Diritto e società
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​Esiste forse una guerra giusta? Riflessioni su guerra e diritto in Lev Tolstoj

Esiste forse una guerra giusta? Riflessioni su guerra e diritto in Lev Tolstoj*

di Giuseppe Guizzi

1. Il drammatico precipitare della crisi russo-ucraina ha riportato la guerra all’interno dei confini dell’Europa, e ci costringe a misurarci drammaticamente, toccandola con mano, con una realtà che all’indomani della devastante esperienza di morte e distruzione del secondo conflitto mondiale ci eravamo illusi di non veder più ripetersi, almeno su così larga scala, nel nostro continente. Non che eventi bellici non fossero prima d’oggi mancati, anche a causa - soprattutto negli ultimi vent’anni - della situazione di progressiva instabilità del quadro geopolitico, ma essi erano apparsi come fenomeni comunque estremamente circoscritti e localizzati, e in definitiva privi di un’incidenza immediata e diretta sulle nostre vite.

La guerra che si combatte ora senza esclusione di colpi, che ha tra i suoi bersagli persino la popolazione civile, assumendo così quella connotazione che fu uno degli elementi più largamente caratterizzanti la seconda guerra mondiale rispetto a ogni altro precedente conflitto, vede anche l’Italia, a suo modo, in prima linea, non solo per la convinta adesione alla politica delle sanzioni economiche adottata dalla comunità internazionale nei confronti della Russia, ma anche per la scelta di assicurare aiuto e sostegno militare all’Ucraina, seppure non attraverso l’invio dell’esercito bensì nella forma della fornitura e messa a disposizione di armi. Essa sollecita dunque inevitabilmente riflessioni, generando dubbi a cui nessuno può sottrarsi, meno che mai  il giurista, che dinnanzi a quanto sta accadendo è in particolare chiamato a interrogarsi su quale significato possa ancora riconoscersi  al principio che ai sensi dell’art. 11 della  nostra Costituzione, non meno che degli artt. 2.4 e 51 della Carta delle Nazioni Unite, ripudia la guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali, riconoscendo la legittimità solo di quella difensiva.

Del resto già nel recente passato, dinnanzi al rinnovato attivismo militare del nostro paese, seppur nel quadro di iniziative sempre assunte almeno sotto l’egida dell’Alleanza atlantica e in difesa di paesi ad essa aderenti, i più sensibili e attenti tra i costituzionalisti[1] hanno iniziato a chiedersi se non sia oramai in atto un processo, se non addirittura di definitivo superamento, certo di ridefinizione in via interpretativa di quel divieto, nel senso di un ampliamento delle ipotesi di «guerra non ripudiata». Un ampliamento che, nel tentativo di mantenere una qualche forma di coerenza con il dettato della norma, viene condotto ora giustificando la partecipazione a iniziative militari nel quadro degli obblighi assunti per effetto dell’adesione a trattati internazionali implicanti l’accettazione di limitazioni della sovranità,  ora, invece, provando a ricomprendere nel perimetro della fattispecie costituzionale oltre quella volta a proteggere l’integrità, non solo territoriale, dello Stato anche la guerra, in difesa dei valori di cui esso è portatore ed in cui si riconosce, ed in primo luogo dei c.d. diritti umani universali[2], ovunque essi siano annientati o negati con la forza dell’armi. Un’impostazione, questa, che finisce così quasi per postulare un recupero della antica concezione, risalente alla tradizione canonistica, che la guerra legittima sul piano dell’ordinamento giuridico, interno come internazionale, è ogni «guerra giusta», dunque quella dichiarata da una legitima auctoritas, condotta per una giusta causa e soprattutto iusto modo, ossia rispettando pur sempre un principio di proporzionalità tra mezzi impiegati e fini perseguiti[3].

Si tratta di domande e di interrogativi che agitano ogni coscienza, e a cui pur in assenza di una competenza specifica ratione materiae – ma mi soccorre la ferma convinzione che di fronte ai problemi fondamentali dell’esistenza umana tutti i giuristi indistintamente debbano far sentire la propria voce, non già perché in possesso di  più o meno arcani e misteriosi metodi bensì in quanto uomini che «meno distratti da altre cure» più si soffermano sui problemi della civile convivenza[4] - vorrei provare a dare risposta utilizzando la lente della letteratura, ed in particolare attraverso l’analisi di alcune pagine di Lev Tolstoj. Un approccio che mi sembra possa essere particolarmente proficuo in ragione di una altra mia salda convinzione, ossia che se l’artista è «un homme habitue à faire de son âme un miroir ou l’univers tout entier vient se réfléchir»[5], in ogni opera d’arte è allora possibile cogliere il più profondo e autentico significato della realtà che ci circonda. 

2. La scelta di affrontare il tema attraverso le pagine di Tolstoj è motivata non solo e non tanto da un’esigenza contingente, ovvero dal fatto che egli rappresenti, insieme con Dostoevskij, uno tra i massimi esponenti della letteratura russa di ogni tempo, sicché, costituendo le loro opere la più alta espressione del patrimonio spirituale proprio del paese che ha dato causa alla guerra in corso, viene naturale provare a chiedersi come esse debbano leggersi oggi[6] e quale contributo possano darci per comprendere il presente e la drammatica esperienza che stiamo vivendo.

