Diritto e società
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​Il processo ad Edipo. La sentenza di assoluzione di Pietro Curzio

Il processo ad Edipo. La sentenza di assoluzione 

di Pietro Curzio

Il processo simulato a Edipo re andato in scienza a Siracusa, (Agòn) a margine della rappresentazione teatrale della tragedia di Sofocle, suscita interesse notevole, per l’autore della sentenza, Piero Curzio, Primo Presidente della Corte di Cassazione e, a monte, per l’idea stessa di far passare da un’aula di giustizia, sia pure virtualmente composta dagli attori reali del processo – imputato (G.Sartori), difesa (M.Masi), testimoni (G. Piazza, M.Crippa) consulente tecnico (M. Ammaniti), accusa (G.Salvi) giudici (Pres.P.Curzio, Giudici L.Faraci, P. Borrometi, M. Valensise, G. Piccione) - una vicenda umana complessa, nella quale si intrecciano il diritto alla (ed il dovere di) verità, l’esperienza di un regnante per molti aspetti virtuoso dell’antica Grecia, il suo rapporto straziante con le relazioni familiari e con il popolo, le cui sorti il protagonista imputato prende su di sé come solo chi è al comando e sente il peso e la responsabilità del comandare e dunque di conoscere la verità (E. Stolfi, La giustizia in scena, 2021, Bologna, 190).

Un processo che si conclude con l’assoluzione dell’imputato, accusato primariamente di reati orrendi – il parricidio e la relazione incestuosa con la madre- materialmente commessi ma al tempo stessi non  voluti (M.Cartabia, Edipo Re, in M. Cartabia, L. Violante, Giustizia e mito, 2018, Bologna 61) e/o solo in  parte voluti (Stolfi, 340) ma per errore di conoscenza (Cartabia, 63) che dimostra plasticamente come il processo, come oggi lo intendiamo, non è l’unico luogo ove ricercare ed accertare la verità.

Di ciò è lo stesso presidente-estensore della sentenza a dare testimonianza vibrante quando riconosce la limitatezza del suo dictum, nel quale si apprezza  il decidere con espressioni nelle quali ogni parola è carica di un giudizio e per questo non richiede ampia esposizione, è essa stessa sentenza, chiara, precisa, puntuale, autorevole.

Sono questi, forse gli aspetti più sacri della decisione, anche quando è lo stesso dispositivo nel pronunziare l’assoluzione a ricordare, con la stessa forza, che “non i giudici, ma le donne e gli uomini di ogni tempo continueranno ad esprimere  su di lui giudizi ben al di là dei confini di un processo penale”.

In quest’affermazione c’è un mondo carico di suggestioni, nelle quali la verità è plurale, complessa, difficile da individuare pur se da ricercare in modo sfrenato (Stolfi, 196) al punto da confermare quanto attorno ad essa occorrano energie enormi per “inventarla”. 

La vicenda umana, politica e sociale di Edipo- al contempo legislatore, inquisitore e inquisito, imputato e  giudice (Cartabia, 41) è figlia della complessità che accompagna le cose dell’uomo. Complessità che conduce l’imputato seppure assolto a comminarsi autonomamente la pena- l’accecamento-  e ad esegurla( (Stolfi, 266).

Il processo penale non basta ad esaurire la vicenda umana e  storica di Edipo re.

La giustizia amministrata nei tribunali, per quanto evoluta, non può saziare i bisogni a cui intende rispondere…(Cartabia,47).

La sentenza Curzio su Edipo, re di Tebe, è dunque testimonianza autorevole di quanto la ricerca della giustizia assuma toni e rime plurali.

Una sentenza ragionevole e giusta ma che ha in sé il senso del limite nel suo operare.

Una sentenza scritta da un giudice che per la sua saggezza salomonica ciascuno avrebbe il diritto di pretendere, oggi e per sempre, quando dovesse invocare o attendere giustizia.

R.Conti

Sentenza

Imputato: Edipo, figlio di Laio, re dei tebani

La pubblica accusa contesta ad Edipo quattro reati.

Per i primi due (lett. A e B del capo d’imputazione: parricidio e incesto) i fatti sono pienamente accertati. Egli ha ucciso il padre Laio e ha sposato la madre Giocasta.

È tuttavia parimenti certo che ha agito senza essere consapevole che Laio fosse suo padre e Giocasta sua madre. Quest’assenza di consapevolezza emerge dai fatti narrati da Sofocle ed è così radicale che Edipo indaga a fondo alla ricerca del colpevole. La tragedia ha la struttura di un giallo. Edipo è l’inquirente e cerca gli indizi con una determinazione senza la quale non si sarebbe giunti alla comprensione dei fatti.

Il perito prof. Ammaniti ha scritto e detto parole molto chiare sul punto. La inconsapevolezza può dirsi accertata.

Il diritto penale è basato su di una regola generale, un principio di civiltà, che il nostro codice così espone: “Nessuno può essere punito per una azione od omissione prevista dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.

