitenziaria e a tutti i detenuti, direi anche a quelli che non hanno sintomi, visto che anche gli asintomatici possono essere veicolo di diffusione del virus. I tamponi non si fanno nemmeno ai medici e agli infermieri asintomatici, che senso ha farli alla polizia penitenziaria e ai detenuti? Il senso è chiaro: dato che il distanziamento sociale in carcere è impossibile (lo sarebbe con la metà dei detenuti rispetto ai posti regolamentari, 25.000 su 50.000), l’unica cosa che possiamo fare è controllare quotidianamente la presenza del virus nelle carceri. E, se fossimo un paese responsabile, il tampone lo fai a chi entra ma anche a chi esce dal carcere: non mi sembra una pazzia, certo non deve bloccare il lavoro della sorveglianza, che qualcuno da qualche parte ci pensi.

    Inoltre, inizierei seriamente non a pensare ma a progettare la disponibilità di luoghi nei quali far scontare l’isolamento sanitario a tutti i detenuti che accusano sintomi. L’immagine dei film americani, nei quali si vedono detenuti palestrati e in perfetta forma, non rappresenta la realtà italiana. I detenuti li abbiamo noi in custodia, noi come Stato dobbiamo custodirli: chi lo ha detto che l’isolamento sanitario debba per forza avvenire in un carcere, nel momento in cui il carcere non è in grado di garantirlo per tutti coloro che ne hanno bisogno? Prima che sia troppo tardi. Esitare potrebbe avere conseguenze devastanti.

     

    Con delibera del 26 marzo 2020  il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato un parere sul decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (cd. decreto cura Italia) e, con riferimento alla materia penitenziaria,  ha sottolineato le criticità della “nuova” detenzione domiciliare rispetto all’istituto disciplinato dalla  legge  199/2010. Ritiene che si tratti di aspetti della normativa emergenziale che meritino un approfondimento e/o una modifica in sede di conversione?

     

    Sono tanti gli aspetti critici. I braccialetti, per esempio. Sapendo che non ne esistono molti, i giudici usano la legge 199. E fanno bene. A volte, però, la prognosi di pericolosità ha bisogno dei domiciliari con braccialetto, ma non essendoci i braccialetti ecco cosa succede: il detenuto resta parcheggiato in carcere, con un bel provvedimento che gli dice che può andare ai domiciliari, ma che non viene eseguito dalla polizia penitenziaria finché non arriva il braccialetto. Una follia, non della penitenziaria, non del giudice, ma del legislatore.

    Per il resto, le esclusioni previste dal “cura Italia” vanno comprese. Ad esempio, coloro che hanno partecipato alle rivolte e per questo sono stati destinatari di un rapporto disciplinare. Ci sarà chi dirà che sono organizzate, altri che i protagonisti sono poveri cristi, che hanno saccheggiato le farmacie delle carceri, alla ricerca di metadone. A conti fatti, non mi sento di criticare l’esclusione prevista dal “cura Italia”. Se fosse stata un’esclusione generalizzata per ogni detenuto destinatario di un rapporto disciplinare sarei stato molto critico. Lo sappiamo che se un detenuto mette in atto uno sciopero della fame, perché la sua detenzione è inumana, può anche essere oggetto di un rapporto disciplinare? Non dico di premiarlo, ma certo è che arrivare ad un rapporto disciplinare mi sembra troppo, anche perché le conseguenze sono pesanti (sulla liberazione anticipata, sulla misura alternativa e via dicendo). Non di meno, l’esclusione, nel caso dell’art. 123, è mirata, pertanto accettabile.

    Vi è poi il problema dell’art. 4 bis. Oltre a quanto detto prima, resta pur sempre la possibilità del differimento della pena ai sensi dell’art. 147 c.p., che non ammette preclusioni di sorta, proprio perché la salute e la vita non possono essere precluse in base al tipo di reato. Spetterà allora al magistrato e al tribunale valutare salute e pericolosità, non in astratto, ma in concreto, anche considerando l’emergenza sanitaria e tutte le sue conseguenze. Non esistono casi predefiniti, esiste la cura del magistrato, che, di fronte al detenuto con questa o quest’altra patologia, cercherà di comprendere la gravità della situazione, in quel penitenziario, rispetto a quella persona. Come in altri casi, avremo magistrati-medici, visto che dovranno consultare ad esempio i pareri dell’Istituto superiore di sanità per capire quali persone sono più esposte a rischio contagio e salute e vita.

