Sciascia, i giudici e il danno da eccessiva professionalità di Giovanbattista Tona
Sommario: 1. “Il problema vero, assoluto” della giustizia – 2. Ripensare il ruolo del giudice nel crogiolo delle inquietudini sciasciane – 3. La bilancia tra diritto e drogheria – 4. L’etica imperscrutabile e professionale – 5. L’approccio di “sistema” – 6. La destinazione di un percorso.
1. “Il problema vero, assoluto” della giustizia
Interrogare Sciascia, interrogarsi su Sciascia o lasciarsi interrogare da Sciascia?
Il centenario della nascita del grande letterato di Racalmuto incrocia uno dei periodi più bui (nella percezione pubblica – che più della concretezza conta – certamente il più buio) per chi esercita il mestiere del giudicare in Italia.
E il confronto con lo scrittore che ha posto la giustizia al centro delle sue riflessioni, delle sue denunce e dei suoi tormenti è pertanto ineludibile e drammatico per la magistratura italiana sulla quale dall’esterno si indirizzano, e nella quale all’interno si dibattono, divergenti e nel loro complesso confuse ansie riformatrici e rigeneratrici.
Mentre si ricercano i modi più adeguati a garantire il retto ed imparziale giudizio dei magistrati attraverso la predisposizione di strumenti più aggiornati e rigorosi di valutazione della professionalità o di selezione meritocratica dei capi degli uffici o ancora di investitura dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura fuori dalle dinamiche elettorali e correntizie, ci si dimentica che gli esiti scandalosi delle più recenti prassi, oggi aborrite unanimemente da tutti, anche da chi continua a praticarle, sono i purulenti epigoni non della conservazione dell’antico, ma di precedenti mirabolanti riforme innovatrici, sulle quali si sono innestate le attività di giovani e meno giovani talenti, che dovevano perseguire – alcuni anche con ampio sostegno interno all’ordine giudiziario – gli obiettivi di palingenesi oggi ancora agognati.
Chi ha passione per i numeri conterà quante volte negli ultimi venti anni sono state modificate le norme sull’ordinamento giudiziario, sul processo civile e sul processo penale; e quando avrà finito, potrà cominciare a contare quante volte siano state modificate le circolari del CSM – ovviamente sempre per migliorare e per evitare prassi discutibili – su valutazione di professionalità, incompatibilità, incarichi e organizzazione degli uffici. Chi si annoia a fare la conta, però, di questa opera incessante può constatare egualmente i risultati.
Leonardo Sciascia già nel suo risalente saggio su “I fatti di Bronte” (datato 1960, poco dopo “Le parrocchie di Regalpetra”, prima ancora de “Il giorno della civetta” e di “Morte dell’inquisitore”), cominciava a denunciare le dinamiche di potere che in ogni tempo – e non meno quando ci sono rivolgimenti o riforme – hanno condizionato l’amministrazione della giustizia, facendola diventare strumento funzionale ad un proclamato rinnovamento morale e istituzionale (l’Unità d’Italia, ma poi anche il fascismo, e ancora dopo a rovescio l’AMGOT) cui corrispondevano, invece, meri riequilibri o consolidamenti di rapporti di forza.
Cosa penserebbe oggi delle sempre più indispensabili riforme dell’organizzazione giudiziaria?
Sciascia in vita era capace di assumere posizioni e proporre letture del tutto asimmetriche rispetto alle linee di pensiero, tracciate dal dibattito pubblico, e la sua voce sorprendente e originale spezzava sempre i ritornelli delle fazioni in lotta, persino di quelle che sembravano più vicine alle sue opinioni.
Chi si ricorda di questo o chi semplicemente legge oggi quello che disse allora ma nella temperie di allora e non sotto la luce del consenso unanime e (spesso ipocritamente) devoto riservatogli oggi, si renderà conto che vi è solo da compatire – sempre che non siano, come talvolta viene il sospetto che siano, in mala fede – coloro i quali ritengono dai suoi scritti di ricavarne il pensiero sui fatti dell’attualità: su quali proposte sosterrebbe, su quali scelte condividerebbe, su quali rimedi suggerirebbe.
Regole e riforme sono infrastruttura sotto la quale, comunque, rimane irrisolto il tormento sciasciano, mutuato dalla constatazione drammatica che Alessandro Manzoni appunta nella “Storia della colonna infame”: il continuo rischio che nell’amministrazione della giustizia ci si possa scoprire “un’ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano”.
L’essenza immortale della critica di Sciascia ai giudici e la pretesa che essi soffrano e non si fregino del ruolo da essi scelti si concretizza in un monito: “devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perchè il potere è esercitato in libertà ed autonomia”.
Non sono parole di Sciascia. Sono parole di Rosario Livatino.
Quelle di Sciascia hanno un suono più cupo ma il concetto che esprimono (assai tenace, sciascianamente lo potremmo definire) è lo stesso: “la scelta della professione del giudicare dovrebbe avere radice nella ripugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere (…) nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”.
La differenza tra i due sembra davvero misurabile in quegli scarsi venti chilometri di strada statale che separano Racalmuto da Canicattì. E se poi si rilegge in Sciascia che “il problema vero, assoluto” non si risolve con riforme o referendum, perché “è di coscienza, è di religione”, mentre oggi tutti rileggono Livatino perché il suo essere giudice si è incarnato proprio in una religione, allora si capisce che tra le campagne dei due paesi dell’agrigentino ci saranno forse dei sentieri che li separano appena appena di un soffio.
2. Ripensare il ruolo del giudice nel crogiolo delle inquietudini sciasciane
Nel volume curato da Andrea Apollonio, dal titolo “Verità impossibili. Voci della magistratura siciliana sull’opera di Leonardo Sciascia”, una di queste voci ha ipotizzato che un giudice dei nostri tempi, alla ricerca di un ripensamento sulla fisionomia ideale che l’amministratore della giustizia dovrebbe assumere nel quotidiano, constatata la confusione che, dietro la sicumera dell’indignazione e la professione dei principi, regna tra molte delle agenzie di etica istituzionale, possa essersi rivolto proprio agli scritti, alle epigrammatiche annotazioni e ai personaggi del Maestro di Regalpetra per ritrovare gli orizzonti di senso della sua dolorosamente necessaria professione.
“Un’intervista impossibile a delle pagine scritte o meglio ancora la richiesta di un consulto ad un oracolo che, tra il fruscio e gli odori di carta stampata e talvolta ingiallita anziché tra i fumi del fuoco perenne di farina d’orzo e foglie d’alloro, pronunci responsi da decifrare senza pretendere chiarezza.”
I frammenti sciasciani sono stati generosi di inquietudini per il giudice alla ricerca dell’essenza del giudicare:
“E se non si torna a chieder alle persone il conto preciso di quello che sono, di quello che fanno, di come vivono; se non si torna a giudicare un’azione per quella che è, senza far caso se è fatta con la mano sinistra (che sa quello che fa la destra) o con la mano destra (che sa quello che fa la mano sinistra), temo che nessuna riforma o rivolgimento varrà a cavare il classico ragno dal classico buco: immagine del tutto pertinente alla situazione, e anzi da moltiplicare – tanti buchi, tanti ragni”
(Nero su Nero, 1979)
“…quelle apparenze che da un certo punto in poi non sono apparenza, ma condizionamenti e condanne”
(Cruciverba, 1983)
“ Un fatto è un sacco vuoto. Bisogna metterci l’uomo, la persona, il personaggio perché stia su”
(Il contesto, 1971)
“…Non si può pretendere da un contadino la razionale fatica di uomo senza contemporaneamente dargli il diritto ad essere uomo… Una campagna ben coltivata è immagine della ragione: presuppone in colui che la lavora l’effettiva partecipazione alla ragione universale, al diritto…”
(Il Consiglio d’Egitto, 1963)
“…quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto.”
(Corriere della sera, 14 ottobre 1983).
