GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Pasolini, Sciascia e il ‘processo’

    Pasolini, Sciascia e il ‘processo’  di Luigi Cavallaro

    Oggi pare che solo platonici intellettuali (aggiungo: marxisti) – magari privi di informazioni, ma certamente privi di interessi e complicità – abbiano qualche probabilità di intuire il senso di ciò che sta veramente succedendo: naturalmente però a patto che tale loro intuire venga tradotto – letteralmente tradotto – da scienziati, anch’essi platonici, nei termini dell’unica scienza la cui realtà è oggettivamente certa come quella della Natura, cioè l’Economia Politica.

    Pier Paolo Pasolini, Lettera luterana a Italo Calvino, “Il Mondo”, 30 ottobre 1975.

    In una delle rare fotografie che li ritraggono insieme, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia si trovano a Zafferana Etnea, a pochi chilometri da Catania. L’anno, mirabilis, è il 1968; l’occasione, l’assegnazione ad Elsa Morante del premio letterario intitolato a Vitaliano Brancati.

    Già allora, Pasolini e Sciascia si conoscevano e stimavano da tempo: ai primi degli anni Cinquanta risale l’antologia Il fiore della poesia romanesca, curata da Sciascia e prefata da Pasolini; e di “un vero, forte e commosso senso di fraternità” aveva scritto il poeta allo scrittore subito dopo aver letto Le parrocchie di Regalpetra (1956). Erano diventati amici: e all’indomani della sua morte, Sciascia ricorderà anzi di essere stato “la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare”; e più ancora, che “negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose”.

    Del luogo, invero disadorno, dello scatto, con certezza non sappiamo: azzarderemmo che si tratti dello stesso albergo “Emmaus”, gestito dai salesiani, dove si svolgeva la cerimonia della premiazione; e comunque, ci piace pensarlo. Perché è proprio nel piazzale antistante quell’albergo che, due anni dopo, Sciascia avrebbe assistito ad una scena di cui sarebbero stati protagonisti giusto degli ex allievi dei salesiani. “Singolari allievi”, avrebbe rimarcato: “quasi tutti notabili della Democrazia Cristiana”; e già in una nota sul Corriere della Sera del settembre 1971, allusivamente intitolata “Esercizi spirituali”, di quella scena avrebbe dato una descrizione terrifica e precisa: “La sera, tutti insieme, recitavano il Rosario: andavano su e giù nello spiazzo avaramente illuminato, a passo svelto, con dei dietrofronti improvvisi, confusi, aggrovigliati; e quanto più si aggrovigliavano tanto più levavano le voci nei pater, negli ave, nei gloria. Con una nota di isteria, di paura. E in quel momento, anche chi (come me) li vedeva nella abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era qualcosa di vero, qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale, in quel loro andare su e giù al buio, in quel biascicare preghiere, in quel confondersi e aggrovigliarsi: quella nota di isteria, di paura; quasi che per un attimo si sentissero, disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi. Appunto come nella dantesca bolgia dei ladri. E che l’attimo potesse diventare eternità”.

    Da qui, da questa scena, vorremmo muovere per provare brevemente a dire di quelle “stesse cose” a cui pensavano e di cui scrivevano Sciascia e Pasolini. Quegli ‘esercizi spirituali’ casualmente osservati all’albergo “Emmaus” rappresenteranno per Sciascia una immagine così potente che qualche anno dopo ne trarrà quasi d’improvviso Todo modo, dove l’albergo salesiano diventerà l’“eremo di Zafer”. E mentre l’eremo ha “tutta una storia inventata a tavolino”, come spiega l’inquietante don Gaetano al narratore, ben diversamente, vien fatto a noi di aggiungere, accadrà per Todo modo: che, nella sinistra trasposizione cinematografica di Elio Petri (1976), diventerà non soltanto, come Sciascia stesso ebbe a dire, “un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana oggi è Petri a farlo”, ma soprattutto un’allegoria del futuro ‘processo’ e assassinio di Aldo Moro: così rassomigliante nella spregiosa caricatura di Gian Maria Volontè che lo stesso Moro, che vide il film in una saletta di proiezioni a Palazzo Chigi, lo giudicò “ignobile, ma inevitabile”.