    Braccialetti, preclusioni e altro ancora. Nel complesso, il parere del CSM è sicuramente un buon parere. Mi fa alquanto specie, non di meno, sentire alcune dichiarazioni di consiglieri. Sono anni che mi occupo di carcere e spesso mi sono domandato: non avrei forse fatto di tutto, se fossi stato un detenuto, violenza a parte, per far capire in quali condizioni si è costretti a vivere in carcere? Arriva la pandemia e arrivano le rivolte. E noi cosa facciamo? Ragioniamo come se la detenzione domiciliare di emergenza assomigli ad una concessione ai rivoltosi. Imbarazzante. Chi pensa che io giustifichi la violenza non ha capito niente. Quello che contesto è il ragionamento di chi dice che lo Stato non deve cedere dopo una rivolta. Primo, perché la responsabilità penale è individuale (come detto, nel “cura Italia” si escludono sia coloro che hanno avuto un rapporto disciplinare per le rivolte e, allargandosi un attimo, chi ne ha avuto uno in precedenza per casi di rivolte o insurrezioni); e, secondo, perché “non cedere alle rivolte” lo può dire, senza imbarazzo, uno Stato che ha fatto di tutto per evitarle quelle rivolte. Chi non ha mai fatto niente per l’umanità delle carceri dovrebbe semplicemente fare una cosa: lasciare perdere il discorso attorno al cedimento dello Stato, perché il primo a non rispettare la Costituzione nelle carceri è esattamente lo Stato. Esiste una gigantesca e limpida differenza tra il giustificare le rivolte e il dire che erano più che prevedibili. Esiste una grandissima differenza tra il giustificarle e il comprenderle. Comprendere non significa giustificare, e certo non significa cedere, che diamine!

    Ci siamo già dimenticati del signor Torreggiani, che di notte non poteva nemmeno dormire alzando le ginocchia, perché altrimenti dall’ultimo piano del suo letto a castello avrebbero toccato il tetto della cella? Non voglio fare alcuna polemica. Il ministro della giustizia  non si chiama Marco Pannella, il ministro della giustizia del governo in carica ha compreso che chi si è rivoltato con la violenza si è auto-escluso da ogni possibilità di domiciliare di emergenza, ma ha anche compreso che noi abbiamo il dovere di diminuire la popolazione detentiva, senza alcuna paura di essere accusato di stare dalla parte dei rivoltosi o di cedere ai rivoltosi. Mi si conceda una battuta, un solo sorriso in mezza a tanta ansia e smarrimento: non avrei mai pensato di difendere l’attuale ministro della giustizia! 

     

    Un numero considerevole di detenuti non ha un domicilio idoneo dove poter eseguire la detenzione domiciliare: quali potrebbero essere, a suo avviso, le misure da adottare per limitare, almeno in questa fase di emergenza, il sovraffollamento nelle carceri? La “ via di Strasburgo” per affrontare il problema è necessaria e  fino a che punto può essere utile?

      La stragrande maggioranza dei detenuti italiani non ha evaso le tasse ed è passata da una villa ai caraibi alla stanza di una cella. La stragrande maggioranza dei detenuti italiani entra in carcere da una situazione molto complicata. Senza considerare che villa o sobborghi non fanno alcuna differenza quando ragioniamo sul numero “agghiacciante” (questa la parola usata nella sentenza Torreggiani) di detenuti che sono in attesa di sentenza definitiva di condanna.

    Iniziamo quindi con il dire che in carcere ci sono molte persone la cui pericolosità può essere tenuta a bada altrimenti. Lo dice, sintetizzo io, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione: non va mai dimenticato, soprattutto in un momento come questo, che il carcere è la ultima misura da prendere, non la prima. Semplificando: chiediamo la custodia cautelare in carcere solo quando non esiste altra misura. Perfetto, non fa una piega, sempre la Costituzione che parla. Vale per il futuro, ma è una sorta di presa d’atto del passato: abbiamo ingolfato le carceri quasi come se non avessimo più la capacità di avere coraggio, adottando altre misure cautelari. Da questo punto di vista, mi auguro che il governo inizi a fare qualcosa per i detenuti in attesa di sentenza di condanna definitiva.

    Lei domanda anche in merito alla questione del domicilio. Il “cura Italia” prevede la detenzione domiciliare di emergenza solo in presenza di domicilio effettivo e idoneo. Direi che il domicilio è un problema anche di altre misure, non emergenziali: dalla detenzione domiciliare classica a quella in deroga, fino al differimento della pena con richiesta di detenzione domiciliare.