Questa scelta trova la sua spiegazione anche e soprattutto nell’essere stato Tolstoj, tra gli scrittori della seconda metà dell’Ottocento, quello che più di ogni altro ha dedicato al tema profonde e meditate riflessioni, le quali oltretutto non si esauriscono nel suo più celebre romanzo, autentica espressione di un’epica moderna come si riconosce oramai concordemente dalla critica[7], in cui la contrapposizione tra la guerra e la pace campeggia sin dal titolo. Quelle riflessioni sono molto più diffuse, e se esse troveranno la loro più radicale espressione nella produzione saggistica della vecchiaia[8], quella caratterizzata dal recupero del messaggio cristiano delle origini[9] con il suo ripudio di ogni forma di violenza – una produzione che ha fatto del pensiero di Tolstoj uno dei principali punti di riferimento per i movimenti pacifisti e non violenti sviluppatasi nella prima metà del ventesimo secolo[10], e che si compendia, a livello narrativo,  in «Resurrezione», il grande romanzo pubblicato nel 1900, con il suo richiamo agli insegnamenti del Vangelo di Matteo e soprattutto al discorso della montagna – tuttavia non nascono con la profonda crisi  religiosa  iniziata nel 1878 e che impresse una svolta alla sua vita, anche artistica[11]. Quelle idee hanno radici ben più profonde. Si tratta, infatti, di  idee che si manifestano già in alcuni dei racconti pubblicati a partire dal 1855, in cui Tolstoj dà voce alle sue esperienze di vita militare, trovando una prima chiara espressione soprattutto nella raccolta dei Racconti di Sebastopoli[12] - dove si riflette quanto egli ebbe modo di osservare sul campo di battaglia durante la Guerra di Crimea, cui prese parte quale ufficiale di artiglieria - e che, dopo aver dato corpo all’ampio affresco di Guerra e Pace[13], trovano la teorizzazione probabilmente più compiuta, specie nella prospettiva del discorso che mi sono proposto di svolgere, nel libro VIII di Anna Karenina[14], pubblicato non senza polemiche nel 1877, allorché la c.d. questione d’Oriente deflagrò nella guerra russo-turca.

Si tratta di idee che Tolstoj ha, dunque, progressivamente maturato nel corso di un ventennio - ed è certo significativo che si tratti di un arco di tempo compreso tra due guerre che ebbero, ed in particolar modo la prima, ripercussioni profonde sulla società russa[15] - e che è allora di estremo interesse provare brevemente a ripercorrere.

3. Lungi dal poter essere classificata, come pure talora si è proposto, alla stregua di una «piccola guerra» - ma sempre ammesso che tale concetto sia legittimamente declinabile, giacché, come notava il duca di Wellington, una guerra non è mai affare di poco conto, sicché ad essa non si adatta una simile definizione -  la Guerra di Crimea, svoltasi  tra il 1853 e il 1856, che coinvolse alcune delle maggiori potenze dell’epoca ed in cui perse la vita oltre mezzo milione di uomini, ha invece costituito, come è stato scritto da chi più approfonditamente ha provato a indagarne le cause e lo svolgimento[16], ciò che si è avvicinato maggiormente, tra quelle napoleoniche e il primo conflitto mondiale, ad una guerra generale europea, ed ha anzi costituito,  per certi versi, la prima guerra moderna.

I tre Racconti di Sebastopoli, apparsi in sequenza su “Il Contemporaneo”, la principale rivista letteraria russa dell’epoca, tra il 1855 e il 1856 e dunque nel pieno del conflitto, possono essere considerati, per molti aspetti, come un vero e proprio reportage dal fronte, tanto vivida è la rappresentazione dei luoghi e delle dinamiche dell’assedio ai bastioni della città, sicché la guerra vi viene rappresentata da Tolstoj in tutta la sua crudezza, senza alcuna retorica o abbellimento, mettendone in luce soprattutto gli orrori.

In questa prospettiva è emblematico già il primo breve racconto, Sebastopoli nel mese di dicembre – fra i tre quello che ricevette i più convinti apprezzamenti, soprattutto per l’afflato intensamente patriottico che vi traspare nel finale[17], tanto che fu lo stesso zar Alessandro II ad ordinarne la traduzione in francese –, dove Tolstoj, nel tratteggiare i diversi angoli della città e gli scenari in cui si svolge il conflitto quali si presentano al visitatore che va alla ricerca della «immagine eroica dei difensori di Sebastopoli», indugia a lungo sulla descrizione dello spettacolo che si presenta a chi abbia i nervi forti abbastanza per addentrarsi nelle stanze della Consulta della città, dove è ubicato l’ospedale da campo:

«Vedrete là dottori con le braccia insanguinate fino al gomito e facce pallide, cupe, all’opera accanto a una branda, su cui a occhi aperti e pronunciando come in delirio parole insensate, talvolta semplici e toccanti, giace un ferito sotto l’effetto del cloroformio. I dottori sono intenti al compito rivoltante ma benemerito dell’amputazione. Vedrete un coltello affilato e ricurvo entrare nel bianco corpo sano; vedrete che con un grido terribile, straziante, e imprecando, il ferito rientra immediatamente in sé; vedrete l’infermiere buttare nell’angolo il braccio amputato; […] vedrete spettacoli terribili, che sconvolgono l’animo; vedrete la guerra, non nella sua forma ordinata, bella e brillante, con la musica e il rullo del tamburo, con le bandiere al vento e i generali caracollanti, bensì la guerra nella sua più schietta espressione: nel sangue, nelle sofferenze, nella morte»[18].

Se è dunque già con il primo racconto della trilogia che Tolstoj mette in luce, seppure sinteticamente, gli aspetti salienti di ogni confitto armato, è tuttavia soprattutto nel secondo, Sebastopoli in maggio, che egli non solo ne delinea il vero volto, ma avvia il processo di riflessione critica che lo porterà, negli anni della definitiva maturità artistica, a denunciare la contrarietà di tutte le guerre ad ogni legge e principio di ordine etico e a mettere a fuoco come la responsabilità del loro svolgimento non siano da ascrivere soltanto al principe, al sovrano o ai governi che di volta in volta le dichiarano, bensì a tutti coloro che si prestano a combatterle, spesso per la sola ambizione di ottenere una medaglia o una decorazione  e di scalare i gradini della carriera militare, sicché non sorprende che il racconto  abbia subìto, al suo apparire, pesanti interventi dal parte del comitato della censura zarista, che prima tentò di impedirne la pubblicazione su “Il Contemporaneo”, salvo poi dare il suo assenso ma imponendo tali manomissioni e tagli che ne alterarono completamente il significato[19].

Si tratta di aspetti che si colgono con chiarezza sin dal prologo del racconto, dove Tolstoj riflette non solo sul fatto che

«sono passati già sei mesi da quando la prima palla ha sibilato sui bastioni di Sebastopoli, facendo esplodere la terra nelle fortificazioni del nemico e da allora migliaia di bombe, palle e pallottole continuano incessantemente a volare dai bastioni alle trincee e dalle trincee sui bastioni, e l’angelo della morte non ha mai smesso di librarvisi sopra», 

ma anche sul fatto che

«la questione che i diplomatici non hanno risolta, non viene risolta neppure dalla polvere da sparo e dal sangue».

Riflessioni, queste, che lo inducono così provocatoriamente a osservare che

«se è proprio necessario che complesse questioni politiche sorte tra ragionevoli rappresentanti di altre creature dotate di ragione vengano risolte con le armi, allora siano solo due soldati a battersi, e uno assedi la città mentre l’altro la difenda. [….] Che differenza vi è, in effetti, tra un russo che combatte contro un rappresentante degli alleati e ottantamila che combattono contro ottantamila? E perché non centotrentacinquemila che combattono contro centotrentacinquemila? Perché non ventimila contro ventimila? Perché non venti contro venti? Perché non uno contro uno? Nessuna di queste cose è più logica delle altre. L’ultima, viceversa, è la più logica, perché è più umana. Delle due l’una: o la guerra è una follia, oppure se gli uomini compiono questa follia, non sono affatto creature dotate di ragione»[20].

Quella critica che nel prologo è ancora solo accennata diventa, tuttavia, esplicita e chiarissima nel finale del racconto.  L’ennesimo assalto al bastione, in cui perde la vita l’alfiere Praskuchin, lascia, infatti, sul campo

«centinaia di corpi, insanguinati di fresco, di uomini che due ore prime erano pieni di speranze e desideri più vari, elevati e meschini, […] centinaia di persone con maledizioni e preghiere sulle labbra secche».[21]

Eppure, la sera dell’indomani, sul corso della città, durante la tregua, i giovani ufficiali, gli junker, i soldati passeggiano festosamente, discorrendo dello scontro del giorno prima, e il filo conduttore della conversazione

«non era l’azione di per sé, ma la parte che chi narrava vi aveva avuto e il coraggio che aveva dimostrato. I visi e la voce avevano una espressione grave, quasi triste, come se le perdite subite nell’azione del giorno prima toccassero profondamente e amareggiassero tutti, ma a dire la verità, dato che nessuno di loro aveva perduto qualcuno di molto caro […], quell’espressione di tristezza era soltanto la maschera ufficiale che essi ritenevano loro obbligo mostrare. Al contrario, Kalugin e il colonello, benché fossero ottime persone, sarebbero stati disposti ad assistere tutti i giorni ad un’azione come quella, se non altro per ricevere ogni volta la sciabola d’oro e il grado di general maggiore. Mi piace quando chiamano mostro un conquistatore che, per soddisfare la propria ambizione, uccide milioni di persone. Ma provate a chiederlo in coscienza all’alfiere Petrusóv, al tenente Antonov e così via; altrettanti piccoli Napoleoni, piccoli mostri subito pronti a battersi, a uccidere un centinaio di persone soltanto per ricevere una stelletta in più o un terzo di paga in più»[22].

Dinnanzi al sibilare dei cannoni, dinnanzi al «sangue onesto e innocente» che viene ogni giorno continuamente versato, dinnanzi a una realtà in cui è obliata «la legge dell’abnegazione e dell’amore» che pure tutti coloro che sono e si dichiarano cristiani dovrebbero professare, la verità che occorre riconoscere e proclamare – per quanto si tratti «di una di quelle verità scomode, che si nascondono inconsapevolmente  nell’anima» e che molti allora preferiscono «non propalare perché non nuocciano» - è, dunque, per il giovane Tolstoj, che in guerra finisce per annullarsi definitivamente ogni distinzione «tra l’espressione del male che bisogna evitare e l’espressione del bene che si dovrebbe prendere ad esempio»[23]. Si annulla ogni distinzione tra «chi è l’eroe e chi è il cattivo», perché in una guerra sono tutti gli uomini, qualunque ruolo ricoprano nella gerarchia militare e da qualunque lato combattano, a portare le responsabilità della morte e della distruzione.

4. Le riflessioni suscitate dall’esperienza della Guerra di Crimea che leggiamo nella trilogia su Sebastopoli costituiscono, dunque, un’anticipazione del pensiero più ampio ed articolato che Tolstoj esprimerà nel primo dei suoi due capolavori della maturità, ed anzi tale ne è la consonanza contenutistica non meno che di situazioni che i tre racconti del 1855 ben possono essere considerati, per certi versi, quasi come dei disegni preparatori, degli schizzi della grande epopea di Guerra e Pace, dove Tolstoj riesce  a coniugare al più alto livello artistico la riflessione politico-filosofica con la dimensione poetica della narrazione[24].

Si tratta di un aspetto che possiamo cogliere attraverso il percorso di maturazione spirituale, anch’esso a suo modo di redenzione, del Principe Andréj Bolkonskij, in cui, come accade per molti dei protagonisti dei romanzi tolstojani, si colgono i dubbi esistenziali dell’autore. Se infatti al principio Andréj, profondamente insoddisfatto dalla vita coniugale e dalla frivolezza delle occupazioni della società aristocratica, sedotto dal miraggio dell’eroismo e dal fascino esercitato dalla figura di Napoleone vede nella gloria delle armi conseguibile attraverso la carriera militare la sola possibile forma di realizzazione della propria esistenza, con il progredire del racconto, segnato dalle esperienze belliche, egli maturerà una visione ben diversa.

Dalla caduta sul campo di battaglia di Austerlitz, dalla visione di quel «cielo infinitamente alto, con le nuvole grigie che vi strisciavano sopra dolcemente»[25], dominato dal silenzio, dalla quiete e dalla solennità, egli inizierà, infatti, a comprendere la vanità delle idee di gloria e dei valori della vita militare in cui pure, un tempo, aveva creduto:

«in quel momento gli pareva così insignificante tutto quel che interessava Napoleone, il suo stesso eroe gli pareva così piccino, con quella così meschina vanità e gioia per la vittoria a paragone di quell’alto cielo giusto e buono che egli aveva veduto e compreso [….]. Tutto gli pareva così inutile e insignificante a paragone di quella maestosa teoria di pensieri che avevano suscitato in lui l’indebolimento prodotto dalla perdita di sangue, le sofferenze e l’attesa di una prossima morte. Guardando Napoleone negli occhi, il principe Andréj pensava alla vanità della potenza, alla vanità della vita»[26].

L’acquisizione definitiva di tale consapevolezza avverrà, tuttavia, da parte di Andréj, in occasione della battaglia di Borodino, la cui rappresentazione costituisce il momento culminante dove si esprime, attraverso le parole del protagonista, la concezione tolstojana della guerra, che viene condannata moralmente senza riserve e accettata solo come una necessità ineluttabile[27], e poi nei limiti in cui si tratti di guerra in difesa della propria libertà.

Emblematico, in questa prospettiva, è il celebre dialogo tra Andréj e Pierre alla vigilia dello scontro, e soprattutto le riflessioni suscitate nel primo dai commenti di Carl von Clausewitz e degli altri generali prussiani arruolatisi nell’esercito zarista, con le loro concezioni della guerra come un gioco di strategia, simile al gioco degli scacchi, e che allora «non può tener conto della perdita degli individui singoli».

«Non prendere prigionieri. Solo questo cambierebbe tutta la guerra e la renderebbe meno crudele. E invece noi abbiamo giocato alla guerra, questo è il male: noi facciamo i magnanimi e così via. Questa magnanimità e questa sensibilità sono del genere di una signora a cui vien male se vede uccidere un vitello: è così buona che non può vedere il sangue, ma poi mangia con appetito di quel vitello con la salsa. […] Se in guerra non ci fosse questa magnanimità, noi marceremmo solo quando valesse la pena di andare verso una morte certa. Allora non ci sarebbe una guerra perché Pàvel Ivànyc ha offeso Michaíl Ivànič […] e noi non saremmo andati a batterci in Austria o in Prussia senza sapere perché […]. La guerra non è un’amabilità, ma la cosa più brutta della vita, e bisogna capirlo, e non giuocare alla guerra. Bisogna accettare austeramente e seriamente questa terribile necessità. Tutto sta in questo: spogliarsi della menzogna, e che la guerra sia la guerra e non uno scherzo […]. Lo scopo della guerra è la strage; strumenti della guerra sono lo spionaggio, il tradimento e l’istigazione a tradire, la spoliazione degli abitanti, il saccheggio e il furto per approvvigionare l’esercito, l’inganno e la menzogna»[28].

Anche nella riflessione del principe Andréj vi è così la denuncia di quella «verità scomoda» che Tolstoj aveva messo in luce nel secondo racconto della trilogia sull’assedio di Sebastopoli 

«E malgrado ciò [quella militare] è la classe più elevata e rispettata da tutti. Tutti i sovrani [..] portano la divisa militare, e a chi ha ucciso più persone danno le maggiori ricompense. Si incontrano, come faranno domani, per uccidersi l’un l’altro, massacrano, stroppiano decine di migliaia di uomini e poi faranno preghiere di ringraziamento per aver ucciso molte persone [..] e proclameranno la vittoria, supponendo che quanta più gente sarà stata ammazzata, tanto maggiore sarà il merito. Come Dio può di lassù vedere e udire tutto questo!»[29]

5. Il radicale ripudio della guerra da parte di Tolstoj si esprimerà, tuttavia, nella sua forma più compiuta dieci anni più tardi, in occasione della pubblicazione dell’ultima parte di Anna Karenina.

Il 1877 è l’anno in cui, come accennato, la c.d. questione d’Oriente, che era stata già all’origine della Guerra di Crimea e che era ritornata di attualità da alcuni anni nell’agenda politica internazionale, come si direbbe con formula moderna, a seguito delle rivolte delle popolazioni slave nei Balcani e soprattutto in Serbia, Bulgaria e Montenegro, condusse allo scoppio del nuovo conflitto tra la Russia e l’Impero ottomano. La dichiarazione di guerra, emanata dallo zar Alessandro II il 24 aprile, se trovava il suo reale movente ancora una volta con l’esigenza, che già era stata la causa della guerra di vent’anni prima[30], di estendere l’influenza russa sul mediterraneo a scapito del decadente grande vicino, trovava tuttavia la sua giustificazione ideologica con la necessità di portare sostegno ai popoli salvi, fratelli nella fede ortodossa e oppressi dalla Sublime Porta.

La questione slava, come venne presto definita, era del resto fortemente sentita da una parte della c.d. intelligencija,  gli intellettuali russi dell’epoca, e l’idea della necessità di un intervento militare a sostegno dei fratelli slavi troverà uno tra i più convinti e autorevoli sostenitori in Fëdor Dostoevskij, il quale più volte si pronuncerà pubblicamente  in tal senso, come testimoniano le numerose pagine che egli vi dedicò nel Diario di uno scrittore[31], concependo quella guerra come uno dei possibili strumenti di realizzazione della funzione messianica assegnata al popolo russo[32].

A fronte di un dibattito pubblico di tale portata, in cui personalità del calibro di Dostoevskij non esitavano ad affermare che non vi era niente «di più sacro e più puro delle gesta di questa guerra intrapresa dalla Russia», che «così disinteressatamente e sinceramente ha chiamato i suoi figli alle armi per la salvezza e la rinascita dei popoli oppressi»[33], Tolstoj non poteva evidentemente rimanere silenzioso e astenersi dall’esprimere la sua posizione.

