Emergenza dei profughi siriani, lontana dagli occhi, vicina al cuore.
Card.Francesco Montenegro
Nove anni di conflitto siriano hanno messo in ginocchio non solo un paese ma un’intera regione che oggi deve a fare i conti con milioni di profughi che premono ai confini dell’Unione Europea. La Giordania, la Turchia, il Libano si trovano a distanza di tempo ancora sotto il peso di un’umanità sospesa tra il desiderio di rientrare nel proprio paese e la necessità di trovare un luogo sicuro, lontano da un’area di crisi come quella medio orientale. Per questo lo sguardo è rivolto alla vicina Europa che in tanti cercano di raggiungere, in ogni modo, anche a rischio della vita.
Le immagini che ci sono giunte in questi anni, a partire dalla crisi migratoria del 2015, testimoniano non solo la difficile condizione di chi fugge dalla guerra, ma anche l’incapacità da parte della comunità internazionale di governare fenomeni complessi che richiedono invece lucidità e lungimiranza. Purtroppo, sembra che queste vengono a mancare, infatti le scelte adottate da diversi paesi, alcuni dei quali appartenenti all’Unione europea, pongono molti interrogativi, a partire da una corretta applicazione del diritto internazionale e dei relativi trattati e convenzioni.
Il caso ungherese è paradigmatico in quanto il paese magiaro, di fronte alla richiesta esplicita della Commissione Europea di aderire a un meccanismo di redistribuzione dei migranti giunti nel 2016 in Italia e in Grecia, in ossequio all’art.80 del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) relativo al principio di solidarietà tra Stati membri nel settore dei controlli alle frontiere, dell'asilo e dell'immigrazione, è apparso da subito riluttante. L’impressione è che la nozione generale di solidarietà non sia entrata a far parte del vocabolario giuridico di questo paese. L’Ungheria, infatti, ha risposto negativamente alla richiesta della Commissione, non accogliendo sul proprio territorio nemmeno un profugo giunto nel sud Europa ma, al contrario, ha predisposto delle barriere anti immigrati lungo i confini con la Serbia e la Croazia. Inoltre nel 2017 ha approvato una legge che prevede la detenzione obbligatoria di tutti i richiedenti asilo compresi i minori non accompagnati, per i quali è stata prevista la detenzione all’interno di container di metallo, in campi circondati da filo spinato, fino al termine del procedimento della richiesta di protezione internazionale. Si tratta di una palese violazione del diritto internazionale e dell’Unione Europea, secondo cui la detenzione di rifugiati e richiedenti asilo può essere giustificata solo sulla base di un numero limitato di ragioni, e solo se si considera necessaria, ragionevole e adeguata[1], mentre i minori non dovrebbero mai essere detenuti in quanto la detenzione non costituisce in alcuna circostanza il miglior interesse di un minore.
Sulla violazione di norme nazionali, internazionali ed umanitarie c’è anche il caso dei minori non accompagnati che vengono respinti dalla Francia verso l’Italia. Il ripristino dei controlli alle frontiere interne, deciso dal governo francese alla fine del 2015, in concomitanza con la crisi migratoria di quegli anni, ha avuto come effetto anche la violazione di norme a protezione dei minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo. Com’è noto, ai sensi del Regolamento Dublino e della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, i minori non accompagnati che presentano domanda d'asilo in Francia, non possono essere rinviati in Italia: a differenza degli adulti, infatti, ai MSNA non si applica il criterio del paese di primo ingresso. Nel caso in cui invece il minore non manifesti la volontà di presentare domanda d'asilo in Francia (spesso perché non adeguatamente informato di tale diritto), e venga fermato nella zona di frontiera, le autorità francesi potranno respingerlo in Italia. La normativa francese stabilisce però precise garanzie che devono essere rispettate nel caso di respingimento di un Msna: in particolare deve essere nominato un tutore provvisorio (c.d. "administrateur ad hoc") e il respingimento non può essere effettuato prima del termine di 24 ore (c.d. "jour franc"). Mi risulta che tali norme e garanzie vengono normalmente disattese dalla polizia di frontiera francese senza che si abbia un efficace intervento dell’autorità giurisdizionale.
È evidente, dunque, che il rapporto fra diritti umani e immigrazione è senza dubbio controverso, soprattutto in questa particolare fase storica in cui le nostre società stanno affrontando un’accentuata mobilità umana. Per comprendere questa difficile relazione ritengo sia necessario volgere lo sguardo al passato e tornare al dibattito che anticipò la stesura della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel secondo dopoguerra. Erano anni nei quali si avvertiva l’urgenza di trovare uno strumento giuridico “globale”, in grado di evitare quelle catastrofi umanitarie conseguenti a conflitti sanguinosi che avevano causato milioni di morti e altrettanti sfollati e profughi. Come si legge nel preambolo della Dichiarazione, si tratta di "barbarie che offendono la coscienza dell'umanità" e che giustificano per questo la costruzione di un percorso volto a trovare un terreno comune su cui consolidare le fondamenta dei cosiddetti diritti umani.
Se oggi l’idea di un diritto universale, ovvero valido per tutti gli uomini, è dato per acquisito, nei fatti però non è così. E non è stato così neanche nel passato, quando si è iniziato a lavorare alla stesura della dichiarazione dei diritti dell’uomo. Sul piano teorico e politico infatti non vi è accordo unanime circa la pretesa universalità dei diritti umani. Per questo motivo la necessità di trovare un loro fondamento è necessario se si vuole giustificarne non solo la loro universalità ma anche un ampio riconoscimento sul piano pratico. Su questo aspetto, però, sono molte le tesi avanzate e nessuna in grado di giungere a un fondamento che possa attribuire universalità ai diritti umani. Neanche il fondamento divino, così come si ritrova, ad esempio, nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America dove si legge che “tutti gli uomini sono stati creati uguali; che il Creatore li ha investiti di certi diritti inalienabili; che tra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Per alcuni critici, infatti, il limite di questo fondamento sta nel fatto che si ispira a una visione di Dio creatore che si ritrova solo in alcune religioni e non in altre. Questo farebbe venire meno il valore universalistico della dichiarazione dei diritti umani. Soprattutto gli antropologi hanno spesso respinto qualsiasi tipo di paradigma universalista, in quanto non essendo in grado di dare ragione della multiforme variabilità delle culture, queste difficilmente potranno riconoscersi in un unico sistema di riferimento.
Il rapporto dicotomico tra universalismo e relativismo culturale ha quindi caratterizzato nei decenni il dibattito intorno alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e in particolare su un aspetto: presentare come naturali e universali dei principi che scaturivano in un determinato contesto e periodo storico, peraltro su iniziativa e per mano solo di alcuni paesi, in particolare dell’area euro-americana. Inevitabilmente questo significava non considerare le differenze culturali, religiose e sociali dei diversi contesti in cui i diritti sarebbero stati poi “praticati”, con inevitabili conseguenze[2].
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nonostante il contesto in cui sia nata e le mediazioni a cui sia stata sottoposta, può essere comunque considerata come il desiderio di unificare il mondo prescrivendo linee direttrici che tutte le strutture governative dovrebbero osservare, in un percorso che scriverebbe un nuovo diritto naturale dell'umanità. Il rischio, però, è che vi sia lo scivolamento verso una vera e propria “religione dei diritti umani”, capace di trasformare un documento sui diritti soggettivi in qualcosa di ben diverso.
Certamente alcuni sforzi sono stati fatti, ma la questione rimane e si complica dovendo fare i conti con società globalizzate nelle quali l’incontro tra storie e culture molto diverse non sempre riesce a trovare una giusta sintesi a cui si vuole forzatamente giungere attraverso documenti o dichiarazioni internazionali. Peraltro, come abbiamo visto in premessa, gli stessi paesi che rivendicano la paternità della dichiarazione dei diritti dell’uomo o della più recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, si rendono poi responsabili della loro non applicazione. E questo appare più vero se riferito alle questioni migratorie. La sentenza con la quale la Corte Europea dei diritti umani ha condannato l’Italia nel 2012 ne è una testimonianza viva. La Grand Chamber ha stabilito, nel caso Hirsi Jamaa e altri contro Italia, che il respingimento verso Tripoli dei 24 ricorrenti (appartenenti a un gruppo di circa 200 persone, molti somali e eritrei come i ricorrenti stessi) operato dalle navi militari italiane, costituiva violazione dell'art. 3 (tortura e trattamento inumano) della Convenzione europea dei diritti umani, perché la Libia non offriva alcuna garanzia di trattamento secondo gli standard internazionali dei richiedenti asilo e dei rifugiati e li esponeva anzi ad un rimpatrio forzato.
Si tratta di un caso fra tanti che denuncia come la visione, per alcuni romantica, dei diritti umani si infrange contro politiche e prassi che poco hanno a che fare con la tutela dei diritti soggettivi delle persone. L’esternalizzazione delle frontiere, l’innalzamento di muri, la chiusura dei confini all’interno dell’Europa sono la testimonianza di un umanesimo mancato. Come dire che l’universalità dei diritti umani è subordinata agli interessi particolari degli Stati. Ci ricorda Papa Francesco: “Noi figli, di quel sogno (chiamato Europa), siamo tentati di cedere ai nostri egoismi e costruire recinti particolari”. Per questo motivo, continua il Santo Padre, “Sogno un’Europa in cui essere migrante non sia delitto bensì un invito a un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia”[3].
La vicenda dei siriani contro cui la polizia greca ha lanciato lacrimogeni nel tentativo di non farli entrare nel paese per esercitare il loro diritto alla richiesta di protezione internazionale o addirittura gli spari della guardia costiera greca contro dei gommoni carichi di profughi, ci ricordano come l’applicazione dei diritti umani sia spesso disattesa e non trova, malgrado tutto, un’adeguata attenzione neanche da parte degli organismi giurisdizionali.
Pensiamo alla norma che in Europa impone ai richiedenti asilo di rimanere nel primo luogo di ingresso, quello in cui presentano la richiesta di protezione internazionale (Regolamento Dublino)[4]. A queste persone spesso non viene data la possibilità di ricongiungersi con parenti o congiunti che si trovano in altri Paesi dell’Europa, così come previsto dallo stesso regolamento. Ritardi, inefficienze e talvolta mancanza di volontà sono i primi nemici di una corretta applicazione del diritto internazionale dei diritti umani che spesso, nella cultura giuridica, non viene purtroppo preso in giusta considerazione.
D’altronde, il positivismo giuridico è sempre apparso poco incline a utilizzare le norme internazionali prodotte in materia di diritti umani. Spesso si dubita della reale giuridicità di queste norme. L'esistenza di una norma di diritto internazionale generale che vincola gli Stati al rispetto dei diritti umani viene generalmente ammessa, ma non la sua applicazione in quanto considerata eccessivamente generica. Peraltro tali norme restano comunque in larga misura inefficaci dal punto di vista dell'effettività giuridica, in assenza di un'adeguata strumentazione istituzionale capace di garantirne l'applicazione a livello internazionale.
Penso, dunque, che l’immigrazione possa considerarsi un’occasione preziosa per cercare di costruire un modo di leggere da un punto di vista giuridico non formalista le norme di un particolare sistema dell'ordinamento giuridico internazionale, quelle del diritto internazionale dei diritti umani. In particolare, in un contesto dinamico e in costante divenire come quello attuale, attraversato da conflitti profondi e segnato da situazioni diffuse di crisi, dobbiamo riscoprire la forza del diritto internazionale dei diritti umani nella sua capacità di costruire un quadro di riferimento certo per la tutela giuridica e giurisdizionale dei diritti umani.
[1] Articolo 31, Convenzione del 1951 Convention; Articolo 18(1), Direttiva del Consiglio dell’Unione europea 2005/85/CE del 1° dicembre 2005 recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.
[2] Ernesto Galli della Loggia, I diritti umani “campo di identità” dell'Occidente? Convegno Storia, Politica e Religione - 25 ottobre 2004 “ll problema è che le altre culture, gli altri protagonisti della scena internazionale non credono che i diritti umani siano procedurali, e pensano viceversa che, come in effetti è difficile negare, siano frutto di una determinata cultura, e proprio di quella dell’Occidente. Quindi non vedono affatto nei “diritti umani” quella sorta di identità metanazionale di cui tutti potrebbero fruire, bensì molto spesso, e proprio nelle sedi internazionali, vedono in quei diritti uno strumento dell’imperialismo ideologico dell’Occidente. [...]”
[3] Discorso di Papa Francesco alla cerimonia di conferimento del premio Carlo Magno, maggio 2016
[4] REGOLAMENTO (UE) N. 604/2013 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 26 giugno 2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide.