GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    RAPPORTO SULLA VIOLENZA DI GENERE E DOMESTICA NELLA REALTÀ GIUDIZIARIA

    RAPPORTO SULLA VIOLENZA DI GENERE E DOMESTICA NELLA REALTÀ GIUDIZIARIA[1]

    di Maria Monteleone

    Analisi delle indagini condotte presso le Procure della Repubblica, i Tribunali Ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini degli Psicologi.[2] 

    Sommario: Premessa - 1. Le Procure della Repubblica - 1.1. Il quadro emerso dai dati - 1.2 Le differenze tra diversi gruppi di Procure - 1.3. Osservazioni conclusive - 2. I Tribunali ordinari - 2.1. Il quadro emerso dai dati - 2.3. Osservazioni conclusive - 3. I Tribunali di sorveglianza - 3.1. Osservazioni conclusive - 4. La formazione degli operatori - 4.1. La Magistratura - 4.2 - L’avvocatura - 4.3. Gli Psicologi - 5. Conclusioni.

    1. Premessa

    Il “monitoraggio sulla concreta attuazione della Convenzione di Istanbul” costituisce uno dei compiti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, per queste ragioni l’attività di indagine   non poteva che prendere le mosse  dall’esame della realtà giudiziaria, partendo da dati certi,  al fine di rilevare  con quali modalità  il nostro Paese  contrasta il fenomeno della violenza di genere e domestica.

    Non è un caso che la stessa Convenzione dedichi una specifica disposizione - l’art. 11 alla “raccolta dati e ricerca”,  impegnando gli Stati firmatari ad effettuare  rilevazioni statistiche sul fenomeno, per consentirne una conoscenza reale, ma anche  per  verificare l’efficacia delle misure adottate, le tendenze delle varie forme di violenza, stimolare la cooperazione.

    In effetti , quando nel 2019 la Commissione di inchiesta ha attenzionato questo aspetto specifico, non si poteva neppure prevedere cosa –in breve tempo- sarebbe accaduto e quale rilievo il suo esito avrebbe assunto.

    Ci si riferisce non tanto alla modifica del quadro normativo conseguente all’entrata in vigore della L.n.69/2019, quanto  alla diffusione pandemica del Covid 19 , che per molteplici  ragioni ha prodotto gravi effetti sia sulla diffusione dei delitti di violenza domestica che sulla capacità di  reazione e di contrasto dell’ attività giudiziaria.

    Per questi motivi  si ha ragione di ritenere che  l’esito dell’indagine svolta assuma un rilievo ancora maggiore , in questo particolare momento storico, nel quale il nostro Paese è impegnato nello studio di interventi e modifiche legislative sulla giustizia ed ha in valutazione piani di investimenti finanziari che non possono non riguardare anche questo specifico settore.

    I principi indicati  dalla Convenzione di Istanbul  come “qualificanti” nell’azione di contrasto alla violenza domestica e di genere sono:

    a) la specializzazione di tutti gli operatori;

    b) adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese "le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri e le autorità incaricate dell’appli­cazione della legge";

    c) la possibilità di monitorarne l’applicazione attraverso una effettiva rilevazione statistica e la conseguente valutazione dei dati rivelatori del fenomeno.

     La Commissione ha quindi ritenuto importante accertare, attraverso la verifica della qualità della risposta giudiziaria ad alcune specifiche problematiche, “se” e “come”

     i principi fondamentali della stessa Convenzione abbiano assunto concreto rilievo traducendosi nella realtà operativa.

    Come è evidente l’interesse non è meramente conoscitivo e valutativo dell’attuazione della Convenzione stessa ma anche  prodromico alla formulazione di conseguenti rilievi e proposte anche operative.

    Per queste ragioni sono stati acquisiti i dati riguardanti alcuni aspetti maggiormente qualificanti dell’atti­vità di alcuni uffici giudiziari più importanti, proprio  in quanto sintomatici del grado di efficacia dell’azione di contrasto; nello stesso tempo l’attenzione si è focalizzata sul tema centrale della "formazione" e della "specializzazione" dei diversi protagonisti dell’attività di contrasto: i magistrati, gli avvocati ed i consulenti tecnici (nello specifico gli psicologi).