Sotto questo profilo l’ultimo libro di Anna Karenina – in cui un ruolo centrale assume la conversazione che si svolge a Pokrovskoe tra Levin, Sergej Ivanovič e il giornalista Katavasov, proprio sul tema della legittimità della guerra russo-turca – costituì un autentico caso editoriale, al punto che il «Messaggero Russo», la rivista che ne aveva pubblicato tutte le precedenti parti, lo rifiutò, in quanto in contrasto con la propria linea editoriale, costringendo così Tolstoj a procedere alla sua pubblicazione come libro a sé. Il volume scandalizzò, infatti, parte degli intellettuali,[34] tanto da ricevere un giudizio severissimo da Dostoevskij, che concluderà le pagine del Diario di uno scrittore dedicate al suo esame[35], in quella che a buon diritto può definirsi come un’autentica articolatissima e lunga recensione[36], tacciando Tolstoj di essere un cattivo maestro[37].

Ma quali erano le ragioni che suscitarono lo sdegno dell’altro grande nume tutelare della letteratura russa? La risposta risiede nel fatto che nell’ultimo libro di Anna Karenina Tolstoj spinge la sua riflessione sulla guerra ben oltre quanto aveva osservato in Guerra e Pace. Se, infatti, nel grande romanzo degli anni Sessanta, pur denunciandone la disumanità e condannandola moralmente, Tolstoj ammette ancora la legittimità della guerra, sia pure in quanto ineluttabile necessità, quando un popolo sia costretto difendere la propria libertà - sicché è ancora possibile cogliere nelle pagine del romanzo una sorta di legittimazione almeno della guerra patriottica, e così leggere anche Guerra e pace, non diversamente dalla ouverture solennelle opera 49 di Čajkovskij, come un inno alla grande vittoria russa del 1812 – dieci anni dopo anche quest’ultimo limite è abbattuto. Tolstoj non crede più al valore e all’idea di patriottismo[38], e soprattutto esclude recisamente che sia mai possibile qualificare una guerra come «giusta», considerando tale definizione alla stregua di un ossimoro.

La serrata conversazione che si svolge tra Levin - «il puro di cuore», come lo definisce Dostoevskij e in cui è fin troppo facile cogliere l’immedesimazione tra autore e personaggio – e i suoi ospiti è, sotto questo punto di vista, davvero esemplare.

Alla tesi di Sergej Ivanovič che rivendica la legittimità dell’intervento militare sostenendo come, indipendentemente dall’esistenza o meno di una legittima dichiarazione da parte del governo (che era l’aspetto da cui aveva preso avvio la discussione a tavola[39]), essa si fondi sulla

«semplice espressione di un sentimento umano e cristiano. Stanno uccidendo i nostri fratelli, gente che ha lo stesso nostro sangue e la stessa nostra fede. E se proprio non vogliamo considerare che sono nostri fratelli e correligionari, consideriamo che fra loro ci sono donne, vecchi e bambini! È lo sdegno a far sì che i russi corrano in loro soccorso affinché l’orrore abbia fine […..] e a offrirsi in  sacrifico per i fratelli oppressi[40]»

Levin replica che

«non si tratta solo di offrirsi in sacrifico, ma anche di uccidere i turchi [….] Il popolò si immola e si immolerà sempre per la propria anima, ma non per la morte altrui»[41].

Al pari di Tolstoj, infatti, anche Levin

«non poteva tollerare che […] un gruppetto di persone, e suo fratello con loro, si arrogasse il diritto di esprimere a voce e sulla carta stampata, la volontà e il pensiero del popolo, un pensiero che si incarnava nella vendetta e nella morte. Non poteva tollerarlo perché non li coglieva, quei pensieri, né fra il popolo né dentro di sé (che di quel popolo si considerava parte), e soprattutto perché né lui né il popolo sapevano – o potevano sapere – in che cosa consistesse il bene comune; ma sapevano, invece, che per ottenerlo era necessario attenersi scrupolosamente alla legge che è a ciascuno rivelata. Per questo Levin non poteva desiderare la guerra, né alla guerra poteva chiamare, a qualunque scopo fosse intesa»[42].

L’antitesi con la concezione espressa da Dostoevskij nelle pagine del Diario che «non sempre è necessario predicare soltanto la pace» e che «non soltanto nella pace a qualunque costo è la salvezza, ma talvolta anche nella guerra»[43] non potrebbe essere più evidente.

6. Le riflessioni sulla guerra svolte da Tolstoj nella sua produzione artistica tra il 1855 e il 1877, e il suo approdo alle conclusioni, in qualche modo ultime e definitive, espresse in Anna Karenina sono, mi sembra, di grande aiuto per provare a sciogliere gli interrogativi che ci tormentano in questi mesi.

Le pagine tolstojane ci dimostrano, senza incertezze, come sia impossibile ricercare, di fronte ai limiti strettissimi della «guerra legale», una «giusta causa che consenta pur sempre, al di fuori di principi del diritto positivo e in assenza di una consuetudine legittimante, di darle almeno una giustificazione morale[44].  Le parole di Tolstoj disvelano l’ipocrisia che si nasconde dietro l’evocazione della «guerra giusta», anche quando a suo fondamento vengano invocate le reiterate violazioni dei diritti umani. Esse ci dimostrano, infatti, con chiarezza che l’individuazione della c.d. giusta causa di guerra è il frutto di valutazioni unilaterali, per lo più arbitrarie e discrezionali degli Stati che la intraprendono – ed è eloquente, nella drammatica contingenza che stiamo vivendo, che pur di giustificare un’azione che è in palese violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale il concetto della «giusta causa» sia stato invocato persino dalla Russia, con il richiamo all’esigenza di procedere alla denazificazione dell’Ucraina e alla difesa delle popolazioni russofone, con argomenti e accenti che appaiono così quasi riproporre quelli della guerra combattuta negli stessi territori centocinquant’anni fa[45].

Ma le parole di Tolstoj soprattutto ci disvelano - con il richiamo di Levin al fatto che «non si tratta di offrirsi in sacrificio ma si tratta di uccidere i turchi» - che nessuna guerra, anche se intesa allo scopo di tutelare i diritti umani, può mai realmente essere condotta «iusto modo». Se infatti, come nota il principe Andréj, «l’essenza della guerra è la strage» anche una guerra motivata con il più nobile degli ideali di tutela dei diritti umani non può che risolversi, inevitabilmente, proprio nella negazione e nell’annichilimento di quello che, al di là delle possibili diverse concezioni che nella storia possano affermarsi[46], è indiscutibilmente il più alto e universale di tali diritti: il diritto alla vita[47].

La lezione che possiamo trarre dalla lettura della narrativa tolstojana è tuttavia anche altra. Il monito che cogliamo dalle sue pagine – a conferma dell’intuizione di Ascarelli quanto alla necessità per il giurista, dinnanzi alle questioni fondamentali dell’esistenza umana, di appellarsi «ai saggi, e ancora prima che agli studiosi, ai poeti»[48], il che val dire appunto alla letteratura – e a non cedere alla tentazione di nascondersi dietro la «magia delle parole», per riprendere un’altra celebre espressione ascarelliana.

Parlare, come oggi si fa, di interventi di sostegno militare limitati all’invio soltanto di «armi difensive» - oppure parlare, come avveniva ai tempi della prima guerra del Golfo, di uso di «bombe intelligenti», capaci di colpire solo le installazioni militari e non le infrastrutture civili – e ancora ricorrere a locuzioni, anche nei testi e provvedimenti normativi, come «operazioni di polizia internazionale» ovvero di «conflitto armato» è solo, in fondo, un modo obliquo per nascondere quella «verità scomoda» di cui più volte ci ha parlato Tolstoj[49]. L’aggiunta di simili aggettivi non toglie, infatti, alle armi la loro essenza di strumenti di morte e distruzione, quale che ne siano le modalità e i limiti di impiego, così come l’uso di perifrasi per indicare le forme di intervento militare contro altri Stati e altri popoli non fa venire meno, quando essi siano destinate, com’è inevitabile, a provocare morte e distruzione, l’essenza stessa della guerra, sicché, quand’anche si dovessero ritenere esistenti i presupposti  per affermare che  la messa a disposizione di armi o altre forme di sostegno militare ad un paese  coinvolto in un evento bellico costituiscano, in un dato contesto, delle opzioni ammissibili per il nostro ordinamento giuridico, non basta avvalersi semplicemente di tali locuzioni per escludere che di partecipazione alla guerra pur sempre si tratti, e quindi la necessità di un coinvolgimento e di un ruolo del parlamento nell’assunzione di tali decisioni[50].

Perché, ed anche questo è un insegnamento che dobbiamo alla letteratura, «What’s in a name? That which call a rose, by any other name would smell as sweet»[51].

 

* Testo dell’intervento svolto il 27 aprile 2022 nell’ambito dei seminari “Guerra e speranza nel diritto e nella letteratura” del Corso di Diritto e Letteratura del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II.

[1] Il riferimento è a M. Dogliani, Il divieto costituzionale della guerra, in www.costituzionalismo.it, fascicolo 1/2003. Ma per un’ampia disamina del tema si veda soprattutto G. de Vergottini, Guerra e costituzione (Nuovi conflitti e sfide alla democrazia), Bologna, 2004

[2] In questo senso V. Onida, Guerra, diritto, costituzione, in Il Mulino, 1999, p. 958 ss.

[3] Sul tema, oltre ampiamente a M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste, Bari, 2009, passim, cfr. anche B. Conforti, Guerra giusta e diritto internazionale contemporaneo, in Rassegna parlamentare, 2003, p. 11 s.

[4] Riprendo una osservazione di T. Ascarelli, Dispute metodologiche e contrasti di valutazione, già in Riv. trim dir. e proc. civ., 1953, p. 873 ss., successivamente in Saggi giuridici, Milano, 1955, p. 467 ss., in specie p. 479.

[5] Come scriveva Balzac in Des Artistes, pubblicato su La Silhouette nel 1832 (lo si può leggere in Ouvres diverses, II, Paris, 1996, p, 707 ss., in specie p. 713).

[6] È l’interrogativo che si pone A. Kokobobo, How should Dostoevsky and Tolstoy be read during Russia’s war against Ukraine?,  in www.theconversation.com.

[7] Sulla dimensione epica della narrativa tolstojana si vedano gli scritti di György Lukács: Teoria del romanzo (1920), Milano, 1999, p. 49 ss. e soprattutto l’ancora oggi fondamentale studio del 1935, Tolstoj e l’evoluzione del realismo, in Saggi sul realismo3, Torino, 1976, p. 170 ss.; sul tema ampiamente anche G. Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, Milano, 1995, passim.

[8] In particolare, nel saggio Guerra e rivoluzione, pubblicato nel 1906 in Francia a causa della  censura zarista all’indomani della guerra russo-giapponese. L’edizione italiana, a cura di Roberto Coaloa, è stata pubblicata soltanto nel 2015, da Feltrinelli

[9] Un cristianesimo dichiaratamente antiecclesiastico e che nel 1901 gli costerà la scomunica della chiesa ortodossa.

[10] Sul tema cfr. R. Coaloa, Lev Tolstoj, tra guerra, pace e rivoluzione. Alla scoperta del profeta di Jasnaja Poljana, in appendice a Guerra e rivoluzione, cit., p. 135 ss.; su questi temi anche E. Amadio, La legge della nonviolenza (Il pensiero di Tolstoj e la sua influenza sul pacifismo britannico (1847-1920), Saarbrücken, 2016, passim.

[11] Una svolta che è lo stesso Tolstoj a raccontarci in La confessione, pubblicato nel 1882. Per alcuni aspetti del profilo biografico e per l’analisi dell’evoluzione del suo pensiero, cfr. P. Citati, Tolstoj, Milano, 1996; H. Gifford, Tolstoj, Bologna, 2003.

[12] I racconti di Sebastopoli si possono leggere, nella traduzione di Bruno Osimo, in Lev Tolstoj, Tutti i racconti a cura di Igor Sibaldi, nella collana I meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991, volume I, p. 170 ss., da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono.