    I problemi sono molti. Provo a dirne alcuni. I detenuti senza fissa dimora, in Italia, non sono molti, qualche centinaio. Sono migliaia e migliaia i detenuti che non hanno un domicilio effettivo e idoneo. Non è facile individuarli prima dell’intervento del magistrato. Mi spiego con un esempio. Nel fascicolo di tizio la dicitura domicilio appare quasi sempre compilata. In teoria, la persona ha un domicilio. Il problema è che, nel momento in cui il magistrato deve valutare la detenzione domiciliare, ha il compito di comprendere se quel domicilio è effettivo e idoneo. Di solito, il compito è affidato agli uffici dell’esecuzione penale esterna, ma nel “cura Italia”, per velocizzare la procedura, la competenza è della polizia penitenziaria, che poi relaziona al magistrato. Un immobile abbandonato e occupato, per esempio, non può essere un domicilio effettivo e idoneo. Mettiamo il caso che il domicilio indicato sia l’abitazione della madre, della sorella, del fratello o di altri parenti. Nel momento in cui si oppone un rifiuto, il magistrato non può certo dichiarare quello un domicilio effettivo e idoneo. Sono migliaia i detenuti per i quali il carcere rappresenta tutto ciò che hanno, e ogni volta piango quando penso a quell’ergastolano isolano che potrebbe sicuramente uscire ma non fa domanda al magistrato, perché fuori non ha nessuno e dentro almeno insegna agli altri come si fa un formaggio.

    Se noi ci fermassimo qui, è chiaro che sarebbe una tragedia. Chi conosce la popolazione detenuta sa benissimo, come dicevo prima, che non passa da una villa alla cella, ma spesso dalla strada alla cella. Per questo esiste un sistema grazie al quale si mettono in opera tutta una serie di soggetti che hanno proprio il compito di cercare e garantire un domicilio effettivo e idoneo. Dal direttore del carcere agli uffici dell’esecuzione penale esterna, dalle aziende di assistenza socio-territoriale alle cooperative le più diverse, fino ai servizi comunali, ai volontari, alle associazioni e ai preti, che metto solo alla fine ma dovrebbero stare all’inizio. Questo mondo entra in contatto con il magistrato, il quale riuscirà a capire come affrontare la questione del domicilio effettivo e idoneo. Sembra facile, in realtà è complicato, in periodi normali. Il nostro paese ha un welfare accettabile o è in via di smantellamento progressivo e costante? Una fatica impressionante: trovare un domicilio effettivo e idoneo può essere una avventura senza fine, un fascicolo lo si mette da parte fino a quando non hai una riposta positiva, poco manca che il giudice elegga casa sua come domicilio.

    Immaginiamo tutto questo oggi, in situazione di emergenza sanitaria. Mettiamo anche che il sistema sia oliato, che normalmente tutto funzioni in modo adeguato, finanziamenti compresi. Oggi tutti capiamo una cosa: il rischio di trovare una porta chiusa è elevatissimo, anche perché chi esce da un carcere esce da un luogo nel quale, come abbiamo detto, il distanziamento sociale è impossibile.

    Potrebbero esserci diversi ulteriori problemi, ad esempio se l’idoneità del domicilio riguarda solo profili sostanziali (la presenza di una vittima) o anche profili catastali: la persona può essere mandata in un domicilio nel quale in due locali già vivono cinque persone, la moglie e i quattro figli? A me pare evidente che il problema è sostanziale, poiché, a fine pena, quella persona in quella casa tornerà. Di là di queste e di altre questioni, il punto dirimente è un altro: in emergenza sanitaria, è probabile che i casi di impossibilità di avere un domicilio idoneo ed effettivo si ripresentino uno dopo l’altro, in numero considerevole.

    Quante volte ci siamo svegliati a fare una cosa solo dopo che è intervenuta la Corte di Strasburgo? Moltissime volte, purtroppo. Ed il motivo è che non abbiamo veramente compreso che, nella stragrande maggioranza dei casi, prima di violare la Convenzione europea dei diritti umani una determinata disposizione legislativa o una specifica situazione concreta è in palese contrasto con la nostra Costituzione. D’altro canto, non ho idea se qualche magistrato di sorveglianza riuscirà a sollevare la questione di costituzionalità riguardante la necessaria presenza di un domicilio idoneo ed effettivo. Se anche fosse, non è certo facile immaginare un intervento della Consulta, considerando che le opzioni che si potrebbero prendere sono differenti. Staremo a vedere, ma non è tempo di moniti. Chiaro che la soluzione migliore sarebbe una: non chiedere ai giudici di intervenire al posto della politica. Ma resta il fatto che spesso non puoi sbattere in mezzo alla strada una persona, meno che mai oggi in piena pandemia. Noi a quella persona dobbiamo una risposta, senza dimenticare che se non ha un luogo nel quale andare la colpa è anche nostra, incapaci di prenderci cura di chi ha più bisogno.