E in quest’ultima affermazione, di apparente irresolubile contraddizione, contraddittoria in sé e inconciliabile con il rigore argomentativo richiesto a chi, come Sciascia, predica il primato della ragione, sì proprio in quest’ultima affermazione c’è il cuore del metodo sciasciano. Che dice e si contraddice. Per esigere dal giudice che non chiuda la sua ragione in un recinto di tecnica, che non consenta alla Ragion di Stato o alle convenienze di ruolo di rendere irrilevanti davanti al suo giudizio le ragioni della dignità dell’uomo, che non cerchi di sfuggire al confronto – a volte pericoloso, spesso impari – con le attese delle folle e le pretese dei poteri.
3. La bilancia tra diritto e drogheria
Etica e professionalità sono le parole elevate che salveranno la magistratura dalla sua crisi. Ovviamente se si tradurranno in prassi quotidiane. Bene! Questa è la strada. Ma rileggere Sciascia insegna la diffidenza verso chi invoca l’etica e la professionalità, così come verso chi invoca la verità, fino a farne strumenti ciechi o fonti germinatrici di pregiudizio.
Etica e professionalità, tecnica e scienza, possono diventare nient’altro che armi affilate per la conquista di porzioni di potere, talvolta anche molto miserabile.
Possono creare la familiarità di gioco con “quella bilancia che, incisa sul davanti della scranna presidenziale, dava l’illusione o la delusione, a seconda la si guardava dalla gabbia o da fuori, che il tribunale fosse soltanto una drogheria accreditata”, come icastico e irriverente Sciascia la definì nel racconto “Il signor T protegge il paese”.
In “Morte dell’inquisitore”, Sciascia ci racconta che, mentre supreme ingiustizie si consumavano con lo strazio degli eretici nello Spettacolo generale di Fede, il più ingrato lavoro di Monsignor de Los Cameros, inquisitore di Sicilia, era quello di stabilire il ruolo delle precedenze nelle solenni processioni che precedevano l’esecuzione delle sentenze del Sant’Uffizio.
“I qualificatori teologi avevano attaccato briga coi consultori giuristi: i primi ritenevano di dover avere vantaggio sui secondi per il fatto stesso che di un reo prima veniva qualificato l’errore teologico, e poi scendevano in campo i giuristi; ma questi da parte loro definivano, l’Atto di Fede pubblico come un atto giudiziario. I consultori ecclesiastici contendevano con i consultori laici; e il partito dei consultori laici era a sua volta internamente agitato dal contendere tra togati, avvocati semplici, avvocati del segreto.”
Questioni giuridiche raffinatissime mentre la dignità dell’uomo si mortificava (alla lettera, si faceva di morte) sopra un palcoscenico dinanzi alla folla plaudente. E dinanzi alla corte capitanale che si lamentava delle sedie rivestite di damasco di color perso perché avrebbe preteso, richiamandosi a vari canoni, sedie di velluto carmisino.
Questa metodica di selezione delle questioni giuridiche ritenute più rilevanti rimane collocata alla data del 16 marzo del 1658 nella Palermo dei vicerè oppure, come direbbe Sciascia, è una velenosa entelechia del potere, una fotografia di una realtà che tende a riprodursi fino a che raggiunge l’obiettivo finale cui spontaneamente tende (la mera affermazione di sé) e che in questo caso in nulla potrebbe identificarsi con la giustizia?
La coscienza del giudice dovrà vigilare su di sé e su chi lo circonda per ricacciare questa immagine nel passato. Senza confidare nel fatto che certi atteggiamenti tecnicamente astratti, prima ancora di mostrarsi irragionevoli, potranno rivelarsi ridicoli. Questo non basterà.
“Perché”, scrive ancora Sciascia introducendo una mostra del pittore Pietro Guccione nel 1984, “la stupidità – bisogna riconoscerlo – sa essere perfetta, mentre l’intelligenza raramente lo è”.
4. L’etica imperscrutabile e professionale
L’etica del giudice sarà la distanza? L’imprescrutabilità? Il rispetto delle forme? L’ossequio al sistema giuridico-istituzionale di cui è uno snodo?
Basterà questo a legittimarne il ruolo in un sistema democratico moderno?
Se potrà bastare, l’impresa è tutta lì: assicurare che chi giudica sia dotato di elevata preparazione tecnica, sia diligente e puntuale.
Ma almeno su questo Sciascia si è espresso già e non possiamo rammaricarci del fatto che oggi non sia con noi a discuterne:
“Presupponendo la scienza del cuore umano alla pari di quella dei codici, e magari in maggior misura quella del cuore umano, l’amministrazione della giustizia riceverebbe anzi danno da una eccessiva professionalità.”
Proprio così ha scritto sul Corriere della sera del 14 ottobre 1983 in un articolo in cui tra l’altro parlava del caso Tortora. E in un caso nel quale le iniziative giudiziarie non venivano portate ad esempio di corretta amministrazione della giustizia, Sciascia propose anche il rischio inverso; oltre al danno provocato dalla professionalità scarsa, se ne poteva prefigurare uno, forse ancora più grave, derivante da professionalità eccessiva. Quella scarsa smarrisce ma quella eccessiva soffoca la scienza del cuore umano ed entrambe convergono verso un decidere sordo e vuoto. Che come il suono di una campana sancisce la solennità di chi la muove, sollecita l’attenzione di chi la ascolta, ma annichilisce senza ragione chi vi si trova dentro.
Rileggendo il racconto di Tolstoi, “La morte di Ivan Il'ič”, Sciascia commenta la vicenda del protagonista, un giudice, che rivede se stesso nel medico che gli formula la prognosi di un male incurabile e che gli sembra comportarsi come in tribunale fa chi formula l’accusa ad un imputato. Allo scrittore siciliano in quel contesto premeva sottolineare come fosse in atto una forma di medicamentalizzazione della vita, ma (inconsapevolmente) come in un gioco di specchi racconta ciò che può essere la giuridicizzazione della vita degli uomini, che possono così sparire dalla vista dell’uomo giudice chiamato a deciderne le sorti.
“Imperscrutabile, come il giudice. Come il giudice, non tenuto a render conto di nulla e soprattutto delle sentenze che emette.
E così come il giudice può dar torto o ragione facendo astrazione del torto o della ragione, poiché quello che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata, il medico fa astrazione della malattia e della salute, poiché quello che conta è l’affermazione della medicina, cioè la medicamentalizzazione dell’idea della vita”.
Sembra affiorare in queste parole il germe dal quale può scaturire la visione della giustizia che, ne “Il contesto”, il presidente illustra all’ispettore Rogas, spiegandogli come, in nome del circuito della legittimità, le prove oggettive non esistono e quel che conta è il potere legittimo che può rendere l’uomo allo stato di colpa.
“…quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società - che somma così paurosamente grande di poteri gli affida - disposto e proteso a comprendere l'uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.
Questa volta è di nuovo Livatino che parla. Ma oramai è chiaro: il Maestro ateo e il Beato cattolico guardano gli stessi orizzonti dalla campagna di contrada Noce o da una finestra del Palazzo di giustizia di Agrigento.
5. L’approccio di “sistema”
La storia d’Italia è disseminata di storie di magistrati che interpretano un potere senza potere, che per l’affermazione della legalità e della verità si confrontano senza mezzi con soggetti portatori di fatto di una forza talvolta capace di neutralizzarli talaltra di schiacciarli. Sciascia si è occupato anche di loro e di tutti gli altri uomini dello Stato che, in vari ruoli, hanno esercitato i loro compiti scoprendosi senza potere.
Ma la sua diffidenza verso chi amministra la giustizia si fonda sulla constatazione che l’essere un potere o l’essere un senza potere non deriva da profili normativi od organizzativi, ma ancora una volta dal modo di essere dell’uomo.
In più occasioni Sciascia ebbe a raccontare che da ragazzo, prima che gli venisse somministrato per obbligo scolastico, aveva letto “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni e s’era fatto di quel romanzo un’idea rovesciata rispetto a quello che a scuola gli avrebbero insegnato: una storia disperante il cui protagonista assoluto, perché vincente, era Don Abbondio.
A fronte del conflitto impari tra i due giovani popolani Renzo e Lucia e il signorotto Don Rodrigo, dopo la propagazione della peste, dopo le sommosse e la fame, le conversioni e i tradimenti, ognuno sopporta la sua porzione di sofferenze e di sconfitte, ma chi trionfa è sempre Don Abbondio: con lui “l’uomo del ‘particulare’ perviene alla sua miserevole ma duratura apoteosi”.
E perché in lui può esserci la sintesi di ciò che di peggio può diventare un giudice, il più elevato in grado al pari del più marginale e periferico?
Perché l’agire di Don Abbondio rappresenta “un sistema di servitù volontaria, non semplicemente accettato ma perseguito da una posizione di forza, di indipendenza quel era quella di un prete in Lombardia”.
Arrogante e pavido, vittimista e sfuggente, fa della sua indipendenza e del suo potere gli elastici strumenti necessari a schivare danni e ad assicurarsi protezione; nonostante dovesse servire il volere di Dio, era “refrattario alla Grazia e della Provvidenza si considerava creditore”.
Sciascia si lamentava del fatto che, negli istituti scolastici e nei corsi universitari, non si trovasse traccia di uno dei saggi, a suo avviso, più illuminanti sul significato anche civile del capolavoro manzoniano; lo aveva pubblicato nel 1933 Angelandrea Zottoli e aveva un titolo significativo: “Il sistema di Don Abbondio”.
Oggi che la palingenesi della magistratura pare debba prendere le mosse dal ripudio di un “sistema”, che nell’editoria contemporanea ha dato il titolo a volumi commercialmente più fortunati di quello di Zottoli, forse bisognerebbe concentrarsi maggiormente sui mali italici più endemici e più camaleontici, capaci di insinuarsi anche in un potere autonomo e asseritamente separato. Con o senza le correnti.
Leggendo un libro del 1933, che trae spunto da un romanzo del 1827, che a sua volta parla di una vicenda del 1628, forse si capirà per tempo, entro il 2022, come contrastare l’unico sistema che può davvero durevolmente condizionare i magistrati: quello di Don Abbondio.
6. La destinazione di un percorso
Un giudice inquieto ha cercato di rileggere Sciascia. Per capire verso dove potremmo andare per uscire da questa crisi, che grava sull’istituzione e che coinvolge i singoli.
Ma è già partito un treno. Sul quale viaggia il giudice inquieto e lungo il tragitto ha portato questi libri, per aiutarsi a trascorrere utilmente il tempo.
Il treno porterà – così gli hanno detto – al rinnovamento e alla rilegittimazione della magistratura dopo gli scandali che l’hanno colpita.
Quale sia la meta di questo treno di preciso il giudice non lo ha ancora compreso.
Gli scritti sciasciani, che ha riletto, lo hanno esortato a trovare dentro di sé nella coscienza e attorno a sé nella scienza del cuore umano la strada per giungere imperfettamente ma effettualmente alla meta del giusto giudicare.
Ma sul treno c’è già e il convoglio va.
Ed il giudice si sente come quel contadino, di cui trova fulminante racconto nel diario sciasciano intitolato “Nero su nero” e che, come lui, sperava di poter essere sicuro della meta. Epperò….
“Il contadino che a Roccapalumba sale sul treno che va ad Agrigento, per tre volte, a tre persone diverse, domanda se il treno va ad Agrigento: e per tre volte ottiene la stessa risposta: «Almeno…» La terza volta la risposta viene addirittura da un ferroviere: e allora il contadino si rassegna al dubbio. Nessuno è certo che il treno vada ad Agrigento: pare che ci vada, così è scritto, così credono i viaggiatori e coloro che lo muovono; ma può anche finire a Trapani, a Messina, all’inferno”.