GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    ​Quaranta anni fa. 5 luglio 1982

    Quaranta anni fa. 5 luglio 1982

    di Paolo Spaziani

    Telespettatori italiani, buongiorno da Barcellona”.

    Così, alle 17.15 di quarant’anni fa, con la magica voce di Nando Martellini, cominciava un bellissimo sogno dove il verde-oro, allegro e brillante, sarebbe stato sopraffatto dall’azzurro, dapprima timido, indi spregiudicato, infine trionfale.

    Il verde-oro era sulle bandiere festanti che sventolavano da Plaça de Catalunya al Barrio Gotico, animando la Rambla e il vicino mercato della Boqueria; nelle ragazze di Bahia, di Belo Horizonte, di Rio, che danzavano sugli spalti del vecchio Estadio de Sarrià; nelle stelle che avrebbero illuminato il prato dell’Español: Zico, Falcao, Cerezo, Socrates, Junior. Tra queste, forse ancora più brillante delle altre, quella del bellissimo Eder Aleixo de Assis (corsa e sinistro irresistibili e una storia romantica di ragazzo maudit alle spalle) che dalla strada del Minais Gerais, era diventato l’idolo delle ragazze di tutto il mondo.

    L’azzurro, meno luminoso ma rasserenato da una crescente fiducia, era nei torpedoni tricolori che avevano percorso la Via Laietana e risalito la teleferica del Mont Juick; nei ventimila italiani che dalla Casa  Batllot, da Parc Guell e dalla Sagrada Familia, erano confluiti ordinatamente verso il vecchio stadio, che per una volta (forse l’unica volta) avrebbe sottratto la ribalta al superbo Camp Nou; nell’entusiasmo che in cuori intorpiditi ma ancora vivi avevano ridestato qualche giorno prima Tardelli e Cabrini, battendo vittoriosamente Fillol, il portiere campione del mondo; infine, nell’aroma del virile ma raffinato tabacco che avvolgeva l’incedere di un gentiluomo friulano: nel fresco, signorile portamento con cui - giacca sulle spalle, camicia moderatamente arrotolata, cravatta e occhiali da sole, pipa fumante in bocca - era entrato sul terreno di giuoco incandescente di trentacinque gradi, detergendolo con la sua eleganza.

    Dopo Bearzot, il padre, ecco i figli: Zoff, il maggiore, Gentile (ha appena ricevuto l’istruzione che dovrà marcare l’avversario più temibile, il funambolico Artur Antunes Coimbra, detto "Zico"), Scirea, Rossi (avrebbe voglia di piangere, non sa ancora che farà piangere il Brasile), Antognoni, Graziani (la spalla fedele, il silenzioso alleato di Paolino) e, infine, dopo tutti gli altri, timido, il più piccolo, che il vero papà ha perduto, ma ha trovato tanti fratelli, Beppe Bergomi (non sa ancora che dovrà giocare a 18 anni la partita del secolo senza ancora averne giocato alcuna, ma è pronto, come tutti).

    Brasileiro Sampaio de Sousa Vieira de Oliveira è il capitano dei verde-oro: è il volto pulito di una nuova generazione di brasiliani: è un calciatore ma è anche colto, sa di storia e di filosofia: lo chiamano “Socrates”; è un calciatore, ma è anche laureato in medicina; è un calciatore, ma è anche un attivista dei diritti civili e politici: nella sua squadra, il Corinthians, ha fatto scrivere sulle magliette una parola sinora vietata non solo in Brasile, ma anche in Argentina, in Cile, in quasi tutto il Sud America: la parola “Democracia”.

    Si giuoca a pallone, finalmente; si giuoca un calcio che, rivisto oggi, sa di tesoro perduto, di preziosi smarriti, di gioielli depositati da qualche parte, lontana, e lì dimenticati.

    Ecco, nell’ordine, i tesori contenuti nello scrigno.

    Dribbling secco di Conti su Eder; esterno sinistro a cercare Cabrini sull’altra fascia; traversone a rientrare in area (della serie: quando una volta ti insegnavano a crossare); colpo di testa di Paolino a spiazzare il portiere e a mettere la palla sul palo lungo: 1-0 per l'Italia.

    Fraseggio a metà campo tra Cerezo e Junior, palla a Zico; non si capisce come faccia: si libera di Gentile con un dribbling rapidissimo e funambolico e di destro accarezza la palla smarcando Socrates in area; diagonale da biliardo sul primo palo a trafiggere un incolpevole Zoff: 1-1.

    Rinvio di Valdir Perez sul proprio terzino; pallone a Cerezo che di piatto cerca un difensore centrale; scatto felino di Rossi a ghermire la palla tra Junior e Luizinho; collo pieno a bucare l’uscita del portiere: 2-1 per l’Italia.

    Avanzata elegante di Leovigildo Junior sulla sinistra; conversione al centro ed esterno destro per Falcao: Paulo Roberto ha la palla sul destro; finge di servire Cerezo, smarcatosi sulla fascia; la finta disorienta tutta la difesa e crea il vuoto dinanzi a Zoff; Falcao torna sui suoi passi, si porta il pallone sul sinistro (quel sinistro che non sapeva di avere) e di collo esterno  pareggia i conti: forse Zoff l’avrebbe presa se la coscia di Bergomi non l’avesse, quasi impercettibilmente, toccata; ma è un dettaglio: quella dell’ottavo re di Roma è una prodezza che si ricorderà finché esisterà il calcio: 2-2.

    Antognoni cerca un varco sulla sinistra e crossa trovando deviazione difensiva e calcio d’angolo; sul corner di Conti, prova il gran tiro a volo, dal limite, Tardelli; per qualche strano incantesimo la palla finisce ancora tra i piedi di Paolino, che sigla la sua tripletta: 3-2 per l’Italia.

    Paolino Rossi da Prato, uno dei più grandi centravanti che la storia del calcio ricordi, aveva cominciato a scrivere la propria quattro anni prima, in Argentina. Era una storia contraddittoria come quella del paese in cui veniva scritta, dove le urla disperate delle madri dei ragazzi gettati nel Rio de la Plata, poco oltre il maestoso delta del Paranà, tra Buenos Aires e Montevideo, si confondevano con i caroselli festosi dei tifosi che uscivano dagli stadi di Cordoba, di Mar del Plata, di Rosario.

    In una piccola parentesi felice costretta dentro quell’immonda disperazione, Paolino aveva ridimensionato la Francia, aveva sconfitto l’Ungheria, aveva raccolto la classe del tocco di Causio contro l’Austria, aveva sublimato il gioco più bello del mondo nel sontuoso triangolo con Bettega in una splendida notte nel cuore di Baires.

    Poi, tornato in Italia, aveva pianto anche lui per un’offesa ingiusta, un’ingiuria immeritata, che gli aveva tolto tre anni di calcio e forse più di vita.

    Ma, come il Sud America risorgerà a nuova vita anche grazie alla parola “Democracia” stampata sulle maglie della nuova generazione di giocatori simboleggiata da Socrates, anche Paolino ora risorge, e diventa (ora e per sempre) Pablito, colui che ha fatto tre gol ad un Brasile che forse non è la più forte squadra di tutti i tempi solo perché, dodici anni prima, un altro Brasile aveva cinque numeri 10 e uno dei cinque si chiamava Pelè.

    Paolino diventa, per la storia del calcio, “Pablito” intorno alle 18.30 del 5 luglio 1982, sul prato dell'Español, mentre il sole tramonta dietro Parc Guell, mentre il caldo afoso di Barcellona degrada in una fresca serata, mentre si illuminano le luci sulla Rambla, e tutta la Costa Brava si accende di un rosso scarlatto.

    Ma la partita non è ancora finita.

    Sulla tre quarti sinistra, l’israeliano Abraham Klein (che ha un figlio al fronte in Libano e ha arbitrato solo perché glielo ha chiesto lui, in una telefonata da Beirut) comanda un calcio di punizione per il Brasile. Sulla palla vanno Eder e il suo temibile sinistro. Il cross in area è perfetto (della serie: una volta sapevano crossare). Anche il colpo di testa di Oscar è preciso, all’angolino, forse addirittura imparabile.

    Per gli altri, ma non per Zoff, che si getta sul pallone con il peso dei suoi 40 anni e la sua immensa classe, bloccandolo a terra prima che varchi la linea del gol.

    Vi era stato, poco prima, anche un gol di Antognoni, da ricordare perché il nostro talentuoso numero 10 non potrà giocare la finale e avrebbe meritato che quel gol gli fosse assegnato, anche perché era valido; ma l’arbitro lo aveva annullato.

    A quarant'anni da allora, rinchiuso lo scrigno, resta la sensazione di aver vissuto qualcosa di meraviglioso: forse perché io e mia sorella avevamo 12 e 7 anni e avevamo accompagnato nostro padre, ispettore del tesoro, ad una missione alla cartiera di Fabriano, per tutto il mese di luglio; forse perché eravamo sicuri che l'Italia avrebbe vinto tanto da scommettere con tutti i colleghi del papà un gelato al giorno alla zuppa inglese di Otello, il cui profumo ancora mi sembra di sentire mentre si spande nel parco della bella cittadina marchigiana ove si trovava il suo bar.

    Dopo il fischio di Klein, mentre tutti si abbracciavano, rimanemmo incollati allo schermo del televisore che Otello aveva sistemato fuori dal bar, sui tavoli ordinatamente disposti al fresco del parco. Col cono in mano e la zuppa inglese gocciolante, prima che fosse chiuso il collegamento in Eurovisione, tra i momenti del post-partita ve ne è uno che non abbiamo mai dimenticato: il momento in cui, in mezzo al campo, quasi silenziosi tra le feste altrui, si abbracciarono Bearzot e Rossi.

    Non erano un allenatore e un giocatore; erano il padre e il figlio che si trovavano nel luogo in cui si erano dati appuntamento: orgogliosi il padre per aver creduto nel figlio e il figlio per essere andato oltre le stesse attese del padre. In quel “loro” momento non c’era più il Brasile, la partita, il Mundial. Questi erano accidenti che avevano lasciato il posto alla sostanza: c’erano solo loro due, il loro reciproco affetto, il loro bene: il loro essere figli di un mondo migliore, un mondo fatto di uomini.

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