     

    Proprio nel momento in cui gli Uffici di Sorveglianza sono maggiormente impegnati nell’esaminare le istanze di scarcerazione per alleggerire la pressione sulle carceri e cercare di gestire l’emergenza sanitaria, abbiamo assistito all’incendio dei locali dell’ufficio G.i.p. del Tribunale di Milano e poi al black – out  elettrico  nell’ufficio di sorveglianza. I problemi connessi a tale situazione e gli inevitabili ritardi nella trattazione dei procedimenti come potranno incidere sulle criticità della situazione all’interno delle carceri?

      Non ci voleva proprio l’incendio. Se lo racconti ad una persona normale, non ci crede: ma è possibile che nel 2020 un surriscaldamento elettrico in un tribunale italiano porti alla distruzione di un intero mezzo piano? Inoltre, stiamo parlando di luoghi nei quali i magistrati lavoravano in presenza. Il GIP per decidere chi mandare in carcere, la sorveglianza chi fare uscire. Una tragedia nella tragedia. Non ho molte informazioni, se non per quanto riguarda la sorveglianza. In pochissimo tempo, per via della inagibilità dei vecchi locali, si è costruita una sorta di sorveglianza da campo. Una decina di postazioni, avanti e indietro a prendere e riposizionare i fascicoli, e via! Una dimostrazione di attaccamento al proprio mestiere. Un plauso che prima di tutto va rivolto alla Presidente del Tribunale di Sorveglianza, ammiraglio al comando di una nave che rischiava di affondare.

    Detto questo, se il penale fosse il civile tutto sommato i problemi sarebbero meno. Il nostro penale, invece, compreso il nostro penitenziario, è fermo ai tempi della prima produzione di carta in Italia, al 1268. Corre tutto su carta e questo oggi è un grossissimo problema. I magistrati di sorveglianza possono fare da casa ben poco, se non portarsi i fascicoli e scrivere le sentenze o le ordinanze. Ma non puoi andare a prenderli con il trattore e portarne a casa una montagna. Di informatizzato e digitalizzato vi è ben poco. Vi sono poi le misure sul contenimento delle presenze in tribunale, di personale e di giudici. E poi vi sono anche i contagi che si sono verificati. Nessun maestro dell’orrore avrebbe potuto scrivere una sceneggiatura peggiore di questa, che però non è un film, ma il risultato di decenni di arretramento italiano, di politiche sorde alle grida di coloro che ogni giorno dicevano che andava digitalizzata anche la giustizia penale, che mancavano magistrati, cancellieri e personale. Se si fossero fatte alcune cose che andavano fatte ci sarebbero oggi più possibilità di non affondare. 

    Immaginiamo una macchina, che per trecento chilometri prosegue con una ruota bucata. Non trova nessun gommista per ripararla, e da solo il guidatore non riesce. Passano altri duecento chilometri e anche un’altra ruota si fora. Altri duecento chilometri e pure la terza gomma è fuori uso, ma il guidatore non può fermarsi, viene valutato per quanti chilometri percorre, della qualità del viaggio non importa a nessuno, purché arrivi. Oggi siamo vicini al collasso, vale a dire tutte quattro le ruote bucate. Se la macchina va avanti lo dobbiamo all’attaccamento al proprio mestiere dei magistrati, guidatori di una macchina senza ruote o con tre ruote bucate, il che non fa molta differenza.

    Anzi, me lo lasci dire. Non sarebbe affatto male se i magistrati riprendessero in mano quella grande cosa che esisteva tra i magistrati negli anni settanta del Novecento, vale a dire la solidarietà, il sentirsi ciascuno importante anche perché si era parti di un tutto. Lasciamo anche perdere le correnti, ma non possiamo lasciare perdere il senso di essere parti di un tutto. Chiediamo solidarietà all’Europa e va bene. Ma non dimentichiamo di usare noi stessi solidarietà, per prima cosa nei confronti di chi fa il nostro mestiere. Quando un magistrato oggi è in difficoltà trova solidarietà se si rivolge ad un altro magistrato? Ho già i miei problemi, scusami: magari esagero, magari sbaglio, ma quanto mi piacerebbe se dentro la magistratura si riuscisse a ristabilire un senso di appartenenza a qualcosa di più grande del singolo bellissimo mestiere di ogni magistrato.