    Sulla base di questionari appositamente redatti, le indagini hanno riguardato le Procure ed i Tribunali Ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini degli Psicologi ed hanno focalizzato l’atten­zione sul triennio 2016-2018.[3]

    1. Le Procure della Repubblica

     Gli uffici più direttamente coinvolti nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, per le funzioni inquirenti attribuite dall’ordinamento giudiziario, sono le Procure della Repubblica, uffici competenti, insieme agli organi di polizia giudiziaria, nell’assicurare l’intervento dello Stato nella immediatezza della commissione dei reati e nel conseguente svolgimento delle attività di indagine. Per questo motivo un’attenzione particolare è stata rivolta all’esame degli aspetti più qualificanti dell’attività investigativa e dell’organiz­zazione delle Procure.

    Si sono dapprima evidenziati come determinanti i temi della effettiva specializzazione dei pubblici ministeri e delle modalità di assegnazione dei relativi procedimenti.

    Si è inoltre verificato “se e quanto” sia diffusa la coscienza della complessità della materia e la conoscenza della specificità dei reati tipici, ed anche “se e quanto” siffatta consapevolezza si sia tradotta in modelli organizzativi idonei a garantire competenza e tempestività nella trattazione dei procedimenti. Ciò in coerenza anche con i principi di efficienza ed effettività dell’intervento giudiziario.

    Ci si è poi concentrati sull’accertamento del grado di coinvolgimento degli esperti (quasi esclusivamente psicologi) chiamati a prestare la loro attività anche nel procedimento penale, e quindi ci si è soffermati sulla verifica del ruolo agli stessi riservato, su quanto siano diffusi ed omogenei i comportamenti più virtuosi: modalità di scelta dell’esperto, adozione di quesiti standard oggetto dell’incarico, elaborazione dello stesso con altri interlocutori istituzionali.

    La carenza o la inidoneità di tali elementi, infatti, contribuisce a rendere concreto il rischio di inadeguatezza della risposta giudiziaria, con conseguenti ulteriori effetti negativi per le vittime vulnerabili, con particolare riguardo alla inderogabile esigenza di garantirne l'effettiva protezione.

    Dall’analisi degli esiti dell’indagine emerge una situazione molto variegata tra i diversi Uffici di Procura. Come verrà  esposto in seguito, è stato possibile individuare gruppi di Procure che si trovano in stadi diversi di consapevolezza e azione. Un percorso di cambiamento è stato comunque avviato, sebbene ancora largamente incompleto.

    Emerge, nel complesso, una insufficiente consapevolezza della complessità della materia, sicchè  solo un significativo cambiamento culturale consentirà un salto di qualità nell'azione degli uffici.

    È fondamentale fare in modo che i comportamenti virtuosi, pur presenti, non restino episodici e strettamente dipendenti dall’iniziativa personale e che le best practices, oggi troppo frammentate e isolate, possano svolgere, se adeguatamente supportate, un importante ruolo di "traino" per gli altri uffici giudiziari.

    Si delinea, quindi, la necessità di una doppia strategia: da un lato un percorso di tipo culturale che porti alla condivisione della complessità e della rilevanza della materia; dall’altro, la messa a punto di azioni ed interventi strutturali, anche di tipo ordinamentale e regolamentare, che siano coerenti ed adeguati.

    I segnali positivi che emergono nelle Procure appartenenti ai gruppi più "virtuosi" assumono una grande rilevanza in quanto potrebbero svolgere un ruolo di impulso per le altre Procure meno preparate, ma anche per i Tribunali Ordinari, nei quali, come si vedrà la situazione complessiva appare più critica.

    1.1. Il quadro emerso dai dati

    Come  riferito la rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018, il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 98,6% (138 Procure su 140).

    Su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare -nel 2018-  la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero il 22% del totale. Tuttavia, come si evince dai dati, non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto della materia della violenza di genere e domestica e, viceversa, non necessariamente detti procedimenti sono sempre assegnati a magistrati specializzati. Inoltre, la situazione risulta molto variabile tra i diversi Uffici.

    Nel 10,1% delle Procure (14 su 138), tutte di piccole dimensioni, non esistono magistrati specializzati nella materia e questo implica che i procedimenti sono assegnati a tutti  i sostituti indistintamente.

    Nel 90 % (124 su 138) delle Procure, invece, è stato costituito un gruppo di magistrati specializzati che tratta la materia della violenza di genere contro le donne, tuttavia insieme ad altre materie riguardanti i cosiddetti "soggetti deboli o vulnerabili".

    Solo una minoranza degli uffici, pari al 12,3% (ovvero 17 su 138, di cui 10 di piccole, 4 di medie e 3 di grandi dimensioni) segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati esclusivamente nella violenza di genere e domestica, ma ciò non esclude che, soprattutto nelle piccole Procure, essi trattino anche procedimenti di altre materie.

    Dove esiste un gruppo di magistrati che si occupa – con le altre o esclusivamente – della materia della violenza di genere e domestica, ovvero nel 90% delle Procure, ci si dovrebbe aspettare che i procedimenti in materia vengano assegnati necessariamente a magistrati specializzati, tuttavia non è sempre così. Infatti nel 20% delle Procure nelle quali esiste un gruppo di magistrati specializzati, non sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica sono assegnati a detti magistrati.

    Ciò significa che i responsabili della organizzazione degli uffici giudiziari non hanno ancora raggiunto una adeguata consapevolezza della particolare complessità che la trattazione della materia della violenza di genere e domestica richiede, tanto che il 62% delle Procure dichiara di equipararla alle altre materie nella distribuzione dei carichi di lavoro tra i magistrati.

     Questo dato appare rilevante, in quanto il mancato riconoscimento della complessità della materia potrebbe contribuire all’innescarsi di circoli viziosi: non adeguatezza ed efficienza della risposta giudiziaria, non tempestività dell’inter­vento, aggravio/sbilancia­men­to nel carico di lavoro a svantaggio dei magistrati specializzati, con il rischio concreto di una disaffezione nei confronti della materia e di un disincentivo a trattarla.

    Strettamente connesso è il tema del ruolo svolto, anche nella fase delle indagini preliminari, dai consulenti tecnici, figure professionali rappresentate, nella quasi totalità dei casi, dagli psicologi. Tali figure nel tempo hanno assunto in questa materia una rilevanza sempre maggiore che si esplica non soltanto nello svolgimento di accertamenti di tipo specialistico (accertamento tecnico o perizia), ma anche nella funzione di "ausilio" alla polizia giudiziaria, al Pubblico Ministero o al difensore, nella raccolta di informazioni da minorenni o persone offese in condizione di "particolare vulnerabilità", con diretti riflessi sull’assun­zione della prova dichiarativa (testimonianza) nel procedimento penale.

    Significativi sono i deficit nel loro impiego nello svolgimento delle consulenze psicologiche sui minori, e in primis il fatto che la nomina non avviene sempre sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica.

    Il 25% delle Procure sceglie i CTU sempre e soltanto tra quelli iscritti all’Albo dei periti del Tribunale, albo che non contiene una sezione o un elenco di esperti specializzati nella materia, né prevede che tale competenza sia verificata in sede di richiesta di iscrizione all’albo stesso.

    Inoltre, è ancora troppo poco diffusa l’adozione di "quesiti standard" nel conferire incarichi ai consulenti nella materia della violenza di genere e degli abusi sui minorenni. Questa scelta pare auspicabile, in primo luogo perché è garanzia di omogeneità nell’azione giudiziaria (e ciò è particolarmente significativo negli uffici di medie e grandi dimensioni), in secondo luogo perché consente di assicurare, soprattutto in un settore così complesso, una corretta individuazione dell’oggetto dell’inca­rico e, quindi, di garantire, al meglio, il rispetto dei confini tra l’accer­tamento peritale e la funzione giurisdizionale riservata al magistrato.

    Solo il 18% degli uffici (25 Procure su 138) ha adottato un quesito standard e soltanto l’11% (15 su 138) – come pure richiesto – lo ha inviato alla Commissione.

    Dove pure si ricorre a quesiti condivisi, solo in casi marginali (10 su 25) questi sono stati elaborati con il contributo di altri interlocutori del processo (ad esempio gli stessi specialisti o gli ordini professionali) come invece sarebbe auspicabile.

    Complessivamente, quindi, soltanto il 7% degli Uffici ha adottato un quesito standard redatto dalla Procura con l’utile e importante contributo degli specialisti e di altre figure professionali.