    “Inevitabile”: quasi a presentire anche lui stesso che, una volta abbandonata la verità alla letteratura, soltanto la letteratura avrebbe potuto farla duramente e tragicamente riapparire.

    Il ‘processo’ all’intera classe dirigente italiana, anzitutto democristiana: ecco, appunto, la ‘cosa’ di cui Pasolini e Sciascia principalmente pensavano e scrivevano.

    Todo modo viene pubblicato alla fine del 1974 (il ‘finito di stampare’ è del 9 novembre) e tra l’agosto e il settembre dell’anno successivo Pasolini scrive una serie di articoli (postumamente raccolti nelle Lettere luterane) su come e perché bisognerebbe processare i gerarchi democristiani. E puntigliosamente ne elenca i capi d’imputazione: “indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne, responsabilità dell’esplosione ‘selvaggia’ della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”.

    Ma ancor prima, del 14 novembre 1974, è Che cos’è questo golpe, con l’appassionata anafora dell’“Io so”; e del 1° febbraio 1975 Il vuoto di potere in Italia (raccolti entrambi negli Scritti corsari, diventeranno rispettivamente Il romanzo delle stragi e L’articolo delle lucciole). E in mezzo a questi due blocchi di scritti, sul Tempo del 24 febbraio 1975, la recensione a Todo modo: di cui Pasolini avverte l’essere “sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso”; e in cui scorge nitidamente “questa concezione quasi dantesca del mondo”, dove “la piramide del potere, monolitica all’esterno”, si rivela “estremamente complicata, labirintica, mostruosa all’interno”; e la cui novità sta semmai nel fatto che l’“uomo buono” (che, come l’Autore, è colui che “non accetta una condizione tradizionale fondata sull’ingiustizia” e il cui giudizio è quello “di un tribunale finalmente giusto”), trovatosi casualmente di fronte a quella piramide e condotto, ancora per caso, dentro i suoi incomprensibili meccanismi, “si fa giustiziere”: e “decide che alcuni componenti di quel ‘club’ del potere debbano morire, a scadenze regolari, da romanzo giallo”; condannati, certo, per il modo criminoso con cui gestiscono il potere, ma fors’anche perché “il potere è di per se stesso un crimine”.

    Converrà però tornare sui capi d’imputazione che Pasolini muove a quella classe politica: ché, come lui stesso avverte, non è “una questione di moralità”. “La colpevolezza dei potenti democristiani da trascinare sul banco degli imputati non consiste in una loro immoralità (che c’è), ma consiste in un errore di interpretazione politica nel giudicare se stessi e il potere di cui si erano messi al servizio”. Ovvero, e con le parole dell’“articolo delle lucciole”: “gli uomini di potere democristiani sono passati dalla ‘fase delle lucciole’ alla ‘fase della scomparsa delle lucciole’ senza accorgersene”, nel senso che “non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una ‘normale’ evoluzione, ma stava cambiando radicalmente natura”. E questo potere totalmente ‘altro’, che dalla metà degli anni Sessanta essi hanno servito senza accorgersene, “potrebbe aver già riempito il ‘vuoto’”: con ciò “vanificando anche la partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell’Italia”.

    Al fondo c’è dunque la ‘grande trasformazione’ che l’Italia, come tutto il mondo occidentale, ha subito nell’ultimo trentennio: quella che comunemente designiamo come l’avvento della ‘società dei consumi’. Per effetto della quale – leggiamo ancora nell’articolo delle lucciole – i ‘valori’ del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico non contano più: “Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più”; e “a sostituirli sono i ‘valori’ di un altro tipo di civiltà, totalmente ‘altra’ rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale”.

    Ed ecco, allora, la funzione del processo (anzi: del “Processo”, come scrive Pasolini in un articolo del 24 agosto 1975): esso renderebbe “chiaro” (“folgorante, definitivo”) che “governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere, bensì in relazione al nuovo potere”; “e che proprio nel non aver capito questo consiste il vero reato, politico, dei democristiani”.