Non si commette il reato di incesto se non si è consapevoli che la persona con la quale si ha un rapporto sessuale è un ascendente o un discendente o una sorella o un fratello. Edipo certamente non sapeva che Giocasta fosse sua madre. Parimenti, non vi è parricidio se non si è consapevoli di uccidere il padre ed Edipo, quando uccise Laio, non poteva neanche immaginare che quell’uomo fosse suo padre.

Si potrebbe sostenere che pur non essendo un parricidio, quello commesso da Edipo è un omicidio, anzi un pluriomicidio. Ma la ricostruzione dei fatti, quale emerge dal racconto di Sofocle, è tale per cui, se è vero che Edipo uccide Laio e tutti gli uomini della sua scorta meno uno che riesce a fuggire, è altrettanto vero che non è stato lui a provocare, ma ha subito una violenza da parte di uomini armati ed in larga superiorità numerica. Ed infatti, il PM non ha contestato il pluriomicidio.

Il diritto attico dell’epoca, come spiega in un suo studio la prof.sa Cantarella, escludeva la punibilità del viandante che uccide perché assalito per strada in un’epoca i cui i viaggi erano perigliosi ed esponevano a forti rischi di subire violenze. In termini moderni si configura una situazione di legittima difesa, che comporta l’esclusione della punibilità quando chi ha commesso il fatto vi è stato costretto dalla necessità di difendere vita ed incolumità personale.

Il terzo reato contestato è di epidemia. Il nostro codice, come molti altri, punisce colui che “cagiona” un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni. Se il comportamento che cagiona l’epidemia è doloso, cioè con coscienza e volontà di determinare l’evento, la pena è massima, se è colposo la pena è minore ma comunque consistente. Mentre nell’ipotesi dolosa si vuole l’epidemia, nell’ipotesi colposa il comportamento che porta all’epidemia non mira a tale risultato ma lo determina per imprudenza, negligenza, imperizia o violazione di una specifica disciplina.

La tesi dell’accusa è che, uccidendo il padre ed avendo rapporti incestuosi con la madre, Edipo avrebbe scatenato l’ira degli dei, che avrebbero per tale motivo punito la città con la pestilenza.  Ma, come si è visto, ad Edipo non può essere ascritta una negligenza, una imprudenza o oltra forma di colpa perché quando compiva quegli atti non solo non sapeva, ma non poteva sapere di essere figlio di Laio e di Giocasta.

Inoltre, quegli atti dovevano essere in grado di “cagionare” l’epidemia, tra di essi e l’epidemia vi doveva essere un nesso di causalità. Un uomo moderno non può individuare la causa di un evento con una spiegazione basata sull’ira degli dei. È necessaria una prova scientifica. Edipo non può essere considerato responsabile perché non vi è prova adeguata che il suo comportamento abbia determinato la pestilenza.

Quanto, infine, al quarto capo d’imputazione, deve escludersi che egli abbia posto in essere una minaccia grave nei confronti di Tiresia al fine di costringerlo a rivelare il nome di chi uccise Laio.  

In realtà, nel dialogo tra Edipo e Tiresia, non vi è minaccia, tanto meno grave. Edipo supplica in ginocchio Tiresia, poi di fronte al suo atteggiamento ambiguo e reticente, lo definisce infame degli infami, poi ipotizza che sia d’accordo con Creonte, ma in nessun passaggio lo minaccia di un danno ingiusto e anche quando si spinge ad affermare che lui e Creonte la pagheranno cara, precisa “se non avessi l’aspetto di un vecchio l’avresti già imparato a tue spese”, escludendo in tal modo la minaccia di fargli del male. Del resto, il coro commenta l’alterco tra i due: “a noi sembra che abbiate parlato entrambi in preda all’ira”. Anche il reato di minaccia quindi non sussiste.

In conclusione, come ha scritto il perito prof. Ammaniti, “Edipo non è punibile avendo agito in uno stato di totale incoscienza vittima di un passato che lo ha profondamente segnato”.

La sua inconsapevolezza non solo è giustificata da una storia per lui inimmaginabile oltre che traumatica, ma viene superata grazie al suo impegno spasmodico nel cercare la verità. Senza quella sua ricerca la verità non sarebbe emersa ed egli sarebbe rimasto re ed eroe.

E quando alla verità infine giunge, Edipo assume su di sé la responsabilità di quelle tristi vicende, senza nascondersi dietro la volontà degli dei. Si autoinfligge le pene dell’esilio e dell’accecamento. Si priva degli occhi quando finalmente vede.

Nella sua parabola sono state lette tante cose. Il collegio giudicante non deve andare oltre il suo compito che è solo quello di verificare se sono stati commessi reati. E reati non sono stati commessi. 

PQM

la Corte assolve Edipo dalle imputazioni a lui ascritte. 

Non i giudici, ma le donne e gli uomini di ogni tempo continueranno ad esprimere su di lui giudizi ben al di là dei confini di un processo penale.

Sarà difficile negare che Edipo è colui che ha cercato, con ostinazione e senza infingimenti, di conoscere se stesso.

Ed è inorridito, perché, come Sofocle fa dire al Coro dell’Antigone, “molte le cose tremende, ma di tutte la più tremenda è l’uomo”.

Siracusa, 24 giugno 2022

Il Presidente estensore

Pietro Curzio

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