    Da una valutazione dei quesiti trasmessi (in totale 15 Uffici) emerge che in più di un quarto di essi (4 su 15) si profilano aspetti problematici circa il loro contenuto, potendosi prospettare il possibile rischio di uno sconfinamento dal ruolo assegnato dalla legge alla consulenza tecnica a scapito del corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

    1.2 Le differenze tra diversi gruppi di Procure

    L’analisi multivariata dei dati ha evidenziato un panorama fortemente variegato, all’interno del quale emergono stadi diversi di consapevolezza di azione che si esprimono in cinque raggruppamenti di Procure.

    Dei gruppi individuati, due - di piccole dimensioni - risultano fortemente contrapposti: il più virtuoso, che si colloca in uno stadio avanzato nel processo di adeguamento a standard di efficienza, e quello più critico, composto da Procure in cui tale processo deve ancora essere avviato.

    Nell’ambito intermedio si colloca quasi l’80% delle Procure suddivise in tre gruppi di diverse dimensioni, ognuno dei quali si caratterizza per alcuni elementi positivi ed altri più critici.

    Il gruppo più virtuoso include il 12% delle Procure (16 su 138) accomunate sia da un’elevata attenzione alla materia della violenza di genere e domestica – che riesce anche a tradursi in azione tramite l’assegnazione della materia a magistrati specializzati - sia da un elevato grado di omogeneità dell’intervento giudiziario all’interno della stessa Procura, assicurato anche attraverso l’adozione di quesiti standard.

    All’interno del gruppo, l’87,5% delle Procure assegna sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica a magistrati specializzati e ben l’81% ricorre ad un quesito standard nella nomina dei CTU, sebbene in nessun caso tale quesito sia stato redatto con l’utile contributo di altre figure professionali (ad es. psicologi ).

    Alcuni segnali positivi si riscontrano sul fronte della selezione dei CTU, poiché solo nel 19% delle Procure di questo gruppo la scelta dei CTU cade sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti del tribunale, nel 50% ciò avviene solo a volte, ma soprattutto nel 31% di queste Procure i CTU non sono mai selezionati solo se iscritti all’albo, segnale di una particolare attenzione al requisito della specializzazione.

    Si evidenzia che il processo che dovrebbe portare dalla consapevolezza della particolare complessità della materia alla garanzia di un effettivo bilanciamento dei carichi di lavoro tra i magistrati è ancora ad uno stadio iniziale per tutti i gruppi individuati, pur con differenti gradualità tra gli stessi.

    Nel gruppo più virtuoso, si attesta al 44% la quota di Procure che dichiara di tenere conto della particolare complessità della materia nella distribuzione dei carichi di lavoro, mentre nel restante 56% la materia della violenza di genere e domestica è equiparata a tutte le altre.

    All’estremo opposto si colloca un gruppo ancora lontano dall’avvio del processo di cambiamento, non solo culturale, nei confronti della materia della violenza di genere e domestica. Il gruppo racchiude il 10% delle Procure (14 su 138) - tutte di piccole dimensioni - che evidenziano forti criticità su tutti i fronti, tra cui il più grave è rappresentato dalla sostanziale mancanza di attenzione nei confronti della materia specializzata.

    In queste Procure non esistono, infatti, magistrati specializzati in violenza di genere e domestica e i procedimenti della materia vengono equiparati agli altri al momento della loro assegnazione e nella distribuzione del carico di lavoro tra magistrati. A ciò si aggiunge, da un lato, la mancanza di uniformità interna segnalata anche dall’assenza di quesiti standard nell’affida­mento delle consulenze tecniche e, dall’altro, un’attenzione più bassa della media nei confronti della specializzazione dei CTU.

    Tra questi due estremi, si osservano tre ulteriori gruppi.

    Un primo gruppo intermedio, il più numeroso, include il 42% delle Procure (58 su 138) qualificate per "attenzione alle professionalità ma con qualche ritardo nella uniformità dell’azione interna". Il gruppo si caratterizza, infatti, per una forte attenzione alla specializzazione e alla professionalità di tutti gli attori in campo - dai magistrati agli psicologi - ma si rivela ancora in ritardo sul processo di uniformità dell’azione dell’ufficio.

    I connotati positivi di questo gruppo, in ogni caso, sono molto significativi poiché garantiscono un elevato grado di competenza nella trattazione dei casi di violenza di genere e domestica: il 98% di queste Procure assegna sempre i procedimenti in materia a magistrati specializzati e soltanto l’1,7% seleziona i CTU sempre dal­l’Albo dei periti del tribunale.