    Conosco persone che stanno rischiando il posto di lavoro pur di poter continuare a fare il volontario del 118. Ho letto di medici che quattro giorni dopo la pensione non hanno esitato a ritornare in corsia. E che dire di quei medici che hanno preso l’aereo destinazione Africa? Sono solo degli esempi, ma dietro ad ognuno vi è la consapevolezza che conta molto anche il senso di essere parti di un qualcosa di più grande.

    Alla sua domanda, quindi, vi è una sola risposta: anche senza l’incendio, ogni aumento di carico di lavoro senza aumento di personale è motivo di ritardo, se poi aggiunge l’incendio e la pandemia è del tutto evidente che nessuno può fare miracoli. Speriamo che al ministero lo si comprenda. Riusciremo a colmare decenni di ritardo in qualche settimana? Intanto lodiamo i magistrati al fronte, e chiediamo a tutti gli altri di dimostrare concreta solidarietà.

     

    In questo momento storico diversi sono i temi sui quali riflettere ed aprire un confronto. Dalla pandemia al sovraffollamento nelle carceri, dalle sommosse ai detenuti morti, quanto valgono, oggi, le questioni giuridiche sottese e come affrontarle? Quali priorità individuare e come agire?  

    Non penso di essere in grado di rispondere a questa domanda. Posso solo abbozzare un mezzo ragionamento. Quello che mi auguro è che non si torni esattamente al punto dal quale siamo partiti. Quasi considerando la pandemia una parentesi. Dobbiamo tutti fare autocritica, abbiamo sopportato senza grandi proteste, non tanto e non solo tagli sempre più pesanti, ma soprattutto una cultura quantitativa che ci ha devastato. Lei accenna alle priorità: questa è la più importante nostra priorità.

    Sono stati costruiti ospedali con l’idea che un ospedale non serve per ricoverare un paziente. Se proprio devi entrarci, prima esci meglio è per tutti. I numeri, questi maledetti numeri, hanno trasformato la sanità in una sorta di catena di montaggio, che deve girare a mille. Ho vissuto con i miei occhi un ospedale nuovissimo, nel quale esistono quattro stanze per il pre-ricovero e un corridoio, per andare ai reparti, totalmente vuoto e deserto, che misura una cosa come 800 metri. Si potrebbe benissimo scrivere, fuori da questo ospedale: non siete i benvenuti. Se un paziente sta ricoverato non due giorni ma quattro è come se quell’ospedale entrasse nel girone dei dannati. Numeri, non pazienti, per dirla breve. Medici singolarmente ottimi, medicina nel complesso pessima. La stessa identica cultura ha pervaso la magistratura. Le sentenze sono prodotti e oramai la quantità e non la qualità è il metro di paragone per valutare un magistrato. Non voglio aggiungere altro, ciascun magistrato italiano capisce perfettamente quello che sto dicendo. E poi noi professori, noi della Università. Impantanati in una burocrazia mai vista prima, siamo elogiati a seconda di quanti studenti del primo anno si iscrivono al secondo. Ci applaudono quando sei studenti su dieci si laureano in tre anni, anzi riceviamo insieme ai complimenti anche i finanziamenti. Una deriva quantitativa che subiamo, che cambia il senso dei nostri mestieri, il medico, il magistrato, il professore.

    Le mi chiede quali priorità. Questa è la mia più importante, quella che più mi preoccupa e occupa. La pandemia non è terminata, ci siamo dentro ancora fino al collo. Mi auguro che medici, magistrati e professori sviluppino gli anticorpi necessari per resistere alla deriva quantitativa. Abbiamo abbassato il nostro sistema immunitario. Quante persone guariamo, quante persone imputiamo/condanniamo/assolviamo, quante persone esaminiamo/laureiamo non sono le domande giuste. La priorità è passare dal quanto al come.

    Non è importante il numero di detenuti morti durante le rivolte, quello che conta è come sono morti. Non è importante quanti sono i detenuti e quanti i posti regolamentari, così come non sono importanti quanti devono essere i metri quadrati a disposizione in una cella. Esistono carceri dove non esiste il sovraffollamento, esistono detenuti che hanno tutta la cella a loro disposizione: anche in questi casi è possibile che il senso di umanità non esista. Una persona vale una persona. Quello che mi auguro è che questa pandemia possa aiutarci a comprenderlo.

     

     

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