    Dolorosamente piegandosi, qualche anno dopo, su questi scritti, Sciascia scriverà nell’Affaire Moro che “Pasolini voleva processare il Palazzo quasi in nome delle lucciole”: “per le lucciole scomparse”. E acutamente noterà come, tre anni dopo quel 1° febbraio 1975, alle soglie del rapimento avvenuto nel giorno in cui si sarebbe dovuta votare la fiducia al primo governo sostenuto dal PCI, soltanto Moro (che, nella franca ammissione di Pasolini, era “per una enigmatica correlazione” colui che appariva “il meno implicato di tutti” nelle cose orribili organizzate in quegli anni) continuasse ad aggirarsi in quel “Palazzo”: “in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate”; e sgomberate “per occuparne di altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto Palazzo. E più sicure, s’intende, per i peggiori”.

    Era insomma in ritardo, Moro, e solo, benché avesse creduto di essere alla guida del suo partito; ed era rimasto solo perché “il meno implicato di tutti”, ancorché, e proprio per ciò, “destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni”: così Sciascia riscrive l’affermazione dell’amico “fraterno e lontano”. Ed è riscrittura significativa: ché di Moro si è appena consumata la tragedia. 

    Fermiamoci un momento. Pasolini parla inizialmente “proprio di un processo penale, dentro un tribunale”, con “Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della Repubblica)” che dovrebbero comparire “sul banco degli imputati”. Successivamente, esorta i suoi lettori ad assumere quell’immagine “come un’immagine metaforica” e il processo stesso “come una metafora”; ma la funzione rivelatrice che egli vi annette non cambia: ché si tratterebbe di rivelare ai cittadini italiani “qualcosa di essenziale per la loro esistenza”, ossia che “i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma di potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti (traendone peraltro tutti i possibili profitti) e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che cosa farsene di loro”. E “soltanto un Processo potrebbe dare a questa astratta affermazione i caratteri di una verità storica inconfutabile, tale da determinare nel paese una nuova volontà politica”.

    Ma può un processo avere questo scopo? Può cioè un processo farsi levatore di una verità storica così inconfutabile da generare a sua volta una volontà politica adeguata al nuovo tempo? E un processo che avesse uno scopo del genere sarebbe realmente un processo?

    La memoria del giurista corre rapida ad uno scritto di Salvatore Satta: “Il mistero del processo”, s’intitola; e apparve nel 1949 sulla Rivista di diritto processuale, per poi essere raccolto da Satta stesso nei Soliloqui e colloqui di un giurista (1968). Il confronto tra il risoluto presidente del Tribunale rivoluzionario parigino e la folla dei sanculotti inferociti che volevano far scempio dell’accusato maggiore Bachmann, comandante delle guardie regie, offre a Satta lo spunto per chiedersi, con la radicalità che gli è propria, se differenza alcuna passi tra quella folla dalle mani arrossate di sangue e quei borghesi in mantello nero e cappello a piuma, che li fronteggiano assisi sugli scranni della sala delle udienze; e specialmente perché mai questi ultimi, che pure in via di fatto potrebbero impunemente uccidere il maggiore Bachmann, intendano invece ucciderlo “attraverso un processo”.

    E quest’ultima è questione che ben si attaglia al ‘processo’ invocato da Pasolini: e non soltanto perché il processo, una volta istituito, tende a vivere di vita propria e si ritorce come una serpe contro qualunque ‘scopo’ rivoluzionario per il quale lo si volle istituire (e se ne accorsero anche i rivoluzionari francesi, quando – per bocca del procuratore Fouquier-Tinville – domandarono alla Convenzione di essere liberati dalle forme che la legge prescriveva a garanzia degli imputati); ma specialmente perché il processo, nella sua intima essenza, è ‘giudizio’, e un giudizio può esser reso solo da chi è ‘terzo’: e l’esperienza giuridica insegna che ‘terzo’ può essere non solo chi, formalmente, non è ‘parte’, ma soprattutto chi dal processo non può ricavare giovamento o nocumento alcuno: e lo attestano certamente le norme sull’astensione e ricusazione del giudice, che dilatano il concetto di ‘parte’ fino ai confini che esso ha nel linguaggio comune, ma lo stesso principio della pubblicità del dibattimento penale: che, nella potente intuizione di Carnelutti, si spiega solo presupponendo che il pubblico, che ha diritto di assistere al processo, sia ‘parte’; e che appunto in quanto ‘parte’ gli sia vietato di manifestare opinioni o sentimenti o di tenere un contegno intimidatorio o provocatorio: ché se non lo fosse, se fosse cioè realmente estraneo al giudizio, di una simile prescrizione non vi sarebbe affatto bisogno.

    Si dà dunque contraddizione flagrante, agli occhi del giurista, in un processo come quello invocato da Pasolini: perché sarebbe un processo in cui il giudizio della ‘parte’ (e cioè del pubblico dei rostri, a cui lo scrittore, in quanto intellettuale, dà voce: e si veda ancora l’articolo delle lucciole) si sostituirebbe al giudizio del ‘terzo’; sarebbe dunque ‘punizione’, non ‘giudizio’: e punire, avverte Satta, può chiunque, perché il punire non è che azione. “Punisce Minosse, avvinghiando la coda: ma il giudizio, quando l’anima si presenta di fronte a lui, è già compiuto, in una sfera nella quale egli, demonio, non può penetrare”.

    Né ciò è tutto. Si può e anzi si deve dubitare che da un processo possa scaturire qualcosa di minimamente paragonabile ad una “verità storica inconfutabile”: e non solo per quanto riguarda il giudizio di fatto, che si compie tutto all’insegna del ‘probabile’, ma perfino per quanto concerne il giudizio di diritto, che Guido Calogero ci ha spiegato non essere affatto quella cosa ‘logica’ postulata dalla rassicurante figura del sillogismo giudiziale. La costruzione del fatto e della norma procedono da tecniche argomentative che possono tutt’al più mimare la dimostrazione matematica, giammai eguagliarla: e la riprova è che l’unica ‘certezza’ che può discendere da un processo è quella del ‘giudicato’, che già Ulpiano aveva spiegato che solo “pro veritate accipitur”.

    “Verità storica inconfutabile”, in realtà, può essere quella, e solo quella, che si sa già prima del processo e che chiama all’azione e alla punizione. “La Convenzione, la Francia intera accusa gli imputati – scriveva Fouquier-Tinville – ciascuno ha nella sua anima la convinzione che essi sono colpevoli”; e gli farà sinistramente eco, quasi due secoli dopo, il comunicato con cui le Brigate Rosse annunciano la conclusione del ‘processo’ ad Aldo Moro: “Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il suo compito di pilastro dello Stato delle Multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato […] Quali misteri ci possono essere del regime DC da De Gasperi a Moro che i proletari non abbiano pagato con il loro sangue? […] Non ci sono quindi ‘clamorose rivelazioni’ da fare”.

    Sciascia, ineccepibilmente, chioserà: “Niente segreti, niente misteri, nessuna clamorosa rivelazione: tanto valeva – poiché lo si sapeva da prima, poiché non è una risultanza del processo – lasciare Moro in via Fani, affratellato nella morte a quei cinque servitori del SIM”. Che, nella terminologia brigatista, era appunto lo “Stato Imperialista delle Multinazionali” e, nella realtà dei carabinieri e poliziotti uccisi in occasione del suo sequestro, un datore di lavoro assai poco vigile sulla sicurezza dei suoi dipendenti.

    Si potrebbe legittimamente domandare perché mai, allora, Pasolini insista sulla necessità di un processo che, se realmente tale, non potrebbe mai servire ai suoi scopi: che invece, e a tutto concedere, sono appunto gli scopi di un ‘giustiziere’. E si potrebbe forse rispondere, ancora con Satta, che per quanto nulla gli umani aborriscano come il giudizio, nulla desiderano come giudicare: “perché giudicare significa postulare l’ingiustizia di un’azione, invocare quindi il giusto contro di essa”.

    Senza ‘giudizio’, in effetti, non c’è propriamente ‘pena’, come ben intesero Carnelutti e, prima di lui, Blaise Pascal, per il quale Gesù Cristo non aveva voluto essere ucciso senza un processo “perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per una sedizione ingiusta”. E vien fatto allora di supporre che propriamente sia la ‘pena del giudizio’ a essere chiamata in causa nell’invocazione pasoliniana: quella ‘pena’ che faceva dire a Carnelutti che una sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario e che Natalino Irti, recentemente commentando proprio quelle sue pagine, ha compendiato nell’afflizione del sentirsi giudicati.

    Ne abbiamo avuto dimostrazione nel ‘processo’ che, ormai quasi trent’anni or sono, è stato poi effettivamente celebrato nei confronti dei massimi esponenti della politica nostrana: ossia, nel processo contro Sergio Cusani, che attenti sociologi hanno per ciò definito come un vero e proprio “rituale di degradazione”, con l’arena processuale eretta a palcoscenico (per l’occasione, televisivo) dell’assassinio rituale di un intero ceto politico e la pubblica accusa a denunciarne l’indegnità morale affinché si compisse, uno actu, la sua separazione dal corpo sociale e la purificazione del pubblico chiamato ad assistervi.

    E come nei precedenti illustri di fra Diego La Matina e, prima di lui, di Domenico Scandella detto Menocchio (il primo conterraneo di Sciascia, il secondo di Pasolini), in quel processo non si sono udite che le accuse; e se per Menocchio e fra Diego ciò era dipeso dalla procedura del Sant’Uffizio, che raccomandava che “nelle sentenze non si cavino li motivi e le raggioni che dona il reo […] perché si afferma che alcuni s’hanno imparato sentendo queste sentenze”, nel caso degli uomini politici interrogati nel corso del processo Cusani si dovette più banalmente al fatto che erano tutti imputati (o ancora semplici indagati) di reato connesso e non parti di quel processo.

    E anche in questa occasione, come già per le processioni del Sant’Uffizio a cavallo, tanta gente si mosse per godere la scena: l’audience di “Un giorno in Pretura” raggiunse picchi impensabili; e ad ognuna delle cinquantuno udienze in cui si dipanò il dibattimento, code di bravi cittadini si formavano fin dal mattino presto davanti al Palazzo di Giustizia milanese per accaparrarsi ognuno un piccolo spazio nella parte dell’aula accessibile al pubblico, sì da poter anche loro carpire una qualsiasi reliquia visiva della ‘giustizia’ che si offriva al loro godimento. E da ‘code’ simili, del resto, quel processo si era originato: e di cittadini meno bravi, ma che non chiedevano altro che di confessarsi delle loro colpe negli uffici al quarto piano della Procura della Repubblica e quasi guidavano la mano dei giudici verbalizzanti a vergare il futuro capo d’imputazione.

    E nessuna importanza, naturalmente, si diede all’ammonimento, che pure emerse, che l’annichilimento dei partiti politici avrebbe implicato l’emergere in vece loro di ‘cose’ assai meno democratiche e assai più asservite al ‘nuovo potere’: Max Weber avrebbe probabilmente scorto in quel processo la celebrazione della Gesinnungsethik, l’irresponsabile “etica dei principî”; e Michel Foucault, certamente, una cerimonia attraverso cui quel ‘nuovo potere’ si manifestava in tutto il suo splendore.

    Toccherà perciò ad un avvocato, e non ad un giudice, cavare la morale, accostando provocatoriamente la ‘delega’ attribuita alle Brigate Rosse per assassinare Moro e quella alle procure di mezza Italia per mandare al rogo la ‘partitocrazia’. E anche a noi vien fatto di dire che terrificante è il processo, quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione lo dominano o vi si insinuano; e che in quel ‘fare i nomi’ da parte di uomini che con gli accusati avevano condiviso il potere (e non sempre come minori responsabili) stava, in definitiva, il vero colpo di Stato.

    Eppure, può senz’altro capitare che dalla macchina processuale (“quel congegno indiavolato di stantuffi e di pulegge”, come se l’immaginava Saru Argentu, inteso Tararà, in una celebre novella di Pirandello) venga fuori una qualche scheggia o un frantumo di una verità ignota, che – come leggiamo nell’Alfabeto pirandelliano, ad vocem “Verità” – riesce nondimeno a rovesciare o a disgregare le apparenze delle menzogne convenzionali; o quanto meno, aggiungiamo noi, a svelarne l’intima struttura.

    È il caso del ‘processo’ ad Aldo Moro: nei cui ‘atti’ fortunosamente pervenutici (il Memoriale, da poco criticamente edito per la cura della Direzione Generale degli Archivi dello Stato) leggiamo che “di fronte a molteplici richieste circa gli assetti economico sociali dell’Europa di domani, ed in essa dell’Italia, devo dire onestamente che quello che si ha di mira è il rinvigorimento, su base tecnocratica, del modo di produzione capitalistico”; e che “il nerbo della nuova economia, assunto come condizione di efficienza, è l’imprenditorialità privata ed anche pubblica con opportuna divisione del lavoro”.

    È detto con le parole di Moro: ma si tratta precisamente della sostanza del ‘nuovo potere’ di cui scriveva Pasolini. E non solo negli articoli raccolti negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, ma coevamente ad essi in quel romanzo incompiuto che è Petrolio e che, secondo la testimonianza di Paolo Volponi, avrebbe dovuto essere, nell’intento del poeta, la sua summa politica.

    Ne è prova il testo di una conferenza di Eugenio Cefis (allora presidente della Montedison e personaggio chiave, ancorché sotto mentite spoglie, del romanzo pasoliniano) che il poeta intendeva collocare a metà del romanzo: “La mia patria si chiama multinazionale”, giusta il titolo con cui, nel 1972, l’aveva pubblicata “L’erba voglio”, la rivista di Elvio Fachinelli; e vi si raccontavano “le prospettive di un’economia senza confini” (così, invece, recitava il titolo originale della conferenza), prevedendosi che, di lì a trent’anni, oltre due terzi della produzione industriale mondiale sarebbe stata in mano alle duecento o trecento maggiori società multinazionali e si sarebbe assistito allo svuotamento del potere politico nazionale a tutto vantaggio delle direzioni delle grandi imprese; e ne sarebbero state travolte le stesse imprese di Stato, che rispondendo direttamente al potere politico avrebbero avuto grosse difficoltà a far concorrenza ai nuovi Moloch dell’economia mondiale, assai più liberi di muoversi da un Paese all’altro; e mentre agli Stati non sarebbero rimasti che compiti di mediazione tra le imprese e nei loro rapporti con i sindacati e i poteri locali, ne sarebbe venuta la necessità di ripensare lo stesso ruolo delle forze armate (Cefis si rivolgeva agli allievi dell’Accademia militare di Modena): le quali, in un mondo unificato sotto le insegne del capitale finanziario, non avrebbero più combattuto per difendere i confini nazionali, ma avrebbero dovuto trasformarsi in apparati professionalmente organizzati capaci di intervenire ovunque fossero in gioco i valori di ‘libertà’ e ‘democrazia’.

    Annotando quella conferenza per la rivista di Fachinelli, un soi disant Giorgio Radice (e diciamo così perché pare si trattasse in realtà di Giuseppe Turani, allora in forza all’Espresso e poi destinato a partecipare delle grandi fortune editoriali della Repubblica di Scalfari) ebbe a chiedersi se questi padroni planetari che avrebbero fatto fuori gli Stati e i partiti nazionali non incarnassero potenzialmente “un nuovo fascismo”: “saltano, insomma, tutte le mediazioni politiche: restano di fronte i padroni e i sindacati operai”, ma i primi sarebbero stati “gli unici capaci di dare un lavoro, i mezzi tecnici, i soldi, oltre che agli operai, anche ai militari”.

    E fu giudizio che Pasolini fece suo: meno di due mesi dopo aver ricevuto da Fachinelli la rivista con la conferenza di Cefis, intervenendo alla Festa provinciale dell’Unità di Milano, esortò i militanti comunisti a leggere “il discorso di Cefis agli allievi di Modena”, ché vi avrebbero trovato una nozione di ‘sviluppo’ affatto coerente con la visione del mondo del ‘nuovo potere’ che si andava affermando: “una nozione di sviluppo come potere multinazionale, fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio paese”, e che avrebbe bensì dato “un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo”, ma per far assestare in sua vece “una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa”: “il vero fascismo”, dirà poco dopo all’Europeo, da cui poi sarebbe disceso “l’antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime”.

    Pasolini ne scrisse un’ultima volta in una lettera pubblica a Italo Calvino, la medesima da cui abbiamo tratto l’esergo a queste annotazioni e che Sciascia considerò, al pari della sua morte, una “testimonianza di verità”: la verità sulla forma di vita in cui oggi viviamo e che, per menzogna convenzionale, chiamiamo appunto ‘democrazia liberale’.

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