    Si rileva, poi, un secondo gruppo intermedio - poco numeroso (6%, 9 su 138) - che si caratterizza per la "elevata omogeneità nell’azione ma il non adeguato bilanciamento nei carichi di lavoro".

    In questi uffici risulta acquisita la buona prassi del ricorso ad un quesito standard "di qualità", ovvero redatto in collaborazione con figure professionali competenti in materia, segnale, questo, di un particolare avanzamento nel processo di uniformità interna.

    Il gruppo appare inoltre caratterizzato da una buona consapevolezza dell’impor­tanza della specializzazione dei magistrati, tanto che il 78% degli appartenenti al gruppo riesce ad assegnare sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica a magistrati specializzati.

    Tuttavia, gli elementi virtuosi messi in atto non riescono a tradursi in un bilanciamento del carico di lavoro dei magistrati che tenga conto della complessità della materia, aspetto che si prospetta centrale per fare un salto in avanti nel percorso di efficienza ed effettività nel contrasto ai fenomeni criminosi in esame.

    Vi è, infine, un terzo gruppo intermedio di uffici che si connota per la "scarsa consapevolezza della specializzazione". Il gruppo risulta abbastanza consistente in quando comprende il 30% delle Procure (41 su 138).

    In esso prevalgono comportamenti che denotano un ritardo nel percorso positivo intrapreso dai componenti dei cluster più virtuosi. Nello specifico, si tratta di uffici che non hanno ancora acquisito una sufficiente consapevolezza dell’importanza della specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica, tanto che soltanto la metà di essi ne affida la trattazione a magistrati specializzati.

    Inoltre, si riscontra una tendenza all’utilizzo dell’albo dei periti per la scelta dei CTU: ciò avviene nel 56% delle Procure del gruppo, a fronte di una media del 25%. Nessuna delle Procure del gruppo ricorre ad un quesito standard nella nomina dei CTU, segnale, questo, di ritardo anche sul fronte dell’uniformità interna.

    1.3 Osservazioni conclusive

    L’analisi multivariata ha consentito di ricomporre un panorama di comportamenti frammentati da parte delle Procure.

    Un processo di adeguamento e aggiornamento richiesto dalla necessità di un efficace contrasto alla violenza di genere e domestica è stato avviato negli uffici inquirenti che evidenziano, però, stadi diversi di avanzamento in un quadro caratterizzato da non poche criticità.

    Emerge infatti un ampio numero di Uffici nei quali occorre investire risorse – sia di personale che di mezzi - per consentire alle procure di raggiungere migliori standard operativi, così che possano anche assumere un importante ruolo propulsivo per gli altri uffici giudiziari con effetti anche nei successivi gradi di giudizio.

    È fondamentale rimarcare l’esigenza che sia effettiva la perequazione dei carichi di lavoro e che le migliori modalità operative sperimentate dagli uffici di Procura più virtuosi non restino loro patrimonio esclusivo, né rimangano una esperienza locale ed occasionale, strettamente connessa alla attenzione e sensibilità dei singoli uffici, ma diventino "strutturali" e condivise.

    Un ruolo molto rilevante può essere svolto in questo senso dal Consiglio Superiore della Magistratura.

    In questo contesto è decisivo interrogarsi sulla compatibilità  con le disposizioni della Convenzione di Istanbul che richiedono la specializzazione di tutti gli operatori - quindi anche dei magistrati - delle vigenti disposizioni[4] secondo le quali (fatta eccezione solo per gli uffici di più ridotte dimensioni) è fatto divieto ai magistrati, anche a chi ricopre le funzioni di Pubblico Ministero, di rimanere in servizio nel medesimo gruppo di lavoro – quindi anche quello specializzato nella violenza di genere e domestica – per più di dieci anni

     2. I tribunali ordinari

     Uno dei temi centrali nella Convenzione di Istanbul è quello della "cooperazione inter istituzionale", tanto che vi è (articolo 15) l’espresso incoraggiamento ai legislatori dei Paesi firmatari ad inserire tale materia nella formazione, al dichiarato fine di consentire una gestione globale e adeguata degli orientamenti da seguire nei casi di violenza, ed è anche posto a carico degli Stati (articolo 18) l’obbligo di garantire "adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri, le autorità incaricate dell’applica­zione della legge".

