La causa. Romanzo di Bruno Capponi
Recensione di Alfredo Storto
“Gli studiosi di problemi giudiziari sanno che per comprendere come funzionano le leggi di procedura bisogna conoscere da vicino la psicologia dei giudici e degli avvocati: solo così ci si accorge che in realtà i pregi o i difetti delle leggi non sono che le virtù o i vizi di coloro che le fanno vivere nella realtà dei processi”.
Così ammoniva Piero Calamandrei nei suoi Appunti sul professionismo parlamentare, pubblicati in Critica sociale del 5 ottobre 1956.
In effetti questa sembra essere l’anima del romanzo di Bruno Capponi, La causa, uscito nel 2019 per i tipi di Novecento editore e dedicato a quell’umanità varia e inesplicabile che popola a vario titolo gli uffici giudiziari civili.
L’esca del racconto è semplice.
Una persona qualunque un bel giorno apprende dall’avvocato del proprio defunto padre che è stata riassunta, cioè riportata in vita nei suoi confronti, una causa intentata nel 1950 contro il genitore e altre centinaia di persone. Apprende inoltre, dal testamento paterno, che questa causa va in qualche modo preservata, che bisogna impedirne l’estinzione, cioè la fine.
Benché consulti l’avvocato e uno zio il quale, pur essendo libero docente dal 1973, non è né avvocato né professore, non riesce a capire chi ha intentato la causa e perché, chi sono le altre parti e per quale ragione il padre teneva tanto alla lite.
Anzi, finisce per spingere involontariamente il povero zio, un’esile creatura rifiutata sia dal foro sia dall’accademia, a frequentare pericolosamente proprio i luoghi dai quali la vita l’aveva tenuto lontano: gli studi d’avvocato (l’uno che esce direttamente da un doloroso passato del docente, l’altro che incarna il topos del professionista senza scrupoli), il tribunale (di Roma in questo caso: il più grande d’Europa), i magistrati e, in particolare, il Presidente.
Per scoprire, infine, che i codici consentono di tenere in vita una causa della quale non si sa nulla e nulla si può sapere perché le carte processuali sono finite al macero e che nei sotterranei del palazzo di giustizia uomini delle istituzioni, che di queste assumono un’amara veste parodistica, cercano ancora un’idea di giustizia e sembrano disposti a farlo anche a costo di sacrificarla.
L’intreccio narrativo a questo punto sembra restituire un dramma.
Ma così non è.
Vale la pena di riannodare qualche filo.
Bruno Capponi qualche anno fa (2015) ha scritto un libro significativamente intitolato Salviamo la giustizia civile. Cosa dobbiamo dare, cosa possiamo chiedere ai nostri giudici. All’esame, accurato e mai noioso, dei mali del processo civile seguiva la petizione ultimativa di un cambiamento copernicano di prassi e mentalità di giudici, di avvocati e di politici, senza il quale presto sarebbe scomparsa l’idea stessa della tutela civile dei diritti. Dalle ultime pagine del volume emergeva tuttavia la disillusione dello studioso e dell’appassionato per un vero mutamento delle cose: troppe poche le risorse umane, intellettuali, materiali; troppa ormai la distanza culturale tra la complessità del processo civile e coloro che se ne occupano.
Da questo epilogo, tratto sul piano scientifico e documentario, nasce la palingenesi letteraria che abbiamo sotto gli occhi. Dal dolore che pervade le pur scorrevoli pagine del saggio, lo scrittore che sgòmita con lo studioso estrae il romanzo, abbandonando nell’impalpabile cosmo dell’invenzione letteraria tutta la zavorra delle regole, del galateo del diritto, del rigore scientifico.
La stessa materia, che lo scultore giuridico aveva faticato a modellare nella sua intollerabile fisicità quotidiana, l’acquerellista letterario recupera con apparente levità, utilizzando gli strumenti a lui consueti del paradosso, dell’ironia e del grottesco. Le figure professionali e umane, che da una parte appaiono inani e grigie, dall’altra si dilatano e si deformano secondo i canoni di una nuovissima persistenza della memoria e, inevitabilmente, si trasformano in altrettanti bozzetti letterari che si muovono senza più tempo né regole sulla concretissima scena del Tribunale di Roma.
Un vero suq il Tribunale di Roma, un labirinto per uomini e donne inghiottiti da una porticina (vera) che qui separa idealmente il mondo di fuori dal vorace stomaco della giustizia civile. Un labirinto nelle cui pieghe più nascoste l’invenzione letteraria immagina siano ospitati i suoi veri generali (presidente, procuratore, militari, perfino un professore) impegnati a dotare di soluzioni accettabili, ancorché spesso fuorilegge, processi che codici e prassi della vita reale hanno trasformato in enigmi e in ingiustizie permanenti, assegnandoli al limbo della non decisione, come altrettanti tragici urobori.
La progressione tra reale e immaginario segna inevitabilmente la scrittura secondo un percorso che costituisce una delle parti più originali del libro.
Innanzitutto, gli istituti giuridici e pratici: la riassunzione, l’estinzione, il convenuto, il primo smistamento, la ricostruzione del fascicolo, lo sfalcio d’archivio, solo per citarne alcuni. Tutto il serissimo campionario lessicale del processo civile perde, pagina dopo pagina, la sua consistenza reale e lievita, attraverso l’artificio della parola letteraria, verso una dimensione ulteriore. Così la causa che, uno degli avvocati del romanzo ammonisce essere cosa con la quale non si scherza, subito dopo si anima secondo le regole dell’incantesimo romanzesco e diventa «lenta, difficile, sinuosa, iterativa, carsica, indolente, infingarda, bugiarda, inattendibile, traditrice, manipolatrice, ulissiaca», come una vera eroina romantica, se non come una divinità pagana dal vindice imprevedibile braccio. E, infatti, secondo una felice progressione antropomorfa, «le cause, il giudice le conosce appena prima di deciderle e quasi sempre le decide senza neppure conoscerle troppo bene», anche perché «le cause civili si muovono da sole, si spostano da udienza a udienza, si accomodano docili nei faldoni, dai faldoni si trasferiscono negli armadietti dei giudici, dagli armadietti scivolano negli archivi delle sezioni, dagli archivi raggiungono i sotterranei e il giudice non si accorge di nulla (…); vangando per il tribunale nel tanto libero che hanno, le cause prendono consistenza, accumulano carte, si scambiano documenti come fossero figurine, si aggiungono parti, figliano, si riuniscono, si accoppiano (…)».
Allo stesso modo, come si è già detto, i protagonisti del processo civile abbandonano i propri panni mondani e vengono consegnati, nella trasfigurazione letteraria, a dimensioni oscillanti tra l’onirico e il grottesco.
È il caso dell’avvocato che ha curato la riassunzione della vecchia causa. Da incerte origini geografiche («calabresi o lucane o molisane – nel tempo le aveva rivendicate tutte, anche parlando con le stesse persone») sortisce un professionista, solitario come un lupo del quale ha lo sguardo e che si dice sia «l’ultima evoluzione della delinquenza forense», il quale non possiede un vero e proprio studio, spesso non compare in mandato, ma può essere utile che assista nei fatti la parte contro la quale ha agito.
Dello zio, creatura giuridica ermafrodita e irrisolta abbiamo già detto, mentre il Presidente del tribunale di Roma, diventatolo per uno sbaglio del Consiglio Superiore della Magistratura, è un vecchio magistrato che ha fatto la gavetta e girato mezza Italia, vivendo «in conventi, alberghi, locande, pensionati, motel, ostelli, affittacamere, campeggi, a casa di amici» e che governa «l’unità di crisi» della giustizia civile che si riunisce, carbonara, nei sotterranei dell’ex caserma di viale Giulio Cesare ai cui piani superiori è ospitato l’Ufficio giudiziario.
Come si è accennato, ciascuno di questi personaggi, al pari degli altri che affollano il romanzo, rinuncia, parola dopo parola, alla propria dimensione reale per diventare il genius loci di una connotazione della giustizia civile che ne delimita a sua volta un vizio: il difensore inadeguato e quello delinquente, il giurista non giurista, il professore di diritto processuale che abita quel non luogo collocato a metà tra filosofia e diritto, il magistrato animato da un sano ed efficiente pragmatismo che forse è solo l’esito di una lucida follia, perfino il colonnello dell’esercito (siamo o no in un’ex caserma?) che, con una geniale pennellata alla Buñuel, impersona il colonnello dell’esercito.
Tra le pieghe di questo campionario, tratteggiato con leggerezza divertita e grondante una saggezza ai confini con la pazzia, forse è la parte più riposta del romanzo. Qui il succo del racconto che evoca le parole di Calamandrei: i vizi e le virtù della legge e, in definitiva, della giustizia, sono nient’altro che il riflesso di quelli degli uomini che la chiedono e la somministrano e che, nel loro vivere curtense tra gli alti muri del diritto, spesso perdono il senso dell’orientamento.
Rimane, alla fine, un interrogativo.
La consapevolezza e la virtù negate alla giustizia amministrata alla luce del sole, possono essere recuperate di notte, nei sotterranei del tribunale dagli stessi protagonisti? In altre parole, il pessimismo dell’Autore, che traspare dalle conclusioni del saggio sulla giustizia civile, potrà essere riscattato col filtro visionario del romanzo?
Se una buona recensione è solo un modo per suscitare interesse, allora al recensore non è consentito altro che lasciar intravedere, com’è in certe vecchie gallerie, fitte di luce nel tunnel dell’ombra.
Cosa ci sia in fondo spetta al lettore scoprirlo. In fin dei conti, è il suo piacevole mestiere.