Il Referendum per l’eutanasia legale. Forum di Giustizia insieme. 3) Paolo Veronesi
Intervista di Roberto Conti a Paolo Veronesi
1. La via referendaria in tema di eutanasia dopo le decisioni della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato- sentenza n.242/2019 e ord. n.207/2018-. Indebita interferenza rispetto al possibile intervento legislativo ovvero uso legittimo dello strumento referendario per dare attuazione alle pronunzie della Consulta?
Il quesito referendario non si sovrappone affatto a quanto sancito dalla sent. n. 242/2019 sull’aiuto al suicidio ex art. 580 c.p., ma – potremmo dire – vi si affianca. Esso non dà insomma attuazione a quella pronuncia (che tanti ostacoli sta illegittimamente incontrando), ma s’interessa di un reato diverso eppure strettamente collegato (l’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p.): lo intende insomma rimodulare procedendo oltre quella decisione. Il quesito oggi sul tavolo non realizza dunque alcuna “indebita interferenza” sul legislatore, se mai un referendum (ogni referendum) possa essere letto in questi termini. Ciò vale specialmente in questo caso. Va infatti considerato che il legislatore, specie sui temi biogiuridici, accumula da sempre ritardi impressionanti e appare tradizionalmente propenso all’ostruzionismo o all’immobilismo. Anche il disegno di legge approvato dalla Commissione Giustizia della Camera il 6 luglio scorso, non si occupa minimamente di omicidio del consenziente, ricalcando soltanto quel che è sancito nella sent. n. 242/2019. Al contempo, la storia italiana prova che sono pari a zero le possibilità che un disegno di legge d’iniziativa popolare giunga a destinazione. In un quadro simile, proporre questioni di legittimità o attivare la c.d. “seconda scheda” – quella referendaria – costituisce semplicemente uno “strumento” per ottenere qualche risultato. Come un corso d’acqua che veda sbarrato il proprio cammino cercherà altri sbocchi a valle, lo stesso atteggiamento adotta chi intenda perseguire i propri legittimi obiettivi dopo aver cozzato contro l’inerzia e l’indifferenza parlamentare. È insomma naturale, in un contesto simile, rivolgersi ad altri istituti comunque previsti dalla Costituzione – referendum compreso – per giungere alla meta. Questa volta ciò avviene, tra l’altro, su un tema che riporta il referendum alla sua ratio originaria, sottoponendo all’elettore una questione chiara e precisa che riguarda direttamente l’esistenza di tutti e sulla quale tutti dovrebbero misurarsi: non è sempre stato così. Che poi ciò si traduca in una domanda referendaria ammissibile, alla luce della contorta e imprevedibile giurisprudenza costituzionale in materia, è un’altra questione: le variabili elaborate dalla Consulta sono ormai tali e tante che i suoi giudizi, in questo campo, sono diventati del tutto imprevedibili e non sempre comprensibili.
2. La circostanza che, rispetto alle decisioni della Corte costituzionale ricordate nel primo quesito, il quesito referendario intenda incidere sull’art.579 c.p. e non sull’art.580 c.p., direttamente interessato dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, assume qualche rilievo ai fini dell’ammissibilità della proposta?
In base al modo in cui la Corte è venuta via via configurando il suo giudizio sull’ammissibilità dei referendum, non credo siano immediatamente trasferibili, nel giudizio oggi richiesto alla Corte, gli argomenti che la stessa Consulta ha utilizzato nella sua pur fondamentale sent. n. 242/2019. Se lo fossero, la Corte dovrebbe leggere il quesito sull’art. 579 c.p. come se esso incorporasse quanto già stabilito nella sua sentenza relativa all’art. 580 c.p. (la n. 242/2019, appunto). Mi pare invece che la Corte potrebbe ribadire quanto essa stessa ha sancito in un passaggio della sentenza da ultimo citata, applicando, in aggiunta, i fondamentali principi di legalità, tassatività e determinatezza alla fattispecie penale in discorso. Nella sent. n. 242 la Consulta precisò infatti che l’art. 580 c.p. non avrebbe consentito, stante il suo tenore letterale, alcuna interpretazione adeguatrice che “aprisse” alle ipotesi di aiuto al suicidio per i malati rientranti nelle condizioni in cui versava djFabo: era perciò assolutamente indispensabile un suo intervento di drastica ricalibratura costituzionale della norma e bene aveva fatto il giudice a sollevare la quaestio. Nella sent. n. 13/2012 essa ha inoltre affermato, in tutt’altro contesto, che i referendum abrogano disposizioni e non norme. Seguendo queste logiche, le medesime conclusioni credo dovrebbero ribadirsi anche per il testo dell’art. 579 c.p. che residuasse dopo l’eventuale abrogazione referendaria. Senza coinvolgere la Corte costituzionale – o senza l’improbabile intervento del legislatore – non sembrerebbe quindi possibile leggere l’art. 579 c.p. post-referendum procedendo oltre il tenore letterale dell’ipotetica normativa di risulta. La Corte ha del resto escluso di poter svolgere, nell’ambito dei giudizi di ammissibilità sui referendum, i tipici interventi che essa invece adotta nel quadro del suo sindacato incidentale. Più volte la Consulta ha quindi sottolineato che il giudizio di ammissibilità si atteggia «con caratteristiche specifiche a autonome», «in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge» (si v., ad esempio, la sent. n. 46/2005). Il quesito dev’essere insomma “autosufficiente”, delineando con chiarezza ciò che sarà prodotto per suo tramite, né il giudizio di ammissibilità si presta a ospitare, nella propria trama, pronunce di carattere sostanzialmente interpretativo di quanto si va a rimodulare abrogando. Sono aspetti che paiono acquistare un particolare rilievo proprio nel contesto penale.
3. A suo avviso il quesito tende ad integrare il quadro normativo vigente piuttosto che ad abrogare una disposizione già colpita dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, ovvero esso si pone nell’ambito della piena ortodossia degli interventi referendari ammessi dalla Costituzione ?
Se con la domanda s’intende sollecitare una presa di posizione sulla natura manipolativa del quesito referendario (inammissibile ai sensi della giurisprudenza costituzionale), ovvero sul suo dar vita a una mera abrogazione parziale (che darebbe il via libera alla richiesta dei promotori), ritengo di dover accogliere questa seconda opzione. Del tutto a prescindere, sia chiaro, dall’esistenza di altre possibili ragioni di inammissibilità della richiesta, estraibili tra le tante e variegate che la Corte ha via via elaborato in materia. Pur adottando la c.d. “tecnica del ritaglio”, più volte analizzata e precisata dalla Corte (si v. ad esempio le sentt. n. 26 e n. 27/2017), il quesito non presenta infatti un carattere fantasiosamente propositivo/manipolativo di disposizioni vigenti, bensì una portata effettivamente demolitoria. Esso si concentra infatti su un unico reato, interamente disciplinato dall’articolo oggetto di referendum, «proponendo l’ablazione» di un corpo di disposizioni autonome in esso presenti (come si legge nella sent. n. 27/2017). Il suo scopo è insomma quello di abolire semplicemente un divieto (di natura penale), e, proprio tramite questa operazione chirurgica, una condotta fino ad oggi vietata diverrebbe consentita (sent. n. 49/2005). Come afferma la Corte, si andrebbe con ciò «ad abrogare parzialmente la disciplina stabilita dal legislatore senza sostituire a essa una disciplina estranea allo stesso contesto normativo», né costruendo «una nuova norma mediante la saldatura di frammenti lessicali eterogenei» e concepiti ad altri fini. Il quesito non sarebbe cioè per nulla finalizzato a dar vita a una disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo di riferimento (sentt. nn. 36/1997, 13/1999, 33 e 34/2000, 26/2017). Il ritaglio, nel caso specifico, produrrebbe cioè solo la legittima «riespansione di una compiuta disciplina già contenuta in nuce nel tessuto normativo» e finora «compressa per effetto dell’applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum» (sent. n. 27/2017, ma così già nelle nn. 13/1999, 33 e 34/2000, 15 e 16/2008): abrogate quelle specifiche disposizioni, quanto sin qui proibito diverrebbe consentito. Si avrebbe dunque omogeneità, chiarezza e non contraddittorietà del quesito, il quale parrebbe insomma presentare una matrice razionalmente unitaria. Non nascondo tuttavia che una qualche ambiguità potrebbe emergere ove si volessero esasperare le diverse (possibili) intenzioni di chi propone il referendum e di chi sarebbe chiamato a votarlo: si intende cioè semplicemente replicare quel che è sancito nella sent. n. 242/2019 o si sta operando per introdurre nell’ordinamento, tranne che in alcuni casi, il principio della piena disponibilità della propria vita (andando, cioè, al di là di quanto stabilito in quella stessa pronuncia)? Ma non credo che sarà questo il nodo della questione. I veri problemi – in base alla pregressa giurisprudenza della Corte – mi pare si collochino su un altro piano.
4. Esiste, a Suo avviso, il pericolo che il quesito referendario formulato dai proponenti, se accolto, consenta la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio anche al di fuori dei limiti fissati dalla Corte all’incostituzionalità dell’art.580 c.p., al punto da escludere l’antigiuridicità dell’uccisione per effetto del mero consenso della persona che chiede di interrompere la propria esistenza? Ove Lei ritenesse sussistente tale pericolo, lo stesso potrebbe essere eventualmente considerato in sede di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale?
È proprio nel rispondere a questa domanda che emergono – alla luce dei precedenti giurisprudenziali in materia di referendum – i maggiori rischi di una pronuncia che sbarri le porte alla consultazione.
La Corte ha spesso sottolineato che quanto rileva, ai fini del suo giudizio di ammissibilità, va desunto esclusivamente dalla «finalità incorporata nel quesito», ossia da quanto si ricava in base alla sua formulazione. Il quesito oggi in esame, valutato in sé e per sé, e senza scandagliare altre possibili intenzioni dei proponenti (v. la risposta alla domanda n. 2, in fine), pone dunque un’alternativa netta all’elettore, il quale è messo «in grado di percepire immediatamente e con esattezza le possibili conseguenze del suo voto» (sent. n. 28/2017). Questo è del tutto conforme ad altre prese di posizione della Consulta, per le quali «ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare se essa abbia… un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione» (45/2005).
In base a ciò, la conseguenza dell’eventuale abrogazione prodotta dall’esito positivo del referendum sembrerebbe univoca: il reato di omicidio del consenziente verrebbe abrogato, salvo continuare a punirsi con le norme dell’omicidio le circoscritte ipotesi di persona minore, inferma di mente o il cui consenso sia stato estorto. Per le ragioni già espresse replicando al quesito n. 2, non pare inoltre sia possibile sottoporre la normativa di risulta a interpretazioni diverse rispetto a quelle fatte palesi dal dettato residuo dell’art. 579 c.p. Tanto più che si ragiona di una fattispecie penale, per la quale vigono, dunque, i già citati principi di tassatività e di determinatezza, essendo vietata l’interpretazione analogica e dovendosi altresì evitare impropri spazi d’azione per il soggettivismo dei giudici.
A questo punto, si dovrebbe però verificare se, come afferma la Corte, «la legge ordinaria da abrogare incorpori determinati principi o disposti costituzionali, riproducendone i contenuti o concretandoli nel solo modo costituzionalmente consentito», ma anche soltanto stabilire se essa concreti «quel minimo di tutela che determinate situazioni esigono secondo Costituzione: sicché la richiesta di referendum, attraverso la proposta mirante a privare di efficacia quella legge, tenda in effetti a investire la corrispondente parte della Costituzione stessa» (sent. n. 26/1981).
È in questo passaggio che – mi pare – si celi un problema.
Le disposizioni residuate dall’abrogazione parrebbero infatti annullare una tutela minima per situazioni che invece la esigono secondo Costituzione, almeno per come la Corte ha sin qui interpretato l’ambito d’intervento del diritto alla vita. In altri termini, la formulazione del quesito lascerebbe intendere che l’abrogazione sia destinata a incidere su una porzione di normativa e di tutele che la Corte, in base ai suoi precedenti, sembra ritenere costituzionalmente necessarie o, addirittura, a contenuto costituzionalmente vincolato (sentt. nn. 16/1978, 26/1981 e 45/2005). Più di preciso, ciò scaturirebbe da quanto la Corte stessa ha isolato proprio nella sent. n. 242/2019, che è ben più restrittiva rispetto alla sentenza costituzionale tedesca del 26 febbraio 2020, la quale (sempre in materia di aiuto al suicidio) punta decisamente l’accento sull’autodeterminazione individuale dei singoli, a prescindere da ogni motivazione, giustificazione o patologia del soggetto. La Consulta ha invece stabilito che solo i malati rientranti nelle quattro condizioni critiche da essa indicate nella sent. n. 242 possano legittimamente aspirare all’aiuto medico a morire, non già altri soggetti. Del resto, anche nella precedente ord. n. 207/2018, essa aveva altresì specificato che non si potrebbe comunque aprire a qualsiasi ipotesi di suicidio assistito fondandosi su un «generico diritto di autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita». Se il quesito referendario oggi in discussione venisse accolto dagli elettori, in base al “nuovo” testo dell’art. 579 c.p. – senza ulteriori correzioni legislative o introdotte dalla Consulta – potrebbe invece chiedere di essere sottoposto a eutanasia non solo chi presentasse il quadro clinico e psicologico delineato nella “sentenza Cappato”, ma chiunque non ricadesse nelle ipotesi che continuerebbero a essere disciplinate e punite dall’art. 579 c.p. emendato. Vale a dire che anche una persona perfettamente sana, per una qualsiasi ragione e in base a sue scelte personalissime, sarebbe in grado di assumere una simile decisione e chiedere di finirla. L’approdo del referendum – in base al suo stesso quesito – andrebbe quindi al di là di quanto plasmato dalla Corte nel cesellare l’illegittimità parziale dell’art. 580 c.p.
Lo stesso problema emerge anche da un altro profilo dell’art. 579 c.p., ove si ragiona di “chiunque” provocasse l’omicidio di un soggetto consenziente: questi non verrebbe più punito se non nei casi non coinvolti dalla richiesta abrogazione. Ma se davvero la Corte confermasse quanto ho sintetizzato in risposta alla domanda n. 2, anche in tal caso non sarebbero estensibili al quesito in esame le precisazioni indicate nella sent. n. 242/2019, ove la Consulta non ha aperto affatto all’aiuto al suicidio praticato da chicchessia e in qualunque luogo.
Sono tutte questioni che il quesito non risolve da sé e che la Corte – in base alla sua giurisprudenza – credo sarebbe difficilmente disponibile ad affrontare nell’ambito di un giudizio di ammissibilità. Con simili precedenti si deve fare i conti: la storia del referendum in Italia poteva certo essere diversa ma così non è stato.
5. Vi sono, a Suo giudizio, carenze del quesito referendario rispetto alle questioni poste dalla sentenza n.242/2019?
Penso che la risposta al quesito n. 5 sia già insita nella mia replica alla domanda n. 4.
6. Quali effetti potrà determinare la decisione in punto di ammissibilità del quesito referendario sull’iter parlamentare che riguarda la proposta di legge sul suicidio assistito?
Se la Corte dichiarasse ammissibile il referendum, non credo che ciò produrrebbe un’accelerazione dell’iter del disegno di legge ora all’esame del Parlamento. Per certi versi, si potrebbe addirittura generare l’effetto contrario: molti parlamentari potrebbero cioè preferire attendere il responso popolare, sperando, ad esempio, che ciò possa essere poi strumentalmente brandito per bloccare tutto, come massimamente accadrebbe se il corpo referendario bocciasse il quesito (in base ai sondaggi e al successo della raccolta delle firme non credo però che accadrebbe) o manifestasse il suo disinteresse (sperando che venga a mancare il quorum, magari mettendo in campo la strategia opportunistica già vista all’opera per i referendum sulla legge n. 40/2004). In ogni caso, come sottolineavo, il ddl ora in discussione alle Camere non riguarda affatto l’oggetto del referendum, limitandosi ad attuare quanto già contenuto nella sent. n. 242/2019 con riguardo all’art. 580 c.p.: esso opera dunque su un piano diverso e solo parallelo al quesito. Si potrebbe magari assistere a un maggior impegno parlamentare se una maggioranza rinvenisse in ciò lo stratagemma per bloccare la consultazione eventualmente ammessa dalla Corte, introducendo tempestivamente una nuova disciplina sostanziale dell’art. 579 c.p. Se poi il referendum superasse tutti gli ostacoli e raggiungesse i suoi obiettivi, magari il Parlamento ne trarrà stimolo per intervenire, coordinando e integrando opportunamente la disciplina non solo dell’art. 580 c.p. – come sembrerebbe intenzionato – ma anche dello stesso art. 579 c.p. Ma sono tutte ipotesi teoriche. Nell’immediato, se la Corte dichiarerà inammissibile il quesito, dovremo di certo assistere alla consueta passerella: mi attendo assurde prese di posizione secondo le quali la Corte si sarebbe in tal modo espressa per l’illegittimità tout court dell’aiuto medico a morire sub specie di eutanasia volontaria.
7. In conclusione, quali sono le Sue previsioni sulle sorti del quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni e dalle altre associazioni proponenti?
Temo che, in base a quanto ho già illustrato e alla luce della contorta giurisprudenza in materia, siano maggiori le possibilità che la Corte blocchi il quesito piuttosto che lo ritenga ammissibile. Ciò anche senza indulgere nell’applicazione di un altro (controverso) criterio che la Corte ha talvolta utilizzato e che sarebbe bene abbandonasse. Mi riferisco alla verifica anticipata della legittimità della normativa di risulta, che, in alcune pronunce, la Corte stessa ha peraltro dichiarato non doversi mai praticare (ad esempio, nelle sentt. nn. 26/1981 e 27/2017). Se poi la Corte decidesse di usare proprio questo discutibile criterio, credo che i problemi di ammissibilità aumenterebbero. Ciò in base a quanto ho illustrato in risposta ai quesiti 2 e 4, nonché per l’esigenza di sondare la legittimità della normativa residua anche nella sua ragionevole o irragionevole congruità rispetto a quanto affermato dalla Corte stessa sull’art. 580 c.p. Come dicevo, l’eventuale decisione d’inammissibilità verrà poi interpretata e sbandierata da molti – per insipienza o malafede – come una pronuncia d’illegittimità pro futuro di ogni possibile normativa in materia di eutanasia. Sul piano politico, ciò verrà probabilmente usato per inibire, in questa fase, ogni evoluzione ulteriore rispetto a quanto sancito nella sent. n. 242/2019, benché l’una cosa non comporti affatto l’altra. Ammesso e nient’affatto concesso che, poi, a una legge sull’aiuto al suicidio finalmente si arrivi, e che la prospettiva di andare anche un po’ “oltre” – coinvolgendo lo stesso art. 579 c.p. – abbia mai avuto concrete possibilità di successo in seno all’attuale Parlamento. Pur essendo questa, a mio avviso, un’opzione del tutto legittima e, anzi, ormai necessitata.