[13] Le citazioni che si proporranno nel testo saranno tratte dalla oramai classica edizione pubblicata in due volumi da Einaudi nel 1942, traduzione di Enrichetta Carafa D’Andria e prefazione di Leone Ginzburg.

[14] Che si può leggere nella edizione, sempre di Einaudi, traduzione di Claudia Zonghetti e con prefazione di Natalia Ginzburg.

[15] Proprio la sconfitta militare fu, infatti, una delle principali cause che condurrà alla epocale riforma del 1861 consistita nell’abolizione della servitù della gleba.

[16] Mi piace ricordare che uno degli studi italiani maggiormente approfonditi sulla Guerra di Crimea, e soprattutto sul ruolo giocato dal Regno di Piemonte, si deve in realtà a un giurista, ed anzi proprio a un giuscommercialista: mi riferisco a P. G. Jaeger, Le mura di Sebastopoli (Gli italiani in Crimea 1855-1856), Milano, 1991.

[17] «La principale convinzione» - così scrive Tolstoj nel concludere il racconto, riportando le impressioni dell’ipotetico visitatore della città - «è che sia impossibile prendere Sebastopoli […] ma questa impossibilità voi l’avete ravvisata non nella moltitudine di traverse, di terrapieni, di trincee, di mine e cannoni […], ma l’avete vista negli occhi, nei discorsi, nei modi, in quello che si chiama lo spirito dei difensori di Sebastopoli. […] Voi capirete dunque chiaramente [che] quegli uomini [..] hanno elevato il loro spirito e si sono preparati alla morte, non per la città ma per la patria. Per lungo tempo resteranno in Russia le tracce di questa epopea, di cui è stato eroe il popolo russo» (p. 186 s.)

[18] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 177: i corsivi sono miei.

[19] Tanto da suggerire alla redazione di pubblicarlo in forma anonima, senza neppure le iniziali di Tolstoj, proprio perché gli interventi erano stati di tale portata da tradire nel complesso il pensiero del suo autore. Sulla travagliata storia della pubblicazione della prima edizione del racconto cfr. le note al testo dell’edizione edita per I meridiani, cit., p.1181 s.

[20] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 187 s.

[21] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 234

[22] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 235 s. (il corsivo è mio).

[23] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 242 s

[24] Un chiarissimo esempio in tal senso mi sembra costituito dal capitolo XXXVII della seconda parte del Libro III, in quella che è una tra le scene più commoventi ed alte di tutto il romanzo: la scena in cui, dopo essere stato falciato dall’artiglieria francese durante l’assalto nella battaglia di Borodino, il principe Andréj viene trasportato presso l’improvvisato ospedale da campo, dove in occasione delle medicazioni incrocerà il suo sguardo con quello di Anatole Kuràghin, l’uomo che aveva drammaticamente spezzato le sue ultime speranze e illusioni di felicità, e a cui era stata appena amputata una gamba. La scena riprende, evidentemente, le immagini e le situazioni delle sale della Consulta di Sebastopoli, con la curda rappresentazione degli interventi dei medici che amputano gli arti dei feriti; ma mentre nel racconto giovanile si tratta ancora solo di una rappresentazione obiettiva di uno scenario di guerra, per quanto di estrema drammaticità, e dunque, in definitiva, di un approccio ancora quasi cronachistico, in Guerra e Pace quelle immagini e quell’ambientazione diventano lo sfondo in cui si realizza il momento sublime della definitiva illuminazione del protagonista: «Egli si ricordava adesso il legame che esisteva fra lui e quell’uomo che lo guardava con sguardo appannato attraverso le lacrime che gli empivano gli occhi gonfi. Il principe Andréj si ricordò tutto, e una pietà, un amore fervente per l’uomo colmò il suo cuore felice […] “Compassione, amore per i fratelli, amore per chi ci ama, amore per chi ci odia, amore per i nemici; sì quell’amore che Dio ha predicato sulla terra e che mi insegnava la principessina Marja e io non comprendevo”» (Guerra e pace, cit., p. 957).

[25] Guerra e pace, cit., p. 325

[26] Guerra e pace, cit., p. 339

[27] In questo senso cfr. anche Pier Cesare Bori, nell’Introduzione al romanzo per l’edizione Einaudi, cit. p. XLVIII

[28] Guerra e pace, cit., p. 911

[29] Guerra e pace, cit., p. 912

[30] Cfr. ancora P.G. Jaeger, Le mura di Sebastopoli, cit., p. 4 s.

[31] Si tratta della rivista, da lui integralmente redatta, che Dostoevskij dette alle stampe tra il 1873 e il 1881. Lo si può leggere nell’edizione italiana curata da Ettore Lo Gatto (cui si deve anche la traduzione), Bompiani, Firenze, 2017.

[32] L’idea di Dostoevskij era, infatti, - così scriveva nel secondo fascicolo del gennaio 1877 - che «Ogni popolo crede e deve credere, se vuole restare a lungo in vita, che in lui è racchiusa la salvezza del mondo, e che vive per essere alla testa dei popoli, attrarli tutti a sé insieme e portarli in un coro armonico, a uno scopo definitivo a loro tutti predestinato.» (Diario di uno scrittore, cit., p. 739).

[33] Diario di uno scrittore, cit., 858 s.

[34] Anche parte della critica ha espresso delle riserve sull’ultimo libro di Anna Karenina, ritenendo poco felice l’innesto di un tema prettamente politico e di attualità in un romanzo che rappresenta, se volessimo utilizzare una terminologia balzachiana, scene della vita privata, e che oltretutto, da questo punto di vista, ha già raggiunto l’acme con la morte della protagonista. Ma per una lettura che respinge l’idea che l’ottava parte del romanzo esprima già il sopravvento del Tolstoj «predicatore» e «pubblicista» rispetto al «romanziere», e che sottolinea, invece, l’intima coerenza dei temi trattati anche nell’ottica dello sviluppo della psicologia dei personaggi cfr. G. Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, cit., p. 106 ss.

