Diritto e società
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Il Cognome della Madre - Giustizia Insieme sulla Sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale. Editoriale

Il Cognome della Madre - Giustizia Insieme sulla Sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale. Editoriale 

1. Il lettore non giurista che, incuriosito dalle notizie di stampa sulla sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale sul cognome materno (Presidente Amato, estensore Navarretta), cercasse l’articolo di legge che stabiliva in via generale l’attribuzione del cognome paterno ai figli, scoprirebbe con sorpresa che tale norma, così come la immagina, non esiste in alcun testo di legge italiano. Eppure, nessuno ha mai dubitato che, in Italia - salve le limitate deroghe formalizzate, queste sì, negli articoli del codice civile che disciplinano il riconoscimento operato in successione dai genitori - il figlio nato da una madre e da un padre assuma, di regola, il cognome del padre.

Per giungere al risultato di cui tutti abbiamo letto nelle scorse settimane - e di cui sentiremo parlare ancora a lungo - la Consulta, infatti, dopo la dichiarazione di illegittimità del primo comma dell’art. 262 c.c., relativo all’attribuzione del cognome ai figli nati fuori dal matrimonio, avvalendosi del meccanismo estensivo previsto dall’art. 27 della legge costituzionale n. 87 dell’11 marzo 1953 ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma “desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”.

Paradossalmente, dunque, la regola del patronimico era tanto imprescindibile nel sistema italiano da non avere neppure bisogno di essere tradotta in norma scritta, pur costituendo il sostrato necessario ma implicito delle altre norme citate, relative alla attribuzione del cognome ai figli non matrimoniali ed ai figli adottivi.

Questa pervasiva immanenza della tacita regola è stata, peraltro, ad un tempo ragione, e conseguenza, della sua percezione non tanto come una scelta normativa, ma come una sorta di preesistente “fatto” naturale, con il corollario di essere necessariamente sottratta, in quanto tale, al dovere di coerenza con i principi costituzionali che grava su tutte le norme positive.

È per questo che la decisione della Corte si inscrive, a buon diritto, tra quelle che - mutuando il titolo da una serie di podcast realizzati dall’Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale - sono destinate a “cambiare la vita” dei cittadini italiani.

Neppure il Tribunale di Bolzano, autorità remittente, aveva infatti osato chiedere quello che la Corte ha poi realizzato: la questione sollevata innanzi alla Consulta aveva ad oggetto esclusivamente l’incostituzionalità del secondo periodo dell’art. 262 c. 1 c.c., norma applicabile al caso specifico sottoposto all’esame del giudice.

La Corte, invece, ha sollevato innanzi a sé la questione di costituzionalità delle ulteriori norme poi censurate ed ha alzato lo sguardo, o lo ha spinto oltre, e attraverso, la specifica norma sfidata di incostituzionalità, “smascherando” l’irrinunciabile scelta valoriale che rimaneva sullo sfondo, tanto scontata quanto ingiustificabile, una volta identificata come tale, per il sorprendente - oggi che è stato portato alla luce - stridente contrasto con i fondamentali principi di cui agli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale e, per il tramite dell’art. 117 primo comma, con gli artt. 8 e 14 CEDU, in ragione della escludente discriminazione ai danni della madre e della lesione della integrità della identità familiare del figlio che provoca.

Una discriminazione, ed una dimidiazione del patrimonio identitario costituito dal cognome - il nome che si aggiunge al nome proprio per definire l’appartenenza sociale - che la sentenza n. 131 porta alla luce con tanta lucidità e chiarezza da mostrarne in modo irrevocabile la natura oggettivamente odiosa.

Facendo un ulteriore passo, peraltro, si potrebbe in futuro ipotizzare anche di ridiscutere la compatibilità di un sistema che identifica pubblicamente l’individuo con il riferimento alla sua ascendenza familiare con gli emergenti diritti alla riservatezza; il cognome può, infatti, assumere un indubbio potere condizionante, che chi lo porta non ha scelto. Ciò rende possibile ipotizzare un conflitto tra identità familiare e sociale designate dal cognome e identità autoattribuita, tantopiù in un momento storico in cui anche l’identità di genere registrata alla nascita è oggetto di rinegoziazione in casi meno residuali che in passato. Si vedrà se tale questione, che non sembra essersi posta fin quando il cognome è stato soltanto quello paterno, emergerà ora che il cognome legale riporta entrambe le ascendenze. 

2. Per la portata della decisione, Giustizia Insieme ha scelto di dedicare alla sentenza n. 131 una intera giornata di pubblicazioni, offrendo ai lettori i contributi di analisi di tre Autrici ed Autori illuminati, che hanno affrontato con il rigore, la visione e la passione che gli sono propri le molte questioni che la Corte pone al lettore, all’interprete e, da subito, al legislatore.

Ciascuno dei contributi, complementari ma del tutto autonomi, affronta ed esamina la sentenza da un diverso punto di vista: Gabriella Luccioli ricostruisce il percorso delle decisioni che hanno, pezzo per pezzo, eroso il muro oggi abbattuto dalla sentenza n. 131, evidenziandone l’importanza rivoluzionaria e ricordando i pilastri valoriali sui quali si fonda. Michele Sesta, dopo un inquadramento delle disposizioni in tema di cognome del figlio incise dalla sentenza commentata, si spinge oltre rilevando ulteriori profili discriminatori tuttora non rimossi; Mirzia Bianca, ricordate le tradizioni in materia di matronimico e patronimico di alcuni paesi europei a noi culturalmente più affini, accende un faro sul ruolo della Corte costituzionale quale organo deputato al controllo e all'adeguamento della norma giuridica ai cambiamenti della società e del costume, in particolare in materia di diritto di famiglia, secondo l'applicazione del principio di effettività. Tutti gli Autori, infine, rivolgono un richiamo pressante al legislatore perché si occupi, urgentemente, in modo organico della materia, tantopiù in ragione della immediata applicabilità del nuovo regime emerso a seguito della pronuncia in commento.

Offriamo ai lettori questi contributi perché siamo convinti che il percorso di consapevolezza e di riflessione, non soltanto giuridica, che la sentenza della Corte ha innescato, sarà tanto più fruttuoso quanto più condiviso. E, infine, una nota: come hanno ricordato alcuni dei nostri Autori, oltre ad essere una sentenza storica, per tutte le ragioni che abbiamo sommariamente indicato, la sentenza n. 131 è bella, bella e intensa, ariosa e appassionante.

La abbiamo attesa tanto tempo, adesso godiamocela.

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