IL VALORE DELLA MEMORIA
di Antonella Dell’Orfano
Confrontarsi con la memoria di mio padre e con la sua drammatica esperienza dei lager nazisti non è semplice, per l’assoluto riserbo che egli ebbe sempre, in famiglia, su tutte le atrocità di cui fu testimone nei lager nazisti, e perché non parlava volentieri della sua prigionia, non avendo mai aspirato, assieme a tanti altri che vissero la medesima tragica esperienza, ad essere giudicati degli eroi, ritenendo di aver fatto unicamente il proprio dovere, con dignità, in condizioni durissime, per libera e meditata decisione personale.
Aveva poco più di venti anni quando, giovane ufficiale, fu tra i protagonisti dell’episodio eroico della resistenza di Barletta.
Dopo l’8 settembre 1943 il suo presidio, di stanza a Barletta, si schierò a difesa della città dall’occupazione nazista con l’appoggio della popolazione civile.
Con grande sorpresa dei generali comandanti e dello stesso feldmaresciallo Kesserling, l'attacco alla città fallì per la strenua resistenza di questo piccolo gruppo di eroici soldati italiani che distrussero quattro carri armati, due autoblindo e fecero 150 prigionieri fra gli attaccanti; solo dopo due giorni di battaglia, di fronte alla minaccia dei nazisti di far saltare la città intera, mio padre ed i residui reparti, che, assieme al loro colonnello, si erano chiusi a difesa all'interno del castello, accettarono di arrendersi e vennero tutti deportati, preferendo i lager all’adesione al fascismo, mentre ebbe inizio la feroce rappresaglia nazista sulla popolazione civile con la fucilazione di dodici inermi Vigili Urbani, e l’episodio è tutt’ora ricordato come il primo atto di rappresaglia compiuto dai nazisti sul territorio italiano.
Visse quindi il trauma della cattura, della deportazione in carri bestiame, dell'impatto terribile con i lager, in Polonia ed in Germania.
E nei lager ebbe inizio la vera lotta, non solo per la sopravvivenza, ma contro l’adesione al nazifascismo, che era lotta contro se stessi, contro la fame, il freddo, gli stenti, le epidemie, la morte, la fortissima nostalgia di casa dopo la notizia del rientro degli aderenti.
A più riprese, infatti, durante tutti gli anni di prigionia, fu loro offerta la possibilità di arruolarsi con i nazisti o nelle forze armate della Repubblica di Salò; mio padre e l’assoluta maggioranza degli internati nei lager rifiutarono convintamente ogni forma di collaborazione, ben sapendo che, dinanzi ad ogni rifiuto, soprattutto degli ufficiali, i nazisti avrebbero aggravato ancora di più le loro tragiche condizioni.
Operarono una scelta cosciente, etica perché ispirata ad alti principi morali, ed eroica perché comportava il rischio della vita, pur partendo da condizioni disumane che avrebbero potuto essere cancellate con una diversa decisione.
Fu infatti una lotta bianca, senza armi, combattuta ogni giorno nelle condizioni che emergono vivide nei diari del suo colonnello, che descriveva “uomini ridotti, senza alcuna loro colpa, allo stato di esseri inferiori e sottoposti ad ogni specie di umiliazione e di privazione”, che “soffrono la fame i cui stimoli diventano sempre più tormentosi”, che “ hanno dovuto prima recuperare le briciole di patate rimaste attaccate alle bucce e poi divorare le bucce stesse ... messi nelle condizioni di frugare nelle immondizie come cani randagi e di precipitarsi sui mastelli del rancio per raccogliere, con le mani o col cucchiaio, gli avanzi melmosi della “sbobba”, che “dopo aver tutto ingerito, sono ancora portati a masticare e ad ingoiare saliva”, e che “neppure nel sonno possono trovare sollievo”, perché “ogni minimo loro atto diventa fatica”.
Le pagine dei magri quadernetti di mio padre, qualche mese prima della liberazione da parte delle armate russe, sono un quotidiano, tristissimo elenco dei compagni di prigionia caduti; nell’ultima riga, accanto al nome ed al cognome del compagno, scrive solo questo: “Aveva 26 anni, era un eccellente pianista, era mio amico”.
La vita di mio padre e dei compagni di prigionia era dunque freddo, fame e privazioni, ma anche resistenza ed enorme dignità.
Le parole di Giovanni Guareschi - o meglio, Giovannino, come lo chiamava mio padre -, suo compagno di baracca: ”Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà”.
E ricordava ancora: “Ognuno di noi si trovò improvvisamente nudo: tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado, bene o male guadagnati. E ognuno si trovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare".
Nel lager, in quella baracca un gruppo di giovani uomini, tra i quali intellettuali, musicisti, filosofi, persino un attore, tutti uniti da un obiettivo condiviso, far fronte comune per restare umani, con una disperata energia decisero così di dare vita ad una sorta di organizzazione culturale con “giornali parlati”, lezioni universitarie, conferenze di storia, di letteratura, di fisica, rappresentazioni di teatro e musica, infine con quel piccolo prodigio di ingegno e di astuzia che fu “Radio Caterina”.
Si trattava di una radio ricevente clandestina, costruita con materiale di fortuna, consistente in barattoli, grafite di matita, ecc., salvata innumerevoli volte, come raccontava mio padre, dalle perquisizioni degli aguzzini, arrivati quasi a distruggere i pavimenti, i tetti e le pareti della baracca alla ricerca della sfuggente radio, che, grazie alla sua prodigiosa smontabilità, veniva sempre nascosta e mimetizzata, persino in una gavetta, sotto scorze di patate.
In questo modo tutti i tentativi di scoprire Radio Caterina furono sempre elusi e per più di dodici mesi questa rappresentò la loro porta sul mondo, il filo di speranza necessario a lenire l’angoscia della prigionia agli uomini che, oltre a vivere in condizioni precarie, erano anche all’oscuro di ciò che accadeva fuori dal reticolato; riuscirono così a ricevere prima dei loro carcerieri e a diffondere tra gli altri prigionieri notizie da Radio Londra, Berlino, Parigi, e l’Italia dell'approssimarsi della liberazione ed infine l’annuncio dello sbarco in Normandia, il 6 giugno del 1944.
E c’è poi il ricordo commovente di un Natale in quella baracca, quando i compagni di prigionia ebbero la sorpresa di avere qualcosa in più della misera razione quotidiana; per molto tempo, dal piccolo tozzo di pane nero che gli veniva assegnato, mio padre, nonostante fosse già molto indebolito e provato nel fisico dalle lunghe privazioni, aveva infatti iniziato a toglierne una mollica ed a conservarla, ed a Natale la divise tra tutti i compagni per alleviare in piccola parte la loro sofferenza.
Questa è stata la principale lezione di mio padre, l’umanità e la solidarietà nonostante tutto, e di come l'uomo, anche nei momenti più cupi, spaventosi, disperati, possa trovare in se stesso la forza di sopravvivere perché, come scriveva Primo Levi, “la facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa anche in circostanze apparentemente disperate è stupefacente e meriterebbe uno studio più approfondito”.
Non ho mai sentito pronunciargli parole di vendetta, ma sin da bambina, gradualmente, senza alcun approccio traumatico, mi è stato detto cosa furono la Shoah, i genocidi, i campi di sterminio e mi è stato fatto comprendere il valore assoluto della libertà e del rispetto dei diritti umani, anche facendo ricorso alla letteratura (dalla sterminata biblioteca di mio padre non ricordo neppure più il numero di libri letti nel corso degli anni sui campi di sterminio e le persecuzioni, per citarne solo una parte dal Diario di Anna Frank, a L’amico ritrovato, dal Giardino dei Finzi Contini ai libri di Primo Levi), ai documentari e ai film perché tutto concorre alla ricostruzione e alla narrazione delle storie individuali e della Storia collettiva.
Mio padre amava molto Charlie Chaplin, con un piccolo proiettore casalingo mi fece vedere fin da bambina tutti i suoi film, ed uno in particolare, che tante e tante volte abbiamo rivisto insieme, costituisce forse il più grande insegnamento di tutta la mia infanzia ed adolescenza.
È indelebile in me (lo conservo, stampato, anche sul tavolo del mio studio, che fu quello di mio padre) il Discorso all’Umanità di Charlie Chaplin, che pronuncia alla fine del suo capolavoro assoluto, “Il Grande Dittatore”; un inno alla pace universale, gridando alla razionalità, implorando i soldati e gli uomini di difendere la libertà, non di minacciarla, che continua a commuovermi come allora per la bellezza, la forza, la strabiliante capacità di immaginare un mondo giusto.
L’educazione familiare ha indubbiamente influenzato il mio percorso di studi e professionale.
Scelsi senza esitazione di laurearmi in Diritto Penale Internazionale, con una tesi su “La repressione dei crimini contro l’umanità”, ed alla cerimonia di premiazione della Croce Rossa Italiana come miglior tesi di diritto internazionale umanitario, mentre illustravo i miei studi e le mie ricerche da Norimberga sino all’attualità, vidi forse per la prima volta mio padre, sempre così schivo e riservato, commuoversi, con gli occhi che brillavano.
I valori che mi sono stati trasmessi in famiglia sono stati riversati anche nella vita professionale, sentendomi onorata di poter contribuire ad essere custode della Costituzione, in cui punto di riferimento della società diventano le pari dignità di ciascuno, al contrario della discriminazione, punto di riferimento delle leggi razziali, ed ogni giorno mi confronto e traggo forza dalla storia di chi, come mio padre, è riuscito a sopravvivere all’inferno dei campi di dolore e di morte senza odiare nessuno, preservando la propria dignità umana e perseverando nel credere nella pace, nella giustizia e nel rispetto dei diritti umani.
Con immenso dolore assisto al progressivo affievolirsi della memoria dei lager e delle atrocità del nazifascismo perché i testimoni, nella stragrande maggioranza, sono scomparsi.
Eppure, la loro testimonianza silenziosa resta ed è più che mai necessario tenere vivo il dialogo tra le generazioni perché le radici del male non sono state estirpate, sono solo “emigrate” altrove.
Non è più possibile delegare ai sopravvissuti il compito di testimoniare “l’intestimoniabile”, l’orrore che supera la comprensione umana; adesso spetta a noi che rimaniamo, in prima persona, far sì che la memoria e il loro esempio nutrano la nostra umanità, alimentino solidi anticorpi di moralità che, unici e soli, possono fare da argine all’orrore, puntellino dentro ciascuno di noi solidi muri, che impediscano di assuefarci ai racconti dei genocidi e dei crimini contro l’umanità, e sviluppino il senso di responsabilità individuale, avendo ogni uomo innata in sé la capacità di reagire nei confronti del male estremo quando si presenta.
Perché il mondo intero è salvato nei piccoli atti compiuti dagli uomini “Giusti” nella propria quotidianità, nello spazio della propria libertà; perché, come recita il Talmud, “basta che esista un solo giusto perché il mondo meriti di essere stato creato”.