[35] Cfr. Diario di uno scrittore, cit., p 1003-1047

[36] A dispetto dell’intenzione di «non lasciarsi andare alla critica dei letterati contemporanei» (Diario di uno scrittore, cit., p. 976)

[37] «Uomini come l’autore di Anna Karenina» - scrive Dostoevskij (Diario di uno scrittore, cit., p. 1047) - «sono maestri della società, nostri maestri e noi loro allievi. E che cosa ci insegnano?». Per una spiegazione delle ragioni più profonde del progressivo cambio di atteggiamento di Dostoevskij, culminato nelle critiche sempre più severe alla narrativa tolstoiana, cfr. R. Vassena, Dostoevskij, Tolstoj e la battaglia per la “parola nuova”, in Studi slavistici, III, (2006), p. 143 ss.

[38] Concetto che attaccherà poi frontalmente, definendolo come sentimento «cattivo e dannoso» in quanto «causa dei rovinosi armamenti e delle guerre nefaste», nel saggio del 1900 Patriottismo e governo (pubblicato in Italia – con il sottotitolo «per un umanesimo della pace» - nel 1991, Lungro di Cosenza, C. Marco editore)

[39] La discussione viene, infatti, introdotta, di fronte all’esaltazione di Sergej Ivanovič del movimento spontaneo di volontari che partono per la Serbia (e tra i quali è anche Vronskij,c he non ha oramai più nulla da chiedere alla vita dopo la morte di Anna), dalla provocatoria osservazione del vecchio principe, il suocero di Levin, su «chi ha mai dichiarato la guerra ai turchi? Ragozov, la contessa Lidija e madame Stahl?»; al che segue allora l’obiezione di Sergej Ivanovič che non occorre una dichiarazione espressa perché «la gente capisce quanto soffre il prossimo e vuole essergli di aiuto», e la conseguente replica di Levin che, essendo la guerra «una cosa talmente tremenda, crudele e bestiale, nessun essere umano, e tanto meno un cristiano, dovrebbe personalmente farsi carico di dichiararla. E un onere che spetta i governi, che, se costretti, non possono evitarlo» (Anna Karenina, cit., p. 872).

[40] Anna Karenina, cit., pp. 873 e 877

[41] Anna Karenina, cit., p. 877; il corsivo è mio.

[42] Anna Karenina, cit., p. 877 s., corsivi miei

[43] Diario di uno scrittore, cit., p. 860.

[44] Come rileva opportunamente G. de Vergottini, Guerra e costituzione, cit., p. 119 ss., in tanto si spiega, rispetto ad una guerra da intraprendere, il tentativo di recuperare il concetto di «guerra giusta», in quanto questa si pone evidentemente al di fuori del concetto di «guerra legale», ossia di «guerra già ammessa dall’ordinamento», altrimenti il primo concetto risolvendosi interamente nel secondo.

[45] Negli argomenti avanzati pubblicamente dagli esponenti dell’establishment russo traspare, infatti, anche un profilo “identitario” che si poneva già allora e che sembra oggi in qualche modo riemergere. Mi riferisco al tema espresso proprio da Dostoevskij in molte pagine del Diario di uno scrittore, e che attiene alla questione dell’identità slava del popolo russo, del rapporto tra la Russia e l’Europa e al paventato rischio di una subalternità della prima rispetto alla seconda. In questo senso è particolarmente significativa la riflessione che leggiamo nel gennaio 1877 nel Diario, dal titolo «Noi in Europa siamo soltanto dei poveracci» (p. 744 ss.) dove, nell’interrogarsi criticamente su cosa fosse stato «ottenuto» dopo due secoli di progressivo avvicinamento tra società e cultura russa e società e cultura europea, Dostoevskij osservava che si trattava di «strani risultati[..] Tutti in Europa ci guardano ironicamente, e con altezzosa condiscendenza [..] Gli europei  non hanno voluto considerarci dei loro a nessun costo […] e quanto più, per acquistare le loro grazie, abbiamo disprezzato la nostra nazionalità, tanto più essi hanno disprezzato noi» (p. 746).

[46] In questo senso F. Viola, Pace giusta e guerra giusta (Luci e ombre del diritto internazionale contemporaneo), in Rivista di diritto costituzionale (Associazione “Gruppo di Pisa”), 2003, p. 212 ss., in specie p. 239 ss.

[47] Per una riflessione analoga, sulla base della considerazione che, indipendentemente dal problema dell’uso delle armi nucleari, la forza distruttiva delle moderne armi convenzionali è oggi tale che una guerra, pur giusta per la causa, non potrebbe mai essere condotta giustamente cfr. F. Viola, Pace giusta, cit., p. 242.

[48] T. Ascarelli, Antigone e Porzia, in Problemi giuridici, I, Milano, 1959, p. 3.

[49] Nel dovere verso la verità, che per Tolstoj sin dal secondo dei Racconti di Sebastopoli prevale anche sui doveri verso la patria, sembra quasi leggersi un’anticipazione del monito che Benedetto Croce rivolgerà agli uomini di ingegno e agli artisti durante la Grande Guerra (e si veda, sul tema, ampiamente C. Nitsch, La feroce forza delle cose (Etica, politica e diritto nelle Pagine sulla guerra di Benedetto Croce), Napoli, 2020, p. 34 ss.

[50] Per un’ampia disamina, condotta attraverso l’indagine comparatistica,  della questione della competenza ad assumere decisioni sull’impiego della forza armata in ambito internazionale nel quadro del nostro ordinamento costituzionale, e per una prospettiva in definitiva non troppo lontana da quella esposta nel testo – ossia nel senso che pur rientrando tali decisioni, di regola, nella sfera di competenza dell’esecutivo, è comunque necessario attivare l’intervento parlamentare almeno per le «iniziative di maggiore spessore», ossia quelle che «tendano assumere carattere di guerra» -  G. de Vergottini, Guerra e costituzione, cit.,  p. 295 ss.

[51] William Shakespeare, Romeo and Juliet, Act II, scene 2, 43-44

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