     Detta cooperazione riguarda, ovviamente, anche l’ambito e le competenze interne alla giustizia, cioè quella civile, penale e minorile.

     Per queste ragioni si è posta l’attenzione a come il tema della unicità della giurisdizione assuma rilievo nei nostri Tribunali, e specificamente nelle cause civili davanti al tribunale ordinario, per verificare se e in che misura la violenza domestica e di genere emerga e quanto venga presa in considerazione nelle decisioni dei giudici, al fine anche di accertare, attraverso un focus sui rapporti tra la giurisdizione penale e quella civile, quale considerazione e quale rilievo le siano riservati nei casi di nuclei familiari in cui è agita la violenza domestica.

    Attraverso i questionari ci si è concentrati, in particolare, sulla verifica di quanto la violenza nelle relazioni familiari emerga nelle cause civili, quanto sia conosciuta, quanta importanza assuma nell’attività istruttoria e quale rilievo abbia nelle decisioni dei giudici. In sintesi: quale sia la risposta che viene data in questo settore, con una attenzione specifica al ruolo svolto dai CTU nominati dal giudice ed ai rapporti con il procedimento penale eventualmente pendente tra le stesse parti.

    Non può sfuggire come la violenza – sia fisica che psicologica- nelle relazioni familiari, sia tema che pone in stretta correlazione le cause civili in materia con i procedimenti penali - instaurati o da instaurarsi - tra le medesime persone della relazione familiare portata all’attenzione del giudice civile.

    E’  stato quindi  analizzato il flusso delle informazioni tra le due autorità giudiziarie e sulla coerenza dei provvedimenti adottati dai diversi giudici competenti, in funzione anche della effettiva protezione delle persone più vulnerabili, siano esse minorenni che maggiorenni.

    Di questa esigenza si è fatto carico il legislatore che, con la legge n. 69 del 2019, ha introdotto nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale l’obbligo di trasmettere determinati atti del procedimento penale a quello civile nei casi in cui si proceda per determinate ipotesi di reato (articolo 64 bis).

    L’ambito dei rapporti tra le diverse autorità giudiziarie e la ripartizione delle rispettive competenze presenta profili molto complessi che coinvolgono anche fondamentali principi costituzionali.

    Sempre in tema di unicità della giurisdizione, è parso centrale anche evidenziare il ruolo svolto dal Pubblico Ministero nel processo civile, riguardo al quale – come è noto – l’articolo 70 del codice di procedura civile prevede che "deve intervenire a pena di nullità […] nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi".

    Per ragioni più che evidenti, pare essenziale che questi debba essere un magistrato specializzato nella violenza di genere e domestica, come pure si ritiene fondamentale una nuova e significativa riconsiderazione del ruolo che effettivamente può e deve svolgere anche nelle indicate cause civili.

    Si è quindi considerato di rilievo l’accertamento di quanto sia effettivo il suo intervento nelle cause civili di separazione ed in quelle riguardanti i minorenni, nella veste di "parte pubblica", chiamata a garantire effettività di tutela e protezione di tutti gli interessi in gioco, ma soprattutto (sebbene non solo) dei minori eventualmente coinvolti in relazioni familiari caratterizzate da violenza, concorrendo, in tal modo, ad assicurare che in tutte le decisioni – anche in sede civile – si tenga nel debito conto effettivamente e concretamente del "superiore interesse del minore", come richiesto anche dalla normativa internazionale.

    Si tratta, indubbiamente, di un tema complesso e di non facile soluzione che coinvolge anche profili organizzativi di rilievo; tuttavia deve considerarsi come, in questo momento storico, meriti la massima attenzione, potendo incidere significativamente sulla qualità della risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere, ancor più ove coinvolga soggetti minorenni.

    Un altro aspetto che soprattutto negli ultimi anni, con l’espandersi della violenza domestica, ha assunto una importanza non trascurabile è quello del ruolo riservato nelle medesime cause civili al Consulente tecnico d'ufficio (CTU) nominato dal giudice civile, quasi sempre un esperto in psicologia, con particolare riferimento alle modalità con le quali è scelto e, non certo da ultimo, al ruolo che nella realtà gli viene attribuito e che concretamente svolge.

    Il codice di procedura civile (articolo 61) prevede che la consulenza tecnica di ufficio sia disposta quando il giudice ritiene necessario "farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica", e quanto al compito affidatogli l’articolo 62 del codice di procedura civile precisa che questi "compie le indagini che gli sono commesse dal giudice".

    Il ricorso a questo istituto è sostanzialmente riservato alle cause di separazione giudiziale e a quelle riguardanti i figli, che sono caratterizzate da relazioni interpersonali familiari particolarmente complesse e conflittuali e/o nelle quali sono agite condotte di violenza.

    Da qui il rilevante e significativo interesse a conoscere chi siano i professionisti "dotati di particolare competenza tecnica" ai quali il Giudice ricorre in questi casi, se e come viene valutata la loro competenza tecnica ed anche specialistica, come si procede alla loro nomina, quale l’incarico conferito, ed anche quale rilevanza assumano sulla decisione del giudice le conclusioni della CTU.

    Si comprende, pertanto, come sia centrale il tema dei criteri con i quali il giudice individua il consulente da nominare. Se di norma la scelta deve avvenire tra le persone iscritte negli appositi albi istituiti presso ogni tribunale, purtuttavia è evidente che parimenti dovrebbe essere garantita l’esigenza che  essa ricada sul consulente che possieda non solo una professionalità generica adeguata, ma anche una specializzazione nella materia da trattare.

    In questo contesto assume significativa importanza il contenuto del quesito formulato da ciascun giudice, che è oggetto dell’incarico, e anche le modalità attraverso le quali sia elaborato ed individuato.

    È rilevante, infatti, accertare se esso sia stato condiviso tra i magistrati del medesimo ufficio, se sia eventualmente frutto di una elaborazione partecipata con gli stessi esperti o figure specializzate, o se, invece, sia individuato dal singolo giudice. In quest'ultimo caso c'è il rischio di una qualche sottovalutazione della complessità della materia, specie se il giudice in questione non possieda una specializzazione sufficiente nella materia della violenza di genere e domestica.

    Si tratta, all’evidenza, di aspetti complessi e problematici perché coinvolgono direttamente il ruolo giurisdizionale riservato al magistrato, il suo rapporto con l’accertamento tecnico, ancora più pregnante di significati e di conseguenze nella materia della famiglia e delle persone, soprattutto ove coinvolga soggetti minorenni.

    Riflessioni del tutto specifiche si impongono riguardo all’"ordine di protezione contro gli abusi familiari" (articolo 342 bis del codice civile), provvedimento attribuito alla competenza del giudice civile che nelle intenzioni del legislatore era chiaramente finalizzato a contrastare la violenza nelle relazioni familiari.

    Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale "invisibilità" della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle Procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più.

    2.1. Il quadro emerso dai dati

    La rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018. Il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 99% (130 Tribunali su 131).

    Nel 95% dei Tribunali non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate quelle in cui il Giudice dispone una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) nella materia.

    Ciò attesta una sostanziale sottovalutazione della materia, per lo più invisibile nei Tribunali. Il che può destare preoccupazione ove si consideri che generalmente l’intervento del CTU riguarda le cause civili nelle quali le relazioni familiari e genitoriali sono più complesse e difficili, soprattutto se coinvolgono minorenni.

    Il 95% (124 su 130) dei Tribunali non è in condizione di indicare in quante cause[5] il Giudice abbia disposto una CTU.

    L’esame dei 27 quesiti trasmessi dai Tribunali ha consentito di rilevare alcune significative circostanze circa l’oggetto dell’incarico al CTU e, quindi, il contenuto delle "indagini" che il Consulente è incaricato di svolgere e la sfera di "operatività" che gli viene attribuita. I quesiti riguardano, prevalentemente, tre temi: l’accerta­mento delle capacità genitoriali delle parti, la natura delle "indagini" che sono "commesse" al CTU e gli accertamenti di natura psicologica.

    In 18 quesiti, l’incarico al CTU è espressamente finalizzato alla valutazione della "capacità genitoriale" delle parti: in alcuni casi l’incarico è formulato in termini più generici, in altri più dettagliati, quale, ad esempio, anche quello di "accertare le competenze genitoriali delle parti attraverso diagnosi psicologica", "la capacità di ciascuno, di svolgere il proprio ruolo genitoriale in modo da garantire una crescita sana ed equilibrata del figlio", ovvