GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Dalla “eccezione” al “miracolo”. Seguendo con il Dante di Steinberg i movimenti della geografia giuridica e politica

    Dalla “eccezione” al “miracolo”. Seguendo con il Dante di Steinberg i movimenti della geografia giuridica e politica

    di Maura Caprioli*

    Le riflessioni di Justin Steinberg sull’impalcatura di matrice legale che è sottesa all’opera di un Dante-giudice sono l’occasione per un ripensamento sui percorsi del pensiero giuridico e sulle argomentazioni che ne sorreggono le conclusioni.

    Partendo così da Steinberg si deve dare oggi risposta, secondo l’autore, alle domande che vengono dal mercato globale e dall’espandersi dell’intelligenza artificiale che sembra aver tolto all’uomo il monopolio della volontà.

    Un ripensamento che si muove sulla scia del pensiero speculativo novecentesco incentrato sui problemi dello spazio e del tempo popolato dagli eventi che modificano continuamente la realtà e il suo ordine.

    Sulla base di queste premesse si approda ad una storicità che, concepita come sapere critico, tende a superare l’astrattezza dei concetti.

    Dall’ordine giuridico come potere si passa all’ordine giuridico equilibrio di poteri, all’ordine giuridico come creazione di istituzioni. Il tutto in un quadro che si muove secondo nuove fonti ispirate all’efficienza e alla competitività economica e al superamento di ogni forma di tipicità.

    Questo armamentario giuridico operando “nei grandi spazi” aperti al gioco delle grandi Potenze determinano una interdipendenza economica ai cui rischi tutti sono interessati.

    Interdipendenza che dà un nuovo senso alla territorialità seguendone un nuovo concetto di effettività che deve essere sorvegliata. In un quadro normativo che riscopre il concetto del quasi costituzionale.

    Come risposta a quel potere che sembra non raggiungibile da ogni responsabilità che solo lo legittima, reso invisibile da quel labirinto nel quale la stessa oggi sembra identificarsi.

    Ogni tempo ha una responsabilità fondamentale: quella di darsi strumenti per risolvere i problemi che deve affrontare. 

    Sommario: 1. Dall’era di Prometeo a quella di Epimeteo passando per il pensiero politico e giuridico di Dante - 2. Alla ricerca di un “ordine del tempo”. L’accadere degli eventi ed il cambiamento del mondo. La storia del domandare infinito: la verità è nella risposta successiva. Il segreto della domanda - 3. La scelta della domanda come momento costruttivo del Sistema. Dall’ordine come “potere”, all’ordine come equilibrio di potere. Il ruolo conoscitivo della politica estera - 4. Che cos’è l’acqua? L’innominabile attuale nella storicità del diritto. La crisi delle fonti. L’eccezione come fatto duraturo - 5. È necessario tagliare la storia a pezzi? Dal cambiamento alla metamorfosi. I diversi ruoli e significati della natura e la necessità di una rifondazione assiologica - 6. Il logos si è fatto macchina. La ricerca dell’Umanesimo ai diversi confini della soggettività. 7.Ordine giuridico come costruzione di istituzioni. Fenomeni globali e fenomeni mondiali. L’uso della legge e del mercato - 8. I grandi spazi e le zone di influenza come strumento conoscitivo - 9. Dall’anomia all’atopia. Il ruolo e il significato geopolitico del “territorio”. Verso una nuova definizione di effettività - 10. Dal gioco delle regole al quasi costituzionale. La gomena di Bodei e la “responsabilità” del nostro tempo - 11. Quasi una conclusione. Le domande rimbalzano di continuo.

    1. Dall’era di Prometeo a quella di Epimeteo passando per il pensiero politico e giuridico di Dante

    Di grande interesse queste letture del pensiero di Dante che Justing Steinberg sottopone alla nostra attenzione, e con le quali stimola le reazioni che oggi suscitano il racconto di un “ viaggio”, nello spazio e nel tempo. Un viaggio popolato da storie che – raccontato con un nuovo linguaggio: il c.d. volgare evoca una visione profetica del mondo indirizzato verso nuovi equilibri politici e sociali, e verso nuove regole.

    Letture raccolte in due saggi che affrontano, e valutano il tempo storico nel quale il Poeta ha vissuto, leggendolo con un linguaggio del tutto particolare: quello dell’esperienza giuridica e politica e dei suoi strumenti operativi e concettuali. Quello normativo.

    In uno, affidando un ruolo centrale al caso limite, ed esplorandone le eccezioni per elaborare la sua geografia normativa (1). Nell’altro focalizzando l’attenzione sul miracolo – strumento a lungo proprio dei teorici politici- per discutere il problema della legittimazione dell’assolutismo papale, ed opporre ad una concezione assolutistica dei giuristi canonici del tempo una visione più “normativa” del miracolo (2).

    L’orizzonte del discorso è di complessa profondità se, come penso, la sostanza che pone la domanda è quella di affrontare le problematiche della storia attraverso la quale costruire l’esperienza giuridica.

    In questo senso – ci insegna Paolo Grossi che considera il diritto “ storia vivente” – la storia deve concentrare l’attenzione sul formarsi delle tipicità. E per questo deve “fondarsi su un sapere analitico, su una documentazione che aiuti la sua esplorazione volta a scegliere ( e comprendere) il groviglio esperenziale, ma deve ugualmente aprirsi a quelle intuizioni forti che vanno al cuore di una vita comunitaria dove la legge è una mal sopportata violenza legale mentre una realtà non scritta ma onnipresente, la mentalità, contribuisce in modo determinante a generare un costume ed una osservanza condivisa” (3).

    Pensiero che è ancora più complesso se il richiamo al passato è un modo per parlare del presente, e mi chiedo se in questa logica l’ambizione non nascosta di Steinberg non sia quella di usare il passato per recuperarlo, ma di svegliare il presente ripensandone le radici (4).

    Una riflessione che assume toni di alta suggestione quando, a chiusura del suo discorso, si affida all’immagine divina con una suggestiva analogia, la quale ai miei occhi unisce i due saggi qui analizzati.

    Quella del Poeta, che, come Dio, per mezzo del suo angelo discende sulla sua creazione e con la sua mano ne modella l’opera.

    Stimolante analogia che, quando solleva l’interrogativo su cosa veramente significhi, per l’artista umano, intervenire sulla sua creazione, trasferisce al rapporto tra creatore e creato l’inquietante domanda sulla natura e sulla responsabilità dell’essere. Domanda carica di notevoli implicazioni che si dirigono verso molteplici orizzonti.

    Il nostro tema si collega all’orizzonte culturale che, dal secolo scorso, ha posto al centro del suo pensiero speculativo proprio il problema dell’essere – il quale vive nello spazio e nel tempo - contrapponendolo alla verità e al nulla. Contrapponendo la verità alla storia per arrivare alla post verità, ponendo così il pensiero speculativo davanti ad un interrogativo che costituisce uno dei bivi cruciali della nostra conoscenza e del nostro sapere. Quello se il percorso della nostra esperienza sia tracciato da una verità senza storia, o non sia invece tracciato da una storia senza verità.

    Pensiero “questo di Steinberg” che, attraverso la sopradetta similitudine, restituisce alla nostra attenzione una figura non consueta del Poeta.

    Il Dante che ci viene rappresentato appare distante da quello che ci ha consegnato la nostra cultura erede dell’insegnamento di Benedetto Croce, e più vicino a quella che Hegel ne ha intravisto nella sua Estetica. Infatti la sua “opera” è avvicinata, seguendo Hegel, a quella di un giudice che è allo stesso tempo – ed è questa particolarità ad essere motivo peculiare – ora narratore, ora artista, ora artigiano, ora creatore.

    Un giudice singolare nella molteplicità di funzioni di cui partecipa, e che, con diversi linguaggi, ne costruiscono il ruolo.

    Funzioni che, come nuovi angeli, da un lato lo distaccano dalla sua opera, dall’altro, lo accompagnano lungo un viaggio che lo porta a scavare il diritto canonico, e a dialogare con la cultura teologica e istituzionale per costruire una nuova geografia giuridica del potere umano nella sua dialettica con quello divino.

    Una geografia che parla, come all’origine ha parlato lo stesso Dio, con la voce della legge, che è la voce dell’ordine. Che è la voce di ogni ordine (5).

    Per questo la sua narrazione assolve al compito di definire i confini del potere, dei quali - ed è questo uno dei momenti più intensi del pensiero di Steinberg – con una terminologia moderna ( il riferimento alla costituzione) si ricerca la fonte e le sue conseguenze normative in un ottica che evoca quella che possiamo considerare oggi come una visione di sistema.

    Una riflessione che se pure si confronti con il contesto politico del tempo e con gli strumenti teorici utilizzati – a lungo discutendo circa il peso del miracolo nella legittimazione dell’assolutismo papale, e sulla sentita necessità di pensare ad un contrappeso istituzionale – è indicativa degli spazi che possono essere utilizzati. Come è via via avvenuto, seguendo una dinamica che è arrivata al punto di rendere evanescente la distinzione tra interpretazione e creazione, tra legge e diritto.E sul cui sfondo aleggia l’incandescente tema della Giustizia (6).

    Dove ci porta Steinberg quando ci invita a pensare? Il suo invito respira l’atmosfera che vive nell’occidente una crisi di civiltà non solo per quanto attiene al fondamentale concetto di “democrazia”, ma anche per quanto riguarda il tramonto dei termini chiave della sua civiltà identificati nella profezia ed utopia ad esso connessi (7). Che respira il rimpianto del passato, nella convinzione nostalgica che una volta il futuro era migliore (8).

    Cosa dobbiamo cogliere del suo domandarsi in un tempo in cui sembra essersi chiusa l’età della potenza prometeica – la quale consentiva di credere nella sintesi di tempo e concetto, di progettare la storia organizzandone e contenendone energie e soggetti – superata dalla grandiosa rivincita di Epimeteo. Titano del quale ben poco c’è dato di sapere. Solo che – secondo l’efficace ed inquietante immagine di Massimo Cacciari – “Prometeo si è ritirato o è stato di nuovo crocefisso alla sua roccia. Epimeteo scorrazza per il nostro globo scoperchiando sempre nuovi vasi di Pandora” (9).

    2. Alla ricerca di un “ordine del tempo”. L’accadere degli eventi ed il cambiamento del mondo. La storia del domandare infinito: la verità è nella risposta successiva. Il segreto della domanda

    Le forti sensazioni che queste immagini ci trasmettono impongono di attraversare il succedersi storico degli orizzonti dei fatti e delle idee e di ritornare sul terreno dei concetti per coglierli non nella usuale dimensione statica, ma, addentrandoci in quel processo dinamico che ne evidenzia la concretezza storica, la loro natura e funzione strumentale.

    Cammino che ci costringe ad attraversare una strada accidentata, e sempre da esplorare.

    Ci costringe ad entrare in quel mistero che è stato definito il problema dell’ordine del tempo (10), e cercarne una lettura.

    Ordine che, da un lato, come è scritto nelle tante cattedrali della filosofia costruite attorno, è la misura del cambiamento tramite il quale studiare le metamorfosi del mondo. E che, dall’altro, nel suo porsi come mistero, riguarda ciò che noi siamo in quanto artefici di quegli eventi, che del suo divenire, ne segnano le strutture (11), riportandole indietro all’emozione del mito, al quale ancora guardiamo per dare oggi legittimità ai nostri giudizi. Al quale ci affidiamo con la forza persuasiva del pre-giudizio che così ne diventa l’a-priori il quale, esso stesso come potere e fonte, trasmette alle nostre argomentazioni la logica dei principi (12).

    Da questa ottica discende un corollario che è utile, se non proprio necessario, sottolineare.

    Il racconto del passato e il richiamo ad un sistema di “concetti” che Steinberg ci propone, risponde ad una esigenza: quella di parlare di noi, oggi e di parlare del cambiamento che si svolge attorno a noi e con noi.

    E questo che dà senso e struttura istituzionale alla sua sollecitazione rivolta al pensare. Per raccoglierne l’invito non dobbiamo fare l’esegesi critica del suo ragionare sul diritto canonico, ma andare oltre e porci una serie di domande.

    Dobbiamo chiederci con quali occhi noi guardiamo al “racconto” che viene sottoposto alla nostra attenzione.

    Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo però capire con quali occhi, e allora con quali domande, lo stesso Steinberg ha guardato al pensiero di Dante.

    Dobbiamo entrare in quel gioco senza fine diretto a svelare quello che, definito come il segreto della domanda, ci introduce nel profondo mistero dell’esperienza la quale sfugge ad ogni rete concettuale di comprensione, rispetto alla quale c’è sempre un fuori.

    Non è certo un paradosso dire con Oscar Wilde che se hai trovato una risposta a tutte le tue domande vuol dire che le domande che ti sei posto non erano quelle giuste.

    Come è illuminante l’insegnamento di Martin Heidegger quando, acutamente, prospetta alla nostra riflessione che non sempre una domanda chiede una risposta. Domanda che, a suo dire, secondo il grande filosofo, chiede di essere dispiegata, affinché ceda quello che ha di più essenziale e dischiuda i riferimenti che si aprono quando ci si appropria di ciò che segretamente custodisce.

    Per questo, sempre per il grande filosofo la risposta è solo l’ultimissimo passo del domandare.

    Infatti una risposta che congeda il domandare – ci avverte – annienta sé stessa come risposta, e non è quindi in grado di fondare alcun sapere, ma solo di consolidare il mero opinare (13).

    Sulla scia di queste autorevoli affermazioni è ora Umberto Galimberti a riportare la nostra attenzione sul percorso tracciato dal domandare infinito.

    La vera risposta – egli afferma – “non è quella che chiude il discorso, ma quella segretamente costituita dalla domanda successiva”, la quale, con l’ insistenza infinita dell’onda sulla stessa riva, modifica il profilo della terra. Per questo nessuna risposta è ultima perché così vuole l’essenza dell’uomo, che è quella di un viandante senza meta (14).

    Portare l’attenzione sul continuo domandare, collegandolo al mutare delle cose, è certo una importante scelta di campo che, però, rischia di disperdere il suo significato specifico se, rimanendo a livello astrattamente speculativo non si entra nel concreto del domandare.

    Se non si entra in quell’interminabile, e continuamente aggiornato campionario di domande, che, sollevandosi da una visione piatta, evidenzia tutta la sua profondità, ponendo davanti ai nostri occhi i diversi livelli di questo gioco, ed il loro convivere su molteplici orizzonti.

    Ed è in questa prospettiva che vediamo i germi che sono all’origine del domandare ruotare, per un verso, attorno al io, al tu al noi coniugandosi con il mio, il tuo e il nostro, che, a loro volta, assumono ulteriori significati quando si riferiscono ad una molteplicità di oggetti. E che, per altri versi, concorrono a sollevare ulteriori interrogativi che alimentano a loro volta un evolversi di strutture, tutte condizionate dall’uso che le diverse forme di potere – modellato dall’esperienza che gli effetti hanno determinato – provocano.

    Non ultimi quei troppo spesso trascurati effetti collaterali, che, uniti alle eccezioni prodotte dal frantumarsi della realtà, diversificano ad ogni livello la natura degli strumenti e delle strutture e le cui connessioni ne indirizzano le dinamiche verso storiche soluzioni istituzionali.

    Anche questo però rischia di mettere in ombra un ulteriore aspetto della domanda.

    Quello per cui possiamo dire che nella stessa domanda c’è già un momento decisionale.

    Infatti non possiamo non rilevare che la domanda che si pone è il risultato di una scelta tra diverse domande possibili. Non possiamo non rilevare che la stessa domanda non è mai neutra.

    Sarebbe il caso di dire che è il risultato di una “lotta” tra diverse opzioni per scegliere come orientare la soluzione dei problemi che i fatti generano, e che assumono una loro logica interpretata dagli attori sociali, i quali ne sono gli interlocutori, e i fautori politici delle domande.

    Domande che ispirano quelle dicotomie che si pongono poi alla base di ogni ragionamento costruttivo.

    Di questo discorso troviamo esempio significativo ed emblematico quando, negli anni ‘70 del secolo scorso, ci si interrogava sul primato della politica sull’economia e dell’economia sul diritto, e se questo comportasse la riforma dell’impresa o la riforma dello Stato (15), e sul modo di essere all’altezza dei tempi mantenendosi “ sistematicamente in contatto con i problemi” (16).

    Per affrontare le sfide conoscitive dei tempi è quindi indispensabile individuare le domande che gli stessi tempi pongono, e rispetto ai quali si danno “risposte “ le cui premesse non sembrano oggi misurabili, come nel passato, da una verità assoluta, ma soggette a congetture e confutazione prodotte dai diversi effetti che, con la loro scelta, si determinano nel mondo delle cose e nella storia delle idee. Di qui la centralità del Politico, debole o forte  che sia nei cui” specchi “vediamo riflettersi il formarsi e trasformarsi del Potere. E le strutture nelle quali questo si organizza.

    3. La scelta della domanda come momento costruttivo del Sistema. Dall’ordine come “potere”, all’ordine come equilibrio di potere. Il ruolo conoscitivo della politica estera

    Entrati in questa logica si deve necessariamente prendere atto che la stessa “domanda” è, a sua volta, risultato di una costruzione alla quale si arriva per diverse vie.

    Vie che percorrono le esperienze più svariate calpestando sentieri modellati da continue deviazioni che si diramano in una crescente complessità di architetture e di orizzonti e che poggiano su

    architravi rese variabili dalle atmosfere culturali determinate dalla natura dei fatti, i cui semi disegnano il paesaggio e lo modificano.

     In questa prospettiva trovo significativa la digressione che spinge Gustavo Zagrebelsky a suggerirci, nel suo stimolante saggio su Antigone, la necessità dell’interdipendenza – oggi tutt’altro che pacifica- tra legge e diritto (17).

    Necessità questa non contestabile se, come si argomenta, si entra nella logica che il diritto senza legge diventa cieca conservazione, e che la legge senza diritto si riduce ad un puro potere dispotico.

    È in questo clima che il citato autore riprende la lettura che ha fatto Walter Benjamin dell’Angelus Novus di Klee, vedendo in Antigone la figura rappresentativa della frattura dell’unità e dell’affermazione della duplicità dell’essere umano e delle sue opere. Quelle opere con le quali, riprendendo la tragica storia occidentale fatta da Heidegger, “ cambia il mondo ma lo divide e dalla divisione scaturiscono le tragedie di cui è fatta la sua storia, il suo progresso “. È questa la tragedia che viene raccontata dall’Angelus della storia che ha il viso, rivolto al passato, impietrito e impotente per le cose che ha il potere di contemplare tutte in una volta. Che è inarrestabilmente sospinto verso il futuro da una tempesta che noi chiamiamo “progresso”, mentre un cumulo di rovine, alzandosi fino al cielo, ne sono l’ infranto che non si può ricomporre (18).

    A questo punto non sorprende certo se, ispirati dalla dotta citazione sopra riportata, la nostra memoria si inerpica sugli spalti di Duino dai quali Rilke con il terribile angelo, delle sue immortali Elegie- affacciandosi in quella “solitudine mossa solo dalle passioni dello spazio cosmico”, nella quale era stato gettato l’uomo della modernità –, vedeva con Kafka e Musil, l’inarrestabile disgregazione dell’età della sicurezza (19).

    Disgregazione della quale l’angelo è il terribile simbolo in quanto funzione e segnale di una energia di trasformazione. Trasformazione nella quale si è compiuta poeticamente la metamorfosi del visibile nell’invisibile, e attraverso la quale è lo stesso angelo a garantire il riconoscimento nell’invisibile di un rango più alto di realtà (20).

    Lascio al lettore il piacere di cogliere i sottintesi di questa costruzione poetica. Mi preme però rilevare e chiedermi se a una visione inconoscibile tra visibile e invisibile non finisca con il richiamarsi lo stesso Thomas Eliot, quando si chiedeva: “dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? / dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo ? / dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione”? (21).

    Versi che ispirati evidentemente anch’essi ad un mondo perduto, aprono la strada alla necessità di affrontare queste domande servendosi delle categorie della storia.

    Ad essi non a caso si è richiamato Henry Kissinger per disegnare un affresco che ci riporta al fondamentale tema del fatto, del quale evidenzia le nuove dimensioni sottoposte, da un lato, alla pressione di quella frantumazione della cristianità che ha cambiato il corso della storia e, dall’altro, alle successive guerre di religione alla cui chiusura si ricollega il nascere della stessa idea di modernità. Modernità identificata poi nella crescente autorità dello Stato e nel conseguente monopolio della legge come punto di riferimento di un ordine la cui frantumazione affidava – come ben mette in risalto il grande politologo- la sentita necessità di ricomposizione globale, ad un inedito strumento.

    Strumento identificato non tanto nella politica ma in un suo particolare aspetto: quello della Politica estera.

    “I fatti – ci avverte- di rado si spiegano da soli: la loro analisi e la loro interpretazione – almeno nel mondo della politica estera – dipendono dal contesto e dalle reciproche relazioni” di conseguenza, si osserva criticamente, se un numero sempre crescente di questioni è trattato come se fosse di natura fattuale si consolida il presupposto che per ogni domanda debba esserci una risposta da cercare, e che problemi e soluzioni non devono tanto essere analizzati, quanto cercati (22).

    L’osservazione critica legata al problema domanda / risposta sottintende una importante riflessione metodologica. Infatti ponendo il suo centro di riferimento non in una astratta idea di politica ma nella concreta politica estera il discorso assume una portata di carattere istituzionale. Il concetto di ordine sul quale stiamo riflettendo trascende il suo più stretto legame con la legge per assumere una portata ben caratterizzata.

    In questo senso la politica estera, e in ragione del suo oggetto, apre le porte al concetto di ordine mondiale. Ordine che, frantumato nella sua originaria unità si veste di un nuovo contenuto, che porta il terreno di analisi su un piano diverso: non quello di affermazione e imposizione di un potere sugli altri, ma quello di equilibrio di potere tra le forze.

    Su questo particolare discorso ci accompagna Kissinger ritornando nelle sue analisi ai problemi posti dalla pace di Westfalia, e alla fine delle guerre di religione e alla frantumazione della cristianità nelle sue molteplici forme.

    Infatti il monopolio della sovranità, nella sua dimensione territoriale che ne seguiva, lasciava lo scacchiere internazionale, per dirla con le parole Hobbes, allo stato di natura e soggetto all’anarchia.

    A questa situazione, e alla luce delle sue cause si poteva ovviare istituzionalizzando un ordine internazionale sulla base di regole e limitazioni concordate da una molteplicità di potenze e non dal dominio di una singola forza.

    Quello che Kissinger ci descrive è un concetto di ordine mondiale soggetto, per sua natura, ad un precario equilibrio, quella che racconta è una storia di fratture che si susseguono, nell’ambiguità e nell’opacità dei comportamenti degli attori politici.

    Comportamenti che non a caso nei fatti, non trovavano il consenso su alcuni punti fondamentali rispetto a quelle che dovrebbero essere le strutture dell’ordine.

    Concetti quali democrazia, diritti umani e diritti internazionali – afferma Kissinger – vengono interpretati in modo talmente divergente che le parti in conflitto le invocano regolarmente l’uno contro l’altra come grida di battaglia (23).

    Le regole del sistema sono state promulgate ma si sono dimostrate inefficaci in assenza di una imposizione attiva: il sistema Westfaliano non forniva il verso della direzione in cui procedere, ma consentiva di utilizzare i momenti di forza delle singole potenze, e di utilizzare gli spiragli normativi – si pensi alla gestione degli accordi di Bretton Woods – per affermare la logica e gli interessi delle potenze dominanti e dei sistemi economici emergenti.

    Il risultato è stato quello di dare spazio ad una continua modificazione attraverso i fatti delle strutture giuridiche governata dalla spinta che non viene solo da una trasparente officina delle cose.

    Ma che ha qualcosa di ben più inquietante: una spinta invisibile ma di fondamentale incidenza.

    Lo spazio si è riempito di materia e antimateria provocando una preoccupazione di cui si è fatto interprete Noberto Bobbio descrivendo il nostro sistema di potere nella sua realtà.

    Sistema del quale, affermava, nulla si capisce se non si è disposti ad ammettere che al di sotto del governo visibile che agisce nella penombra e ancor più in fondo un governo che agisce nella più assoluta oscurità esiste un potere invisibile che agisce accanto a quello dello Stato, insieme, dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente sotto altri connivente, che si avvale del segreto non proprio per abbatterlo ma neppure per servirlo.

    Del resto, aggiunge, chi promuove forme di potere occulto e chi vi aderisce vuole proprio questo: sottrarre le proprie azioni al controllo democratico, non sottostare ai vincoli che una qualsiasi costituzione democratica impone a chi detiene il potere (24).

    Preoccupazioni alle quali Remo Bodei – consapevole, con Sorrentino, che il potere reale comincia dove inizia la segretezza (25) – si richiama per metterci in guardia entrando in un nuovo percorso e su un nuovo piano dell’esperienza, contro l’uso dell’intelligenza artificiale al servizio delle possibili dittature e dei big data da parte dei poteri militari, finanziari e politici, per spiare potenzialmente tutti i cittadini, per influenza le elezioni, e per favorire gli interessi di ristrette oligarchie (26).

    Il Logos che si fa macchina -secondo l’efficace immagine di Bodei- è oggi uno degli strumenti decisivi per aprire ad un nuovo ordine, a nuove forme di volontà e, determinare le gerarchie del potere e delle potenze in campo.

    A tutto questo lucidamente si ispirava Kissinger avvertendo che “ogni ordine internazionale deve prima o poi affrontare l’impatto di due tendenze che ne mettono in dubbio la coesione: la ridefinizione della legittimità, oppure un significativo cambiamento nell’equilibrio di potere” (27).

    Per questo, il grande politologo ci dice che la sfida fondamentale al giorno d’oggi è una ricostruzione del sistema internazionale.

    Una sfida che, per quanto necessaria è disperatamente ricercata, appare di difficilissima praticabilità.

    Il fatto è – afferma Calasso riprendendo la problematica posta da Kissinger che coniuga il linguaggio vestfaliano a quello del ciberspazio che sfugge a ogni dimensione- che non esiste più uno spazio circoscritto e sommariamente regolamentato entro cui si svolge la politica (28).

    A questo punto mi chiedo se non ci si congiunga, in qualche modo, al pensiero di Gadamer, ad una filosofia per la quale  tirare le file di quanto accade intorno a noi è importante per scoprire, più che il tessuto di cui è fatto il reale, la tela di ragno in cui siano impigliati ”(29).

    4. Che cos’è l’acqua? L’innominabile attuale nella storicità del diritto. La crisi delle fonti.

    L’eccezione come fatto duraturo

    Alla luce di un discorso che comincia ad apparire in tutti i suoi molteplici orizzonti non può certo destare stupore se, per rimanere nel campo delle autorevoli testimonianze di quanti vivono ogni giorno nella prima linea operativa, un giurista di grande esperienza e di responsabilità come Pietro Curzio sia stato colpito da un aneddoto raccontato da Wallace, utilizzandolo per porre un interrogativo angosciante, non solo per i giuristi.

     A due giovani pesci – ci racconta – viene chiesto da un pesce anziano che nuota in senso contrario come fosse l’acqua. I due giovani pesci nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e gli chiede: che cavolo è l’acqua?

    Il senso di questo racconto – commenta Curzio (30) – è che le realtà più ovvie, onnipresenti ed importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere.

    Il che è certamente vero. Quello che però a me colpisce del citato racconto, che pure sento essere presente nella stessa riflessione di Curzio, è un altro elemento, il quale per certi aspetti, riguarda l’ordine del tempo.

    Tra i pesci giovani ed il pesce anziano quello che maggiormente rileva è lo scontro fra generazioni: il pesce anziano mostra di conoscere l’acqua mentre i pesci giovani non sanno più cosa sia.

    I pesci più giovani hanno perso la consapevolezza dell’ambiente da loro abitato.

    La distanza tra le generazioni è il risultato del divenire dell’essere, e del cambiamento. È la conseguenza del fatto che, come ben coglie la sensibilità del giurista appena citato, la vita è tale perché non può essere ridotta in categorie ed in elenchi, e pertanto non può essere tipizzata in soluzioni preconfezionate.

    Di questo è corollario, da un lato, il ricorso ad una tecnica legislativa non più caratterizzata da fattispecie rigide e ben identificate dal legislatore ma  a clausole generali o a norme elastiche. Dall’altro, il richiamo al pensiero di Gino Giugni ricordandone l’importante insegnamento ricevuto che invitava “a non studiare solo il diritto perché chi conosce solo il diritto non conosce il diritto”.

    Stupendo paradosso dal quale non è facile uscire, e che, come un’ombra, accompagna la riflessione del giurista che nel suo conoscere e fare scienza, non può non interrogarsi su come fa il non diritto a diventare diritto.

    Domanda che induce a non limitarsi alla filosofia ma ad allargare la fonte di conoscenza per approdare alla storia.

    Storia che è “sapere”, nella misura in cui non ne perde il suo significato speculativo, e che si pone come modo di filosofare dal momento che si ha la consapevolezza che le filosofie, anche le più strane, si generarono e dettero voce a esigenze reali e risposero a precise richieste. Che chiarirono gli uomini a se stessi e le svincolarono da illusioni, e dettero ad essi ideali, e mezzi di convivenza e li aiutarono a foggiarsi più adeguati strumenti d’indagine e di lavoro (30 bis).

    In questo senso è necessario entrare negli avvenimenti che popolano la storia, e dai quali emergono ora il prevalere di culture religiose, ora di culture politica, ora di culture economiche, ora di culture tecniche.

    Ognuna delle quali si sviluppa imponendo una logica che ne ispira le reti di connessione e i loro intrecciarsi.

    Uno storicismo che attraverso il sapere critico è sottoposto all’affascinante e tormentata arte dello sguardo con la quale “ogni età e ogni generazione mette i diritti alla prova” (31). E questo secondo conflitti dei quali il ricorso alla natura delle cose, alla natura dei fatti, alla natura degli eventi dimostra la tipologia dei cambiamenti espressa dalla discussione sulle fonti.

    Un maestro come Paolo Grossi, così tralascia la ricerca di una definizione ontologica del diritto per seguire la comprensione della storicità nei suoi complessi processi che sono caratterizzati, da un lato, da perenni trasformazioni e, dall’altro, e allo stesso tempo, dal permanere di radici sotterranee.

    Ogni giurista – afferma P.Grossi – ha un disperato bisogno di categorie ordinanti perché i dati nella loro analiticità atomistica sono muti; così come – affidando il suo pensiero ad una suggestiva immagine – le pietre ammucchiate dal manovale sono una realtà informe in attesa delle capacità cognitive ed intuitive dell’architetto che le trasformeranno in una costruzione.

    Pertanto, se il diritto è storia vivente sarà la storia il laboratorio più idoneo all’ invenzione di categorie le quali debbono essere ordinanti, debbono essere capaci di ordinare il magma del reale, e lo potranno con efficacia solo se si misureranno su quanto quel magma pretende” ( 32).

    Immagini significativamente allusive di una storia che racconta un arco temporale che, sempre nella riflessione del grande storico, cerca la sua” fertilità” nella dialettica moderno – post moderno.

    Termine quest’ultimo che, pur definito “generica qualificazione”, assolve alla funzione di richiamare l’attenzione su quello che è considerato il tratto peculiare del difficile tempo che stiamo vivendo.

    Tempo il cui segno, a suo dire, “è la transizione, il transito cioè da una sponda solida ma ormai inservibile, la modernità, verso un approdo altrettanto solido ma diverso, che non abbiamo ancora raggiunto” distanziandoci sempre più dal luogo dell’imbarco per diventare sempre più post moderni, o il che è lo stesso meno moderni.

    Questo non vuol dire però che ci troviamo davanti ad una crisi del diritto. Ci troviamo davanti ad una crisi delle fonti che oggi si caratterizzano – ed è questo uno dei punti più ricorrenti del pensiero del citato autore- nel dover considerare strumenti spesso inservibili quei caratteri della legge che si sostanziavano nell’astrattezza, generalità e rigidità. Mentre al contrario ci offrono un indispensabile servizio fonti che esprimono il particolare ed il concreto e che sono dotate di una ormai necessaria elasticità (33).

    Queste immagini e queste affermazioni meritano una considerazione.

    Infatti il passaggio da una sponda ad un’altra, dalla modernità alla post modernità, assume un significato di straordinario rilievo che il richiamo al passaggio fra le due sponde forse non esplicita a sufficienza, mettendo paradossalmente in ombra la concretezza fattuale del suo divenire, che ne è la storia.

    Problema questo, del divenire, che ha un fascino straordinario, e che consiste nel dare un nome al presente il quale, stretto tra il passato ed il futuro (come ci mostra Carlo Rovelli nell’opera prima citata) sembra sfuggire ad ogni definizione. Quasi a dire che il presente universalmente non esiste.

    Difficoltà di cui è testimone la liquidità che lo stesso Paolo Grossi non sembra evitare quando risolve il problema richiamandosi al passaggio tra due sponde rispetto alle quali il passeggero appare senza un preciso confine che separi il più moderno dal meno moderno.

    Significativamente un raffinato studioso, come Roberto Calasso, sembra tradurre questa equivalenza con un'altra immagine, anch’essa carica di implicazioni sistematiche.

    Per chi vive in questo momento – ci dice – “la sensazione più precisa e più acuta è di non sapere ogni giorno dove sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee di sdoppiano, i tessuti si sfilacciano.

    Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’innominabile attuale”.

    Un mondo – secondo il citato autore- divenuto informe, grezzo e sempre più potente, e che, “elusivo in ogni singola parte” è l’opposto di quello che Hegel intendeva stringere nella morsa del concetto.

    È “un mondo frantumato anche per gli scienziati. Non ha un suo stile e li usa tutti” (34).

    Dare un “nome” che abbia un suo “profumo” e non rimanendo solo un nome, è quindi estremamente difficile. E non può non esserlo se all’origine ci troviamo davanti ad un paradosso, se è vero, come dice Cacciari che “ogni stato si configura secondo i suoi principi materiali e formali, come stato di eccezione; nessuno potrebbe mai ergersi a paradigma, pretendere di contenere l’inarrestabile farsi mondo (…).

    Eccezione in quanto nella sua forma attuale, non dovrà mai ripresentarsi.

    “Ciò che eternamente si ripete” – conclude il filosofo – “sarà l’eccezione stessa, ciò che eternamente dura è il continuo cambiamento” (35).

    Non possiamo peraltro non rilevare che anche il cambiamento è concetto destinato inevitabilmente, quando la riflessione si fa più sofisticata, ad assumere significati diversi, e ad aprire così nuovi sentieri e nuove riflessioni costruttive.

    5. È necessario tagliare la storia a pezzi? Dal cambiamento alla metamorfosi. I diversi ruoli e significati della natura e la necessità di una rifondazione assiologica

    Un grande sociologo, quale è stato Ulrich Beck, ponendosi la domanda su quale fosse il significato degli eventi globali che scorrono davanti ai nostri occhi, si è detto costretto ad ammettere che “non c’era nulla – nessuna idea-teoria- in grado di esprimere in termini concettuali il tumulto di questo mondo, come richiedeva il filosofo tedesco Hegel” (36).

    Questo tumulto – ci ha spiegato- non si può concettualizzare con le nozioni di cambiamento di cui dispone la sociologia, ossia in termini di evoluzione, rivoluzione o trasformazione.

    Noi viviamo infatti in un mondo che non sta semplicemente cambiando, ma che è nel bel mezzo di una metamorfosi.

    Cambiamento, precisa, significa che alcune cose mutano mentre altre rimangono uguali.

    Metamorfosi, invece, implica una trasformazione molto più radicale, in cui le vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di totalmente nuovo.

    Con l’idea di metamorfosi si apre un nuovo campo di riflessione. Un campo nel quale si rappresenta lo “stato” di un mondo la cui conflittualità ad ogni livello frantuma e fa appassire ogni certezza. Che

    peraltro non può non essere governata cercando sempre concetti ordinatori.

    In questo senso la periodizzazione (moderno-post moderno) – altro non è se non un modo di padroneggiare il tempo terreno e come tale costituisce uno dei più affascianti temi di storia in quanto non è mai un atto neutro o innocente.

    E non lo è perché non è un mero fatto cronologico ma esprime” l’idea di un passaggio”, di una svolta se non un vero e proprio disconoscimento nei confronti della società e dei valori del periodo precedente.

    E per questo costituisce un oggetto di riflessione essenziale per lo storico.

    La difficoltà di stabilire e di giustificare l’inizio di un periodo – considerando che, da un lato alcuni lunghi periodi sono stati caratterizzati da fasi di cambiamento importanti ma non fondamentali, e dall’altro, che si tratta di una operazione complessa e carica di soggettività relativamente alle diverse maniere di concepire le continuità, le fratture e i modi di pensare la memoria della storia – non è certo priva di dolori. Al punto da chiedersi se davvero è necessario tagliare la storia a pezzi.

    Domanda che comprensibilmente si pone anche chi è convinto della sua importanza scientifica, almeno perché “grazie ad essa possiamo chiarire come si organizza e si evolve l’umanità nella durata e nel tempo” (37).

    Anche se a ben vedere i chiarimenti della storia non bastano per capire le metamorfosi, se è vero che adesso rispetto ad esse – come ci ha indicato Beck – si deve fare un altro passo “si deve puntare lo sguardo su ciò che sta emergendo dal vecchio, (e) cercare di intravedere, nel tumulto del presente, le strutture e le norme future” (38).

    A queste domande arriviamo forti di una consapevolezza, quella di non doverci fermare alle astratte definizioni ma di dover scendere sui fatti. E in questo senso far tesoro dei suggerimenti di Carlo Rovelli sul ruolo degli eventi, attraverso i quali ci è dato conoscere il mondo nel leggere l’evolversi del tempo.

    Su questa linea mi sembra si muova anche Paolo Grossi quando, con riferimento al passaggio tra le due sponde, giunge ad una conclusione importante: quella secondo cui, è bene ripeterlo, siamo davanti ad una crisi delle fonti e degli strumenti giuridici che ne derivano (39).

    Mi sono ripetuta su queste conclusioni perché da queste affermazioni dobbiamo ripartire per ricollegarsi, come fa il nostro storico, alle origini della frantumazione del sistema che oggi viviamo.

    Durante il secolo XIV – racconta Grossi (40) – si sgretolavano i pilastri portanti e fondamentali che garantivano il benessere ; motivo per cui serpeggiava l’esigenza che si dovesse dar mano alla costruzione di una nuova civiltà maggiormente antropocentrica e maggiormente individualista.

    Anche a livello politico, si aggiunge, quelle cerchie concentriche che, nel medioevo si descrive in comunità sempre più ampie che si risolvevano in organizzazioni a livello universale, cominciano a cedere ad un nuovo particolarismo e a un nuovo protagonista: lo Stato accentratore, e tendenzialmente nel suo territorio, onnicomprensivo.

    Una civiltà che pertanto necessita di essere letta a livello antropologico.

    In questa direzione si è mosso recentemente Rodotà, ribadendo che il diritto ha sempre contribuito alla creazione di antropologie e quando lo ha fatto ha conferito loro persistenze che andavano al di là della valenza originale.

    Ogni grande operazione giuridica, prima che ancora questo ruolo fosse reso manifesto dalle carte costituzionali, ha disegnato, come ci viene ricordato, un modello di persona che non era mai la semplice registrazione di una natura umana, ma un gioco sapiente di pieni e di vuoti, di selezione di ciò che poteva trovare accoglienza nello spazio del diritto e quella che doveva restarne fuori, di ciò che poteva rientrare in quello spazio del diritto e di quello che doveva restarne fuori, di ciò che poteva rientrare in quello con i suoi connotati naturali e quello che esige una metamorfosi resa possibile proprio dall’artificio giuridico (41).

    Problemi tutti oggi sollevati dal vivere e dal convivere l’eclisse dell’autonomia della persona nel tempo del capitalismo algoritmico in un divenire che fa apparire l’uomo antiquato aprendo le porte, con il post moderno al post umano.

    E questo come conseguenza del diritto all’uso di tutte le opportunità che l’innovazione scientifica e tecnologica mette a disposizione delle persone.

    L’interrogativo che queste libertà umane consentono ha inevitabilmente portato alla ribalta il problema di una rifondazione assiologica.

    Per aprirsi alla sfida dell’era storica che stiamo vivendo,-osserva il filosofo con una riflessione nella quale si sente il respiro umano di una teologia cosmica aperta alle diverse culture storiche- gli attuali concetti di natura e di naturalezza devono rivestirsi di una semantica nuova diretta ad integrarsi in una dimensione interna, e non esterna all’uomo.

    “Il concetto di natura è dilatato, ma più che in senso estensivo in senso comprensivo. Per connettere tutto ciò che circonda l’uomo ed è nell’uomo ed è da lui prodotto, che ne costituisce l’ambiente vitale e sociale, il tessuto ed il contesto ecologico, il micro e macro cosmo che gli sta dentro e attorno”.

    In questo senso si riporta l’uomo come orizzonte ineludibile della riflessione filosofica, espressione di una “armonia pluricontestuale nelle sue dimensioni sociali e cosmiche” (42).

    Vero è che la necessità della conclusione assiologica non può far sottovalutare la complessità di un problema dal quale non si può sfuggire. Problema che deriva dalla presa d’atto del modificarsi della forma di pensare e di volere. Volontà che costituisce, nelle sue forme umane e ora anche artificiali, uno dei temi più angoscianti del nostro tempo. Alla sponda indicata da Paolo Grossi arriviamo utilizzando lo strumento di una tecnica che sembra destinata a conoscere per l’uomo, a studiare le strategie per l’ uomo, ad agire per conto di soggetti non umani.

    Lo ha descritto bene Natalino Irti: “Il cammino o la manipolazione del mondo, in che si fa consistere l’essenza o l’immagine della tecnica, abbraccia anche i rapporti fra volontà regolatrici e volontà regolate. Queste sono chiamate (quando riluttanti costrette) a prendere forma da quelle, a subirne il dominio, ad accogliere in se stesse il loro contenuto.

    Il mondo esterno su cui cala e si dispiega la volontà di potenza, è composta da volontà umane, le quali si trovano così dinnanzi ad un’altra volontà, e possono soggiacervi o aprire la lotta e correre l’incognita del vincere o soccombere” (43).

    6. Il logos si è fatto macchina. La ricerca dell’Umanesimo ai diversi confini della soggettività

    Per dare la dimensione del problema si è ricorsi a parafrasare uno dei passaggi più significativi del vangelo di Giovanni, e a fermare che “il Verbo si è fatto macchina”.

    Parafrasi con la quale Remo Bodei ci prospetta un mondo nel quale “lo spirito soffia anche nell’inorganico e la ragione e il linguaggio, oggettivati in forme di algoritmo, abitano in corpi non umani” (…).

    Il pensiero umano, disincarnandosi, è emigrato nelle macchine e si è annidato in esse”.

    L’individuo moderno del quale abbiamo visto celebrare la solitudine, “ora si congeda dall’illusione tolemaica di avere il monopolio della conoscenza” (44).

    A questo punto viene facile, se non proprio naturale, spingersi ad immaginare l’evolversi genetico degli algoritmi, sino a considerare concreta la loro possibilità di cambiare le strutture del sistema, ed essere in grado di trascendere i fini che a questa forma di intelligenza assegnano gli umani, e di agire, di conseguenza, secondo una logica propria per noi diventata insondabile (45).

    Una logica che porta a calarci, con Thomas Mann, nel profondo pozzo del passato per cercare di evitare che il diritto non sia più in grado di contribuire a dare la giusta misura alla costruzione e alla rappresentazione dell’identità, all’essere e all’apparire (46).

    Per chiederci ancora una volta se l’aver considerato i diritti umani non appartenenti per natura all’uomo ma il frutto della storia che li ha salvati dalla sopraffazione non finisca ora, paradossalmente con il diventare il simbolo della sopraffazione dell’umanità. E a prendere atto che si è costruito un altro uomo che non è più soggetto di comunità.

    È difficile non vedere in tutto questo un momento in cui la storia si curva oltre ogni immaginazione.

    Come frenare questa corsa ed evitare quello che è stato definito un finale di partita, l’ultimo spasmo del tempo?

    Un tempo del quale il processo di secolarizzazione, nel quale si confonde anche quello di progresso, costituisce una delle tante diverse anime che ne descrivono l’articolato dialogo con il potere (47).

    Un dialogo con le categorie del tempo che ha portato Musil a constatare che la vita che ci circonda è priva di concetti ordinatori, e che ormai, dominato dall’incertezza, il mondo moderno è un labirinto dove l’uomo si smarrisce (48).

    Nascosto nel profondo di “ un umanesimo notturno “ del quale, nella notte che lo avvolge, si racconta la storia di un paradosso di un umanesimo ormai antiumanesimo (49).

    La dimensione e la profondità del problema – occasionata, come detto, dall’invasione pervasiva dell’intelligenza artificiale, dalla dittatura degli algoritmi che condizionano la conoscenza trasformando in informazioni dati apparentemente senza significato – inducono a proseguire nell’aforisma di Giovanni richiamato da Bodei ed interrogarsi se possa dirsi che l’uomo è stato fatto per il sabato e non viceversa. Come sin qua abbiamo creduto di pensare.

    Dove ci condurrà tutto questo? Una cosa è certa, ed è preoccupante una nuova arma è ora a disposizione dei soggetti che non sono più l’uomo ma tutti i soggetti artificiali, dagli Stati alle società multinazionali, che chiamiamo “ grandi potenze”. Un ‘arma tale da rendere possibile la modifica dell’intero sistema dando forza ulteriore a chi ha già forza.

    Tutto questo non poteva non sfuggire all’attenzione dello studioso e costringerlo ad interrogarsi se e come sia possibile governare questo armamentario.

    Su questo tema ha riportato la sua attenzione Natalino Irti il quale, dopo aver intessuto un appassionato dialogo sul ruolo della tecnica con Severino (50), ha rivolto la sua attenzione alla riflessione autorevolissima di Benedetto XVI che, nel suo discorso berlinese,  prendeva atto “ che l’uomo è in grado di distruggere il mondo; può manipolare se stesso; può, per così dire, creare esseri umani, ed escludere altri essere umani dall’essere umani (51).

    E davanti a questo si era chiesto come trovare la legge della verità (52), con argomentazioni che dall’autorevole giurista sono state considerate l’estremo confine della soggettività (53).

    Legge della verità che, nel pensiero di Benedetto XVI trovava nel rapporto fra natura e ragione le vere fonti del diritto, le quali rimandano al linguaggio dell’essere. La natura parla un linguaggio a cui la ragione deve aprirsi e prestare ascolto: il diritto naturale nasce, al di là di ogni richiamo teologico, da questa correlazione fra ragione e natura.

    Questa conclusione è destinata a porre, come ha posto, una delicata domanda., sostituendo, come abbiamo visto fare da Heidegger, al che cosail chi? è deputato all’ascolto della natura, a rilevarne le indicazioni e tradurle in norme giuridiche? (55).

    In questi termini il discorso torna al diritto al quale chiede se lo sviluppo della tecnica consenta ancora di parlare di umanesimo una volta che l’uomo abbia perso il monopolio della conoscenza e la volontà nel suo processo formativo nel quale si è identificato lo stesso diritto espressione del valore dell’identità del soggetto (56).

    L’immensa costruzione della forza che sembra costituire il punto decisivo della storicità del diritto positivo se ne dimostra il momento di debolezza. Forza che davanti agli effetti cui si perviene la dura realtà degli ordinamenti positivi, insegnava infatti Capogrossi, è destinata a sparire: nel senso che il principio costitutivo dell’azione, brutalmente respinto dal concreto si trasforma in ideale che sopravvive indicando profeticamente il significato e la funzione del diritto, che si oppone al “al fatto compiuto” e contesta il potere politico restando fuori dalla tenda del sistema (57).

    In questo senso può dirsi che l’ordine giuridico si realizza comunque nei movimenti della volontà, che la volontà è azione e che, l’azione sono i fatti che provocano gli eventi e i problemi.

    Ancora una volta debbo rilevare che la volontà non è esperienza astratta ma dipende dai fatti che ha prodotto e dai problemi che questi hanno sollevato. Esattamente è stato detto che l’uomo ha costruito e tutt’ora costruisce il mondo e l’insieme degli oggetti che gli stanno attorno con la tecnica, e che in questo senso appartiene agli uomini. Mi chiedo se anche questa costruzione non sia, in maniera diversa, da quella di Benedetto XVI, una ulteriore forma di soggettivismo del quale cambia il linguaggio.

    È lo stesso Irti a suggerirci che non si può più parlare di umanesimo in senso tradizionale ma di umanitarismo (58).

    Inutile dire che la modificazione del linguaggio è di grande significato.

    L’umanitarismo non è il surrogato moderno e aggiornato dell’umanesimo classico, ma piuttosto una forma di volontà che persegue scopi in accordo o in disaccordo con la tecnica secondo le direzioni espresse dalla volontà, e che tutto, legittimando così per altra via l’estremo confine della soggettività, dipende dalla volontà umana (59).

    Vero è che la sua disincarnazione, il suo produrre fatti e generare interessi caratterizzati da logiche e finalità proprie a rompere l’astrattezza dei conflitti e degli strumenti. A indurre lo studioso a entrare nella complessità della frantumazione per cogliere le linee di sviluppo che danno un nuovo volto all’ordine giuridico in considerazione degli effetti diretti che producono, e di quelli collaterali che ne determinano l’evoluzione delle strutture stesse (60).

    Con riferimento a queste osservazioni deve proseguire il nostro racconto nella concreta storicità dei suoi fatti.

    In una storicità che peraltro costituisce l’enigma della vita nello spazio e nel tempo ma la cui soluzione, a seguire l’esercizio rigoroso della ragione verso la quale ci indirizza Wittgstein,” è fuori dello spazio e del tempo” (61).

    Affascinante sfida ad ogni concetto di realtà.

    7. Ordine giuridico come costruzione di istituzioni. Fenomeni globali e fenomeni mondiali. L’uso della legge e del mercato

    Alla luce di quanto sin qui detto –, e ritornando al problema sollevato da Paolo Grossi circa la crisi non delle fonti, e relativamente al mutamento dei dati che caratterizzano la legge – ritengo che dette considerazioni, ancorché non ne discuta la verità, meritino di essere lette secondo una logica che ne espliciti il significato sia nella funzione che ad esse si chiede di svolgere, sia negli effetti strutturali che ne conseguono.

    Ritengo infatti che detto problema debba essere colto nel contesto delle dinamiche che ne hanno ispirato, se non reso proprio necessario, le trasformazioni degli strumenti, rendendoli funzionali ai loro nuovi usi e ordinanti rispetto alle logiche dell’energie che si generano.

    A chiarimento di questa prospettiva di analisi trovo illuminanti due diverse riflessioni di Ralf Dahrendorf che, riportate nella loro estrema sintesi, penso sia utile richiamare all’attenzione dello studioso in considerazione del loro carattere esplicativo di una realtà disarticolata della quale recupera il senso istituzionale.

    Mi riferisco in primo luogo alla sua importante ricerca sul concetto di ordine nel suo stretto rapporto con quello di legge.

    Ed è in questa sede che a chiusura di una riflessione- la quale ruota attorno al fenomeno di anomia, e che si confronta, solo per citare alcuni dei più grandi maestri, con Rousseau e con Hobbes, spaziando da Habermas a Rawls sino a Nozick – il citato autore pone l’accento sulla necessità di cercare quelle molteplici legature che saldano l’individuale con il collettivo e l’economico con il sociale e il politico, per dirci che “la risposta al problema legge-ordine possa riassumersi in due sole parole: costruire istituzioni” (62). Perché solo grazie ad un’opera consapevole di continua costruzione e ricostruzione delle istituzionali, possiamo sperare di proteggere la nostra libertà di fronte all’anomia.

    Anomia considerato il luogo sulla terra più vicino all’inferno, e il cui percorso deve essere invertito in quanto è solamente caos, è soprattutto un vuoto che attrae le forze i poteri più brutali (63).

    Ed è nel divenire delle istituzioni, nel loro contrapporsi o concatenarsi o svilupparsi che si recupera quella funzione ordinante (64) nella quale si sostanza la formazione di quei vettori dell’ordinamento ai quali Ascarelli affidava il fondamentale compito di essere la chiave di interpretazione della realtà, traducendone l’evolversi ed il disegnarsi di tipologie che ne riflettono la natura dei problemi e dei rischi (65).

    E in quest’ottica che si sente il respiro istituzionale di Dahrendorf quando, con riferimento alle crisi finanziarie del 2009 (66), esamina il passaggio da un capitalismo di risparmio ad un capitalismo di debito e di azzardo, per distinguere ciò che è globale da ciò che è mondiale e vederne le conseguenze a livello normativo. E questo nel presupposto, che per molti aspetti si collega alle legature sopra richiamate, che le norme non solo vivono nelle istituzioni, ma “non nascono da una negoziazione libera e senza vincoli di tutti gli interessati. Esse richiedono una potenza di garanzia che sia in grado di sostenere i meccanismi sanzionatori (67).

    E questa affermazione che dà alla norma un carattere istituzionale del quale, ad ogni fine valutativo e operativo, è bene avere consapevolezza.

    La domanda che a tal fine quindi ci pone è se i fenomeni di crisi finanziaria provocate dal capitalismo di debito o di azzardo sono un fenomeno globale o mondiale e, se è possibile accertarne le differenze, quali ne sono le conseguenze.

    Sono globali – secondo l’autore che pensa al problema climatico- solo quei problemi che riguardano tutte le persone della terra e che quindi possono essere dominate solo da un’ azione comune.

    Solo mondiali, e proprio in ragione del loro impatto, le crisi finanziarie. I loro effetti sono osservabili in molte parti del mondo ma non sono identici, ed il loro superamento se può essere aiutato da un coordinamento, in realtà richiede soluzioni essenzialmente nazionali.

    In questa prospettiva si introduce il concetto di potenza di garanzia che dà un senso alle norme e al sistema istituzionale che le lega. “Il mondo di Bretton Woods – ci spiega nell’opera appena citata - con la Banca Mondiale è il Fondo Monetario Internazionale (e almeno indirettamente anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio) erano comunque un mondo americano. Non era un architrave normativa globale, ma una regolamentazione a carattere mondiale garantita dagli Stati Uniti”.

    Di questo è corollario che davanti ai fenomeni globali è necessario predisporre norme vincolanti per tutti pena il disastro globale.

    La crisi finanziaria richiede invece un certo numero di misure strategiche, probabilmente soprattutto in alcuni paesi il cui effetto a catena di diffonde ad ampio raggio.

    A chiarimento di questa logica, che lega le scelte strategiche delle Potenze garanti alla destrutturazione del sistema, è importante ricordare le diverse soluzioni adottate dai differenti Paesi per rispondere al problema provocato dalla crisi petrolifera del 1975 sulle loro bilance dei pagamenti.

    Evento fondamentale per capire l’evoluzione della struttura del sistema verso la nuova forma di capitalismo finanziaria (68), i suoi riflessi istituzionali e le conseguenze su uno strumentario giuridico che affina le sue armi in funzione di una efficienza competitiva. Efficienza garantita dalla possibilità che viene data agli operatori protagonisti dei mercati di innovare i tradizionali istituti, resi liquidi e a disposizione dei diversi tipi dei competitori, che sempre in maggior numero entrano nel campo di gioco (69).

    È un dato di fatto difficilmente contestabile, in quella che appare la nuova stagione del capitalismo, che non necessariamente le economie di mercato presuppongono società di mercato. Così come non può prendersi atto che alcune delle economie capitalistiche di maggior successo hanno operato in condizioni sociali autoritarie. Che nessuna società storica presenta i tratti della crescita solo ad iniziativa di mercato. Che per quanto attiene al delicatissimo punto strutturale dell’intervento dello Stato nell’economie quello che conta – come si è detto di recente- non è la sua quantità bensì in che modo e con quali fini questo viene applicato (70).

    Il paradosso del sistema capitalistico – ci ripete con autorevole schiettezza Guido Rossi è diventato così quello di una economia soffocata da un numero pressoché inimmaginario di norme legislative, ma in realtà governato da regole che i principali attori del sistema di volta in volta scelgono, a seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della libertà contrattuale. E la prima vittima di questo paradosso è il cuore stesso del sistema: il mercato.

    Ed è così che alle regole del gioco si sostituisce il gioco delle regole (71).

    8. I grandi spazi e le zone di influenza come strumento conoscitivo

    Il discorso sin qui fatto (caratterizzato, ed è questa una delle più forte sollecitazioni che mi vengono da Steinberg, da un continuo domandarsi i cui effetti sono il crearsi di una seria infinita di orizzonti, che si intrecciano a diversi piani conoscitivi) ci porta a collocare il problema sul quale riflettiamo non seguendo la logica dettata da astratti principi generali, dei quali pur si deve tenere conto, ma in una prospettiva di concreti eventi che portano alla ribalta sempre nuovi fatti, della più svariata natura.

    Una prospettiva che, senza essere prigioniera di una agenda imposta da un assillante contingente (che peraltro sarebbe sbagliato ignorare), è diretta a misurarsi e confrontarsi con quelle grandi tendenze che hanno tracciato i solchi più profondi della nostra esperienza storica. Che le hanno disegnate adattandole, di volta in volta alla luce delle trasformazioni sociali e tecniche, ai problemi che si imponevano all’attenzione, e modellato gli strumenti ereditati dal passato a nuove finalità.

    Laddove il nuovo – e penso a quanto volte si è fatto riferimento nella nostra cultura ad un ordine nuovo – vive l’ambiguità di un momento nel quale convivono continuità e frattura.

    In questo senso il racconto si sostanzia in una descrizione di fratture che, hanno dato vita a strumenti, ognuno dei quali sprigiona la dinamica che è racchiusa in essi. Dinamiche che sollecitano nuove aggregazioni seguendo le spinte che vengono dalle dimensioni territoriali dei soggetti che occupano la scena politica, e dalle utilizzazioni che consentono le continue  invenzioni tecnologiche.

    Soffermiamoci per un momento su queste considerazioni.

    Si è partiti dall’idea del tutto ovvia, che per intervenire sugli eventi – mi astengo dall’usare il termine realtà che, come è noto, non è di facile individuazione -, bisogna comprenderne la natura, la portata e gli effetti.

    Comprenderle vuol dire munirsi di strumenti concettuali capaci di affrontare i problemi in modo efficace, osservandoli come istituzioni e strumenti di cui noi ci dotiamo per realizzare un preciso obbiettivo.

    Espressione che ci riporta – e oggi che siamo lontani da un passato che ci condizionava ideologicamente possiamo essere più liberi nei nostri giudizi – alla contestata riflessione di Carl Schmitt che lo ha portato ad osservare i fenomeni dall’angolatura dei “grandi spazi”, che ne sono il fatto.

    Una teoria che -coniugando il suo farsi come scienza ad una visione teologica della politica, ed allora del potere nella sua funzione di espansione territoriale come nomos, prendendo realisticamente atto che i singoli Stati non sono più in grado di garantire l’ordine mondiale - auspica una divisione del mondo in zone di influenza controllate dalle grandi potenze, in un rapporto amico- nemico (72).

    Fenomeno al quale ci è dato di assistere, anche dopo la fine dei due blocchi politici ed economici che si confrontavano, e che oggi vediamo popolato da Stati continenti, non ultime le c.d. tigri asiatiche che si fronteggiano quali protagonisti di un conflitto di civiltà, allargando le zone di influenza ai modelli istituzionali che se ne fanno portatori.

    È naturale chiedersi se e quanto quello dei grandi spazi non possa e non debba essere uno strumento di conoscenza sul quale tornare a riflettere.

    Anche perché, in questo spirito mi viene da domandare se in questa logica di governo delle grandi dimensioni e dei grandi spazi si possa veder congiungersi il Dante- giudice di Steinberg ( in quanto fautore di un sistema giuridico che è creazione di norme, di strumenti e di istituzioni con il Dante profeta di Cacciari che affronta il problema del potere riflettendo “sulle due città” e sui “due soli” che convivono all’interno del grande spazio dell’impero e che per questo si proietta, attraverso le norme e i principi elaborati, verso la creazione di Istituzioni) (73).

    Istituzioni che, teniamolo ben presente, riflettono i problemi e gli interrogativi di un tempo storico.

    Un Dante profeta che pensa cristianamente ad un impero, totalmente secolarizzato.

    “Solo una chiesa che confessando apertamente di non essere la città di Dio rinunci ad ogni potere terreno, potrà essere ascoltata e valere nel secolo. Solo un impero che rigetti ogni compromesso con la Chiesa sulla gestione del potere politico, avrà il dovere di riconoscerne la paternitas e aiuterà in uno, la Chiesa a ritrovare sé stessa.

    Due Soli, allora, che “tanto più provvidenzialmente insieme, guidano la nostra natura ferita quanto più autonoma e inconfondibile brilla la luce di ciascuno” (74).

    In Dante si afferma la legge, e al suo interno si svolgono i problemi dell’unità che va salvaguardata e dell’autonomia che va perseguita.

    Problemi questi tipici della costruzione di Istituzioni.

    9. Dall’anomia all’atopia. Il ruolo e il significato geopolitico del “territorio”. Verso una nuova definizione di effettività

    L’aver assunto a nostro punto di riferimento l’ordine del tempo è stato importante per far emergere

    non solo la molteplicità di percorsi che l’esperienza ha costruito, ma anche l’orizzonte, o gli orizzonti nei quali gli eventi si collocano ; e a mettere in risalto come gli orizzonti si compenetrano, e come e perché – dando rilievo ad un aspetto o ad un altro- i percorsi si arrestano, o cambiano direzione, o formano intricati ingorghi.

    È molto difficile, riconosce Guido Rossi che il diritto segua un andamento armonico aggiungendo che “In molti casi ha una genesi sporca e, nella sua vita utile, affronta aporie che ne rendono quantomeno opinabile la presunta purezza” ( 75).

    Il richiamo che in questa prospettiva viene fatto allo storico e suggestivo tema delle lacune è di grande importanza teorica, e non meno che pratica. Al punto da costituire – sempre secondo il citato autore – la cartina di tornasole per tutte le teorie giuridiche, il cui percorso ci porta a scoprire come da un certo momento in poi le norme, sempre più elastiche e sempre più vaghe, non coprono più alcuna fattispecie e perciò devono essere abbandonate, modificate, riscritte.

    Momento in cui seguendo quel pragmatismo che ha caratterizzato il pensiero di Keynes il quale consigliava di riaprire il libro della saggezza, le cui teorie diventano di giorno in giorno meno vere, e cercare una nuova saggezza, non facendosi impaurire dal ricorso a quelli che il grande studioso chiamava espedienti, che forse meglio di ogni altra cosa ci consentono di risolvere i problemi (76).

    Ed è inoltrandosi in questi percorsi, talvolta imprevedibili, che possiamo scoprire le loro deviazioni attraverso i grandi della letteratura che, con grande efficacia speculativa – e Guido Rossi nell’opera citata ce ne sottopone un vasto campionario- si sono interessati al complesso problema della frantumazione e della composizione raccontando con suggestive immagini “come gli accidenti di carattere psicologico, sociale e politico influenzino il giudizio molto più dei fatti puri, inoppugnabili, assoluti.” Fatti dei quali pertanto, non si può neanche parlare (77).

    Un ruolo che peraltro non si limita al pur fondamentale esame dei fatti, ma assurge a livello di sistema, traducendoli in visioni istituzionali.

    Di questo è esempio  il significato che Emanuele Severino ha attribuito all’opera di Leopardi.

    Opera la cui grandezza è motivata ai suoi occhi dall’aver pensato, mezzo secolo prima di Nietzsche, che per vivere si deve vincere la verità; rovesciando così in termini netti e consapevoli il modo di intendere quel rapporto fra verità e vita sino ad allora seguito dalla grande tradizione filosofica.

    Ed è per questo che – a giudizio di Severino- si deve incominciare a riconoscere che la grandezza del pensiero filosofico di Leopardi sta molto più in alto di quanto si sia comunemente disposti ad ammettere.

    Infatti il Leopardi che “ sta alla svolta che conduce fuori dalla tradizione della nostra civiltà non si limita ad osservare il curvarsi della strada: appartiene a coloro che producono la curvatura. E vede già la strada – percorsa nel 900 da Wittgenstein – della filosofia come terapia contro la filosofia. Ma la vede sbarrata (78).

    Anche in questo senso, quello di osservare e di partecipare alle curvature della storia, che collegherei la grandezza di Dante- giudice – che Steinberg oggi ci propone, al quadro suggestivamente descritto da Cacciari sulla figura del fiorentino.

    Quella di un Dante caratterizzato da una poesia sapiente e filosofica, una poesia divina che anticipa

    per molti aspetti i nodi filosofici affrontati dall’umanesimo, anch’esso epoca di crisi ; anch’esso passaggio d’epoca segnato da catastrofici avvenimenti (79).

    Una poesia il cui linguaggio straordinario viene posto, come per Leopardi, al centro di una curvatura che investe la geografia giuridica costruendo in una prospettiva istituzionale nuova quei confini che normativamente segnano i limiti del potere. Distinguendone le diverse tipologie e indicandone la legittimità dell’uso e l’illegalità dell’abuso.

    Un linguaggio volgare anticipatore del mutamento dei valori – ed è appena il caso di ricordare che lo stesso Ascarelli definirà come volgare, contrapponendolo ad un antico latino, l’affacciarsi nella nostra realtà del linguaggio economico (80) – il quale peraltro tende, nei suoi sviluppi più recenti a far perdere alle stesse parole che usa “il loro significato.”

    Linguaggio normativo – afferma Guido Rossi- che può, paradossalmente diventare il motore della disgregazione (81).

    Di questo mi sembra essere esempio significativo la discussione su uno dei principi cardine della nostra cultura giuridica, quello della legalità.

    Principio al quale ci rivolgiamo quasi quotidianamente, ma che da molti autorevoli studiosi è considerato “ una sorta di contenitore vuoto suscettibile di subire profonde differenziazioni “ ( 82).

    Con quanto questa affermazione comporta sia in ordine alla sua funzione nell’identificazione del c.d. Stato di diritto, sia nella prospettiva del soggetto che, abilitato a riempire di contenuti il contenitore, diventa legislatore, sia con riguardo alla formulazione della fattispecie sempre più indefinita e carica di ambiguità descrittive.

    Problemi di non poco conto sistematico se ad essi si aggiungere che la disgregazione da noi vissuta ha una significativa particolarità.

    “Se fino ad ora – e sempre Guido Rossi che ci parla- alla nascita di una situazione economica nuova si accompagnava quella di un nuovo diritto, ora accade esattamente il contrario: alla distruzione dell’ordine preesistente sembra non far seguito nulla “ (83).

    Particolarità che assurge a livello filosofico – istituzionale quando induce Cacciari ad definirla come nuovo Nomos, e a considerare l’anomia come un nuovo ordine. Un Ordine che non è però il Nomos del mondo, ma la cui “ norma giuridica dovrà adeguarsi a quel centaurico giusnaturalismo artificiale, al quale ci si riferisce quando si invocano le leggi delle economia e del mercato” (84). Che sono poi anche le leggi della tecnica che guida l’economia e sostituisce la politica.

    Politiche e diritto che, nella visione di Natalino Irti, restano chiusi entro il territorio dello Stato o delle Unioni di Stati, mentre quelle che definisce le potenze del quadrilatero – (scienza, tecnica, economia, mercati) – si trovano dovunque (….). Atopici e perciò non suscettibili di avere casa e dimora sulla terra. Dal fatto che queste potenze si agitano e lottano in spazi privi di diritto, si trae il corollario che “l’atopia si congiungerebbe all’anomia e anzi la genererebbe per intima e logica necessità” (85).

    Quello che questa riflessione ci lascia – a dire del suo stesso autore – “sembra un caos selvaggio, un disordine infinito e illimitato” (86).

    Si arriva così a dipingere un quadro nel quale la competenza politica non ha più senso e deve cedere il passo a quella degli esperti. Il Diritto, cioè le procedure di produzione legislativa diventano vecchie e stanche forme di cui si vestono le decisioni dei competenti.

    Le potenze della tecnoeconomie hanno una pretesa globale che non permetterebbero la formazione di regioni autonome separate, rendendo improbabile che il pianeta si divida nei due o nei più grandi spazi teorizzati da Carl Schmitt.

    Tutto questo lascia un punto interrogativo che lo stesso giurista sopra citato a sollevare. Alla prospettazione che sancisce la morte del vecchio diritto si può opporre che “nulla può escludere che quelle potenze si compongano fra di esse, e abbandonino noi inermi ed impotenti nelle vecchie dimore degli Stati” (87).

    L’interrogativo che così si pone dall’aver legato anomia e atopia merita una riflessione.

    Una riflessione che si chieda che cosa legittima la pretesa delle grandi potenze tecnoeconomiche, dalle quali non penso debbano essere esclusi gli Stati e le imprese che si muovono nei grandi spazi.

    Per rispondere a questo interrogativo ci dà gli strumenti Sabino Cassese, quando indaga sulla rivincita dei territori che oggi, con le loro aperture e chiusure agli strumenti economici e finanziari e all’ingresso dei capitali, caratterizza il nuovo essere della realtà economica e politica.

    Grandioso è il compito che, dice Cassese (88) aspetta la scienza giuridica: quello di pensare e riconcettualizzare ancora una volta lo Stato alla luce delle trasformazioni che ne hanno suggerito ed imposto nuovi ruoli e nuovi strumenti.

    Anche e soprattutto con riferimento all’attività svolta dalle singole imprese, dei privati e dello Stato, che assurte a dimensioni di attività globale operano modifiche dell’economia nello sviluppo e nella crescente interdipendenza.

    In questo senso si è parlato di Politica oltre lo Stato e, ora di sovranità oltre lo Stato (89).

    Ma penso che l’oltre altro non sia se non un modo diverso di essere dello Stato, e non uno spazio vuoto di diritto. Un modo di essere reso necessario dall’incessante imperativo che spinge alla produzione, alla ricerca di mercati, alla ricerca di risorse, alla formazione di strumenti che innovino per realizzare l’efficienza competitiva. Un modo di essere che ha dato un diverso volto alla centralità della sovranità estera come riflesso del sempre più esteso panorama di integrazione economica e di frantumazione dell’organizzazione dell’attività produttiva.

    La cassetta degli attrezzi si è arricchita di nuovi e potenti strumenti – e in questo senso sarebbe utile ripensare ad una teoria del contratto aperta a nuove dimensione- del quale di può fare un uso in ogni direzione non facilmente controllabile.

    Dobbiamo forse pensare che queste realtà, almeno per chi guarda le istituzioni con approccio evolutivo, altro non siano che i cocci di antiche costruzioni della scienza del diritto, e che quella che chiamiamo multilateral global governance sia solo una vuota formuletta? O non invece che il pluralismo giuridico al quale tanti si richiamano non sia altro se non un modo di porsi il problema dell’effettività a livello di strutture globali in funzione della geo politica.

    Vero è che tradurre la geopolitica in geo diritto è tutt’altro che agevole; ancorché sia forte l’esigenza che spinge la riflessione a non scivolare in una deriva anarchica.

    Sullo sfondo di ogni costruzione aleggia una aspettativa neovestfaliana.

    Un’aspettativa nella quale si mettono a confronto, rendendo qualsiasi discorso sempre più complesso, una miriadi di organizzazioni difficilmente qualificabili come sovrane, molte ad iniziativa assolutamente private, ma comunque agenti ed influenti sulla scena politica mondiali (…).

    L’azione globale si presenta come uno schema complesso di interazione tra attori misti, e ai soggetti tradizionali se ne aggiungono altri, ugualmente o maggiormente potenti, portatori di interessi diversi (90).

    Interessi che costituiscono la sfida alla normatività oggi delineata da molteplici livelli di effettività e di organizzazione. Interessi volti alla ricerca di un ordine costituzionale che deve sfuggire alle difficoltà di uscire dai contrasti delle conflittuali positività.

    Una normatività il cui punto di riferimento sembra perciò essere quell’effettività dalla quale desume

    il suo organizzarsi su molteplici piani il limite di effettività del diritto – si è detto – oggi è malleabile, poroso, impregnato di prassi fattuali che non possono essere considerate veramente attuazioni della norma, ma solo adattamento, compromesso della sua forma (91).

    Una Effettività che per riprendere un’ immagine di Cacciari non ha un centro ma può averne molteplici, ciascuno magari dotato di una sua legittimità e di una sua legalità.

    Ciascuno partecipe di una logica di sviluppo e di trasformazione secondo un regime di eccezione che è incessante e, allo stesso tempo circoscritto. Mi riferisco all’immagine di arcipelago che, secondo il filosofo, è la possibile forma di un nuovo ordine nel quale è la pluralità degli elementi che lo compongono a sollecitare, come essenziale momento di comprensione e di conoscenza, lo studio delle reti di connessioni che i bisogni e gli interessi impongono.

    “Nello spazio mobile e cangiante del coordinarsi e del coabitare – dice Cacciari con riferimento alla costruzione europea ma che ritengo ben possa essere adattato a diverse e più vaste esperienze- le singolarità dell’Arcipelago si appartengano l’un l’altra perché nessuna in sé dispone del proprio centro, perché il centro non è in verità che quell’impeto che obbliga ciascuna a trascendere navigando una verso l’altra e tutte verso la patria assente” (92). Che è il senso dei sentieri che le necessità e l’interesse al dialogo tracciano, e sul quale ci hanno portato gli eventi della Storia, lasciandoci tante domande.

    10. Dal gioco delle regole al quasi costituzionale. La gomena di Bodei e la “responsabilità” del nostro tempo

    In questa prospettiva appare chiaro, ed il discorso di Steinberg ne è una conferma, che la direzione della riflessione non può prescindere, a dispetto delle frantumazioni, da una ricerca che recuperi l’esperienza geopolitica nei suoi diversi riflessi.

    Ponendoci il problema del diritto – non spazio siano entrati in una prospettiva di riflessione sull’interdipendenza planetaria che propone un diverso modo di essere del territorio.

    E questo, secondo una dimensione che mette al centro dei suoi interrogativi, in modo inusitato il tema del diritto effettivo, del diritto reale, dei fatti- evento e dei fatti compiuti.

    Territori nei quali si svolge quella interdipendenza della quale non conosciamo i confini ma della quale cogliamo il determinarsi di effetti che producono una catena che lega gli interessi.

    Una forma nella quale disseminate sovranità riflettono disseminati interessi dai quali emergono conflitti che dobbiamo conoscere per dissodare il terreno di una effettività geopolitica (93).

    Non discutiamo solo del potere attraverso i poteri, né della sovranità attraverso le sovranità.

    Discutiamo sullo sfondo dantesco delle due città che si rinnovano e dei due soli che li illuminano sotto un solo cielo.

    Discutiamo delle potenze che oggi si configurano secondo una nuova geografia territoriale; ognuna portatrice di una sua legittimità, di un ordine di valore, di un modello di comunità.

    L’Occidente che ha percorso un cammino di secolarizzazione e di indebolimento dello Stato fondato sulla democrazia, è minoranza in un mondo nel quale la teocrazia ha riacquistato peso politico ed economico, in un mondo in cui un nuovo Stato forte che viene dall’Oriente è strutturato per affermare ed imporre la supremazia di una civiltà forte di una cultura millenaria.

    Potenze senza diritto internazionale che ne stabilisca e governi l’equilibrio, ma che si incontrano nel terreno del mercato del quale ognuno usa il potere ai propri fini anche attraverso le imprese che ne sono gli strumenti di penetrazione, ed impongono fatti che mettono in discussione i diritti storicamente conquistati affermando ora la legalità economica ora il potere politico.

    A livello globale si fronteggiano Stati, Mercati e Imprese, con quelle imperfezioni di cui ci ha parlato Keynes, e nelle quali solo “apparentemente ” troviamo l’anomia - l’atopia.

    Apparentemente nel senso che troviamo quello che Guido Rossi ha chiamato, il gioco delle regole e che si sostituisce alle regole del gioco. Ma che è pur sempre una regola da penetrare nella sua logica.

    Un gioco la cui posta in palio è altissima. Dobbiamo affrontare il problema dell’uso delle regole, rendendo visibile questa forma di invisibile.

    Una rete invisibile che congiunge quanto ha frantumato. È stata frantumata l’organizzazione di impresa nel suo profilo produttivo attraverso la moltiplicazione dei soggetti e la loro delocalizzazione nella ricerca di una efficienza che ne favorisca la competitività a condizione inevitabile del rischio che comporta. Una frantumazione dell’attività che si riflette nella teoria degli atti e dei fatti incidendo su diversi ordinamenti che ne determinano le convenienze e i rischi del “gioco”.

    Elementi tutti che tanto più sono efficaci quanto più diventa irraggiungibile l’abuso ed il controllo degli effetti collaterali anch’essi parte del gioco.

    Vero è che anche la frantumazione è, come tutti gli altri strumenti che conosciamo, keinesianamente incompleto. Uno dei suoi effetti è l’integrazione e l’interdipendenza economica che rende tutti partecipi, in maggiore o minore misura del risultato finale.

    Siamo in quella che Ulrick Beck ha chiamato la società del rischio.

    La catena dell’impresa con i suoi anelli ha determinato un rischio che può essere incontrollabile e che finisce per creare una rete che salda, secondo nuove logiche, quanto aveva frantumato e che apre ad una riflessione sull’essere coinvolti da un interesse comune dal quale nessuno può più prescindere.

    Ed è in questa direzione che mi piace cogliere il senso o un senso dell’affermazione di Zagrebelsky secondo cui “non sono i maestri a cercare i discepoli, ma i discepoli a scovare i maestri” (94); perché come Umberto Eco ha lucidamente preconizzato “forse nell’ombra già si aggirano i giganti che ancora ignoriamo, pronti a sedere sulle spalle di noi nani” (95).

    Noi nani che avezzi ad affrontare i problemi attorno ai quali viviamo, e la coerenza degli strumenti ad essi idonei, non possiamo non essere colpiti – o almeno io lo sono particolarmente da quello che mi sembra essere uno dei motivi di maggiore interesse del pensiero di Dante che Steinberg ci trasmette che non è tanto l’uso dell’eccezione o il richiamo alla legalità o alla legittimità.

    Del Dante – giudice – creatore mi colpisce il tipo di giuridicità che trasmette.

    Mi riferisco a quella vagheggiata Atene celestiale a quel quasi costituzionale che, sostituendosi al “sacro” ne ispira il sistema giuridico traducendone contro l’assolutismo quell’umanesimo del quale esprime la nuova voce che si alza dalla società. Categoria non sconosciuta, che cerca nella realtà dei fatti il formarsi del respiro del diritto.

    Come non ricordare che nel 1956 Ascarelli metteva al centro della sua riflessione sulla realtà giuridica la disciplina privatistica delle società per azioni dicendo che la stessa “ può un po’ considerarsi come il diritto costituzionale dell’economia attenendo alla struttura giuridica più importante e caratteristiche dell’economia attuale (96).

    Quel quasi che, come l’esperienza giuridica romana ci ha insegnato, è uno dei motori della storia del diritto che lega i fatti alle norme e agli istituti per trasferirlo così nella costruzione delle istituzioni e ritornare in questo modo alla legge ed al governo dei fatti.

    Quasi costituzionale che è un modo per parlare dell’uomo e dei diritti umani.

    Un umanesimo che si svolge nell’orizzonte di quegli eventi, quale è l’intelligenza artificiale, che hanno reso l’umanità artefice della creazione.

    E allora, ad ogni livello, responsabile della stessa.

    Un modo per aprire le porte del diritto alla grandezza dell’utopia, al novum che dobbiamo far crescere e custodire. Magari pensando di poter far irrompere “il vento che ci viene dall’avvenire”, il deus adveniens di Cacciari (97) quale umanesimo globale in quella “speciale dimensione metafisica” ipotizzata da Levon Zekiyan (98).

    Ed è in questo senso che collegando la riflessione sul miracolo all’idea di quasi costituzione Steinberg sembra cogliere l’incancellabile bisogno che, unendo il relativo all’assoluto, viene dalla base della comunità nella sua ansia di valori costituzionali.

    Il post moderno cui tanti studiosi oggi si richiamano, non significa necessariamente post umano.

    Ed è a tal fine che, come suggerisce la grande sensibilità di Remo Bodei (99) dobbiamo pensare ad una” “nuova meditazione” che abbia come oggetto una “ gomena composta dall’annodamento di molti fili costituiti dai rapporti dell’io con noi e con gli altri”.

    Confidando non solo sul fatto che la storia è astuta ma anche sulla saggezza che ci trasmette Seneca quando ci ricorda “(100) quante cose sono avvenute inaspettate e, viceversa, quante che erano aspettate, non sono avvenute”.

    Ma meditare sulla gomena, che sarà tanto più robusta quanti più fili si sarà riusciti a intrecciare e quanto meglio si sarà riusciti ad annodarli, non è forse un modo per meditare sulla legge nei suoi tanti volti? o sul diritto? O sul loro cammino, che è quello della conoscenza nelle sue molte forme e dell’uso che di essa ne viene fatto?

    Quell’uso che implica una scelta la quale discende dalla consapevolezza che la lega indissolubilmente alla responsabilità, considerata come lo strumento che accompagna e legittima il potere, a qualunque livello. Seguire il cammino della responsabilità ci aiuta quindi a conoscere in profondità il potere, e affina le nostre antenne per accorgersi se disponiamo di strumenti capaci di evitarne gli abusi.

    Se questo cammino diventa un labirinto, come sempre più ci è dato di constatare, ogni forma di controllo sarà impossibile.

    La responsabilità sembra esistere, ma non la si può raggiungere. Siamo alla anomia invisibile? Il terribile angelo di Rilke che ispira la sua invisibilità la protegge dai miracoli di ogni normativizzazione, di quasi costituzionalizzazione che aveva immaginato di poter fare il Dante di Steinberg.

    Ad ogni tempo è stata data in sorte la responsabilità di costruire la propria gomena e a questa responsabilità nessuno può sottrarsi. Ciascuno di noi è l’artista che concorre a modellare l’opera con la quale affrontiamo le tempeste.

    11. Quasi una conclusione. Le domande rimbalzano di continuo

    Racconta Senofonte nei Memorabili (1,2, 40- 46) che un giovanissimo Alcibiade abbia chiesto a Pericle, l’indiscusso principe della democrazia, “che cos’è la legge ?”.

    Alla fine di sempre più incalzanti e più stringenti interrogativi Pericle avrebbe detto: “certo Alcibiade, anche io, quando avevo la tua età ero bravissimo in questo genere di discussione: facevo pratica di arte sofistica a questi stessi temi ai quali, a quanto vedo, tu ti applichi. E Alcibiade: “magari ti avessi conosciuto allora Pericle, quando su questi temi superavi te stesso”.

    Curzio che oggi si chiede a nome di tutti “che cos’è “l’acqua” è Alcibiade o Pericle? O forse da quasi saggio è tutti e due.

    La vera risposta – come si è detto – è sempre nella domanda successiva, e bisogna svelare quanto segretamente custodisce.

    Il discorso pertanto non può chiudersi e non vuole chiudersi.

    Mi preme ricordare che il grande tragico Eschilo ne Le Eumenidi aveva dato voce alla stessa Athena per metterci in guardia contro i “torbidi vortici” che inquinano le leggi, e sentenziava che “chi contamina con il fango l’acqua lucente non ne potrà più bere.”

    Che cosa stiamo bevendo?

    Chi ha trasformato l’acqua diventando arbitro dell’evoluzione della vita?

    A cosa pensi tu cittadino del mondo che sogni la dignità dell’uomo?

    A cosa pensi tu legislatore che sogni la saggezza?

    A cosa pensi tu, come me, che sei chiamato a giudicare e sogni la giustizia?

    Non so se questi interrogativi corrispondano all’esercizio spirituale meditativo vagheggiato da Bodei.

    Sono consapevole che con essi ho fatto rimbalzare le domande, ma esse, nel loro protendersi all’infinito partecipano di quel gioco del dialogo con il quale si tesse la tela della sapienza.

    E se fosse questo quello che Steinberg si aspettava dal lettore?

     *Consigliere della Corte di Cassazione

    Note:

    1. J Steinberg, Dante e l’eccezione in questa Rivista;

    2. J Steinberg, I miracoli costituzionali di Dante (Monarchia 2.4 and Inferno 8.9) in questa Rivista;

    3. Così per Paolo Grossi (op. cit.,loc. cit.) la fine della modernità non significa ritorno all’esperienza medievale dalla quale la modernità è nata. In proposito P. Grossi, Il Diritto in una società che cambia. A colloquio con Orlando Rosselli, Bologna, 2018 pag. 55 arrivando ad identificare la storicità con la carnalità e l’esserci di Heidegger. In questo quadro ritengo utile richiamare la recente recensione di Mario Serio all’ultimo saggio di Paolo Grossi – in questa Rivista – Riflessioni su “Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno-dal monismo legalistico al pluralismo giuridico” di Paolo Grossi, Grossi e Timoteo, sempre recensito da M. Serio su questa Rivista – Ancora oggi “history involves comparison” e viceversa. Marina Timoteo in dialogo con Paolo Grossi in “Grammatiche del diritto” ;

    4. Sull’unità del tutto si veda N.Irti, L’uso giuridico della natura, Roma-Bari 2013, pag. 5; ed ivi un significativo richiamo al pensiero di Cassirer e sulla sua ansia, esule dalla Germania per l’avvenire, pag. 7;

    5. Sui diversi percorsi di questi temi si vedano le approfondite riflessioni di M Cacciari – N.Irti, Elogio del diritto, La nave di Teseo, Milano, 2019;

    6. Sul punto si vedano le stimolanti riflessioni di M.Cacciari-P.Prodi, Occidente senza utopia, Bologna, 2016;

    7. La prospettiva che riguarda il futuro è esaminata da S.Cassese, Una volta il futuro era migliore, Solferino, Milano, 2021;

    8. M. Cacciari, Il potere che frena, Milano, 2013, pag 126;

    9. La dimensione del problema è colta da M. Heidegger che, nella sua conferenza del 1924 affronta la domanda sul tempo che sarà poi sviluppata Essere Tempo  del 1927 avendo cura di avvertire che la sua trattazione non è teologica né filosofica. E non è filosofica “nella misura in cui non pretende di offrire una visione sistematica del tempo universalmente valida, la quale dovrebbe tornare ad interrogarci su quanto sta dietro al tempo e sulla sua connessione con le altre categorie” (Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1989,pag 24);

    10. “Il crescere della nostra conoscenza ha portato ad un lento sfaldarsi della nozione di tempo. Ma nel mondo senza tempo, nel quale le cose “accadono”  ed è popolato da avvenimenti discordanti, deve comunque esserci qualcosa che dia poi origine al tempo che noi conosciamo, con il suo ordine, il passato diverso dal futuro, il dolce fluire. Il nostro tempo deve in qualche modo emergere intorno a noi per noi.” Così C.Rovelli, L’ordine del tempo, Milano, 2017,pag 16;

    11. Sino a diventare, attraverso la tragedia l’alfabeto  con il quale si sarebbe scritto in tutte le lingue e in tutte le epoche il conflitto fra coscienza individuale e ragione di Stato tra la legge morale e la legge positiva, tra la legge ancestrale e la legge della città, tra verità e giustizia.  Così le profonde riflessioni di M. Cartabia, Edipo re, in M. Cartabia – L.Violante, Giustizia e Mito, Bologna, 2018, pag. 29 e ss;

    12. È interessante rilevare come proprio nella sopra citata riflessione sul tempo Heidegger abbia osservato che “se si insiste a chiedere cos’è il tempo, non bisogna aggrapparsi affrettatamente ad una risposta (il tempo è questo e quell’altro) che dice sempre un “che cosa”. Ed è in quest’ottica ci dà un esempio come attraverso una analisi la domanda si trasformi e nel nostro caso diventi “chi è il tempo?” (Id Il concetto di tempo, citato pag. 50);

    13. U. Galimberti, Il segreto della domanda, Milano, 2011, pag. 13 e seg.;

    14. G.Rossi Riforma dell’impresa o riforma dello Stato ? in Riv. soc., 1976, pag 451;

    15. L. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Jus, 1976, pag. 3 e seg.;

    16. Anche su questo tema è utile meditare sulle diverse letture che ne fanno M. Cacciari - N. Irti, Elogio del diritto, op. cit.;

    17. G. Zagrebelsky, il Diritto di Antigone e la legge di Creonte, in AA.V.V,, La legge sovrana, Milano 2006, pag. 21 e seg.);

    18. “In quella solitudine, mossa solo dalle passioni dello spazio cosmico, iniziai il lavoro forse più grande e più puro del mio cuore ( …) e il fiume dello spirito, baciato dalla grazia eruppe così potente in me”. Così suggestivamente R.M. Rilke, Opera omnia, XXIV, a cura di Lucia Morro, editrice Morcelliana, Roma 2020, pag. 688 e seg.;

    19. “Chi, si io gridassi, mi vedrebbe mai dalle sfere / degli angeli? / e se pure d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua forte esistenza. Poiché del terribile il bello / non è che il principio (…). Ogni angelo è tremendo”. Così l’inquietante ed affascinante incipit nella prima delle regie duinesi;

    20. T.S. Eliot, Opere ( 1904-1939, Bompiani, Milano  2001 pag. 1231);

    21. H.Kissinger, Ordine mondiale, Milano 2015, pag. 347;

    22. “Le regole del sistema sono state promulgate, ma si sono dimostrate inefficaci in assenza di una imposizione attiva”  è questo il giudizio critico di H Kissinger, op. cit. pag. 362;

    23. N. Bobbio La democrazia ed il potere invisibile, ora in democrazia e segreto, Torino 2001 pag. 175;

    24. V. Sorrentino, Il potere invisibile; il segreto e la menzogna nella politica contemporanea, Bari 2011;

    25. R. Bodei, Dominio e sottomissione, Bologna, 2019 pag. 337;

    26. H.Kissinger  Ordine mondiale cit. pag. 363;

    27. R. Calasso, L’innominabile attuale, Milano 2017 pag. 35;

    28. R.Calasso op loc. cit.

    29. R. Dottori – H.G. Gadamer, Un secolo di filosofia, La nave di Teseo 2019 pag. 21 e seguenti;

    30. P. Curzio, Quasi saggi, Cacucci, 2017  pag. 17;

    30bis. Mi riferisco alle profonde ed illuminanti riflessioni di E.Garin, La filosofia come sapere storico, ora in La terza Roma- Bari,2009 pag. 27 e seguenti;

    31. Così  con grande efficacia G. Rossi Perché filosofia, Ed. San Raffaele, Milano 2015,pag 15 e seg.  Guardando nell’ottica suggerita da J. Berlin, l’evolversi dell’esperienza con una particolare attenzione, ignorata dal pensiero illuministico e rivolta al momento economico e ai rischi del capitalismo;

    32. P.Grossi, Il diritto in  una società che cambia, cit. pag. 85;

    33. P.Grossi pag 113;

    34. R. Calasso, L’innominabile attuale, cit., pag. 13;

    35. M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Milano 2020, pag. 17 e seg.;

    36. U. Beck, La metamorfosi del mondo, Bari-Roma 2016, pag. 3;

    37. J. Le Goff Il tempo continuo della storia,  Bari-Roma 2014, pag.  4;

    38. U. Beck La metamorfosi del mondo  op. cit., pag. 136;

    39. P. Grossi, Il diritto in  una società che cambia, cit., pag. 57. Ed è seguendo questa logica che l’autore può dire criticamente che il giusnaturalismo e l’illuminismo avevano ripugnanza per la fattualità di cui si intesse la vita degli uomini; il che diventava incomprensibile per la dimensione della storicità, giacché i fatti quotidiani- assai più che battaglie, trattati, rivoluzioni- costituiscono il momento genetico della storia ed il suo nucleo più riposto”( P.Grossi, L’invenzione del diritto, Roma –Bari 2017, pag. 11 e seg.);

    40. P. Grossi, Il diritto in  una società che cambia, cit. pag. 57;

    41. S. Rodotà Vivere la democrazia, Bari- Roma 2018  pag. 40 e seg.;

    42. B.L. Zekiyan, La dialettica fra valore e contingenza, La Citta del Sole 1997 pag. 132;

    43. N. Irti, L’uso giuridico della natura, Bari-Roma 2013 pag. XV;

    44. R.Bodei Dominio e sottomissione  cit., pag. 316  e 297 ss.;

    45. R.Bodei Dominio e sottomissione  cit., pag. 316 e ss.;

    46. M. Cacciari, Il potere che frena cit., pag. 124;

    47. Su questo aspetto rimando alle dense riflessioni di G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma 1983;

    48. R. Musil, L’Europa moderna ( 1921),Bergamo 2015, pag 3;

    49. Su questa forma di “umanesimo notturno” si veda A. Conte, Viandante del novecento, Thomas Mann in storia, Roma 2018;

    50. Sul quale dialogo rimando ai saggi relativi in N. Irti, L’uso giuridici della natura, cit., pagg. 45-59;

    51. N. Irti, Diritto e linguaggio  nel discorso berlinese di Benedetto XVI, in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 37 e ss.;

    52. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;

    53. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;

    54. Sono queste le conclusioni di Benedetto XVI in N.Irti, op. cit., pag. 39;

    55. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;

    56. N.Irti, Umanesimo e tecnica, ora in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 71 e ss.;

    57. Da meditare  su questo punto le riflessioni di S. Satta Il diritto, questo sconosciuto ( 1954), ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, pag. 62 e ss; sul pensiero di Capogrossi in questo senso mi richiamo alle suggestive considerazioni di S. Satta, Il giurista Capogrossi (1960), ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., pag. 442; mi piace collegare il pensiero del filosofo alla visione storica del profeta in P. Prodi, Profezia, utopia e dissocrazia, in Cacciari-Prodi, Occidente senza utopie, Bologna, 2016, pag. 13;

    58. N.Irti Umanesimo e tecnica, cit.,  pag. 90;

    59. N.Irti Umanesimo e tecnica, cit.,  pag. 91;

    60. Prospettiva questa che mi piace collegare alle illuminanti affermazioni di P. Grossi, Ritorno al diritto, Bari-Roma, 2016 parte seconda il quale “ il diritto, anche se nella vita quotidiana ci appare come norma, come imperativo, è invece essenzialmente ordinamento ( p. X);

    61. Così la lapidaria sintesi di L. Wittgenstein,Tractatus logicus- philosophicus (1921),Torino,1998,pag 107;

    62. R. Dahrendorf, Legge e ordine, Milano, 1991, pag. 133;

    63. R. Dahrendorf, Legge e ordine  cit. pag. 164;

    64. Problema delicatissimo quello del carattere ordinato della creazione di istituzioni sui quali si veda ancora R. Dahrendorf, Legge e ordine, cit., pag. 134;

    65. Fondamentale per la profondità degli orizzonti sui quali si muove la lettura di T. Ascarelli, introduzione a Problemi giuridici, Milano 1959 sulle quali invita il lettore a “ rendersi conto di indagini che non mettono capo affatto alle presentazione o difesa di questa o quella teoria dogmatica, ma che invece cercano di cogliere i procedimenti con i quali viene raggiunta una soluzione, gli elementi che concorrono in una formulazione interpretativa e le loro diverse relazioni (pag. VI);

    66. R. Dahrendorf, Dopo la crisi, Roma Bari, 2015;

    67. R. Dahrendorf, Dopo la crisi, cit., pag. 165;

    68. Su questi processi, in una prospettiva che si accompagna alla storia delle idee, C.Fois, E rimetti a noi i nostri debiti… Il debito come problema delle società di oggi, in AA.VV, Giustizia e misericordia, Cleup, Padova, pag. 95 e ss.;

    69. C.Fois, Il “giardiniere” di Pugliatti e la scienza giuridica nel tempo dell’economia, in Giur. Comm., 2006, I, pag. 321, ed ivi una riflessione sull’ingegneria costruttiva in un orizzonte dominante dall’impresa che investe tutti i piani della scienza giuridica;

    70. Così in un’ottica di superamento delle astrattezze concettuali, B. Harcourt, L’illusione del libero mercato, Neri Pozza, 2021;

    71. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 37;

    72. C. Schmitt, Stato, grande spazio, nomos  ( 1916), Milano 2005;

    73. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pag. 89;

    74. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pag. 99;

    75. G. Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 35 e ss.;

    76. J.M. Keynes, Prosperità, Milano, 2019, pag. 24 e 86;

    77. G. Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 111;

    78.E. Severino, Il dito e la luna, Milano, 2021, pag. 82 e ss.;

    79. M. Cacciari, La mente inquieta, Torino, 2019;

    80. T. Ascarelli, Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici, cit., pag. 1085;

    81. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 118;

    82. P.Grossi, L’invenzione del diritto, Roma- Bari, 2017, pag. 3 e ss.;

    83. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 61;

    84. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pagg. 81-125;

    85. N. Irti, Fine del diritto?  in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 97 e ss.;

    86. N. Irti, Fine del diritto?  in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 100;

    87. N. Irti, Fine del diritto?  In L’uso giuridico della natura, cit., pag. 100;

    88. S. Cassese, Territorio e potere, Bologna,2016 pag. 92;

    89. Di grande interesse nella prospettiva della sovranità estera E. Cannizzaro, La sovranità oltre lo Stato, Bologna, 2020;

    90. A. Catania, Effettività e modello normativo, Torino, 2013, pag. 174;

    91. Così A. Catania, Diritto positivo e effettività, Editoriale scientifica Università Suor Orsola Benincasa, 2009, pag. 55, muovendo dalla necessità, in una prospettiva di interdipendenza planetaria di problematizzare la coppia di concetti effettività – normatività, considerata centrale del diritto positivo moderno;

    92. M. Cacciari, L’arcipelago, Milano 1997, pag. 23;

    93. In questa direzione di “ domande dissonanti” trovo stimolante il dialogo fra R. Conti e  E. Cannizzaro  che prende spunto dal citato La sovranità dello Stato, in questa Rivista – Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità con Enzo Cannizzaro. Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro ;

    94. G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Bologna, 2019 pag. 148;

    95. U. Eco, Sulle spalle dei giganti, La Nave di teseo,2017, pag. 36;

    96. T. Ascarelli, I problemi delle società anonime per azioni, in Riv. soc., 1956, pag. 311;

    97. M. Cacciari, Grandezza e tramonto dell’utopia, in M. Cacciari- P. Prodi, Occidenti senza utopie, Bologna, 2016, pag. 125 e ss.;

    98. L.Zekijan, la dialettica tra valore e contingenza, cit., pag. 135 e ivi alla nota nr. 80;

    99. R. Bodei, Dominio e sottomissioni, cit pag 381;

    100. R. Bodei, Dominio e sottomissioni, cit pag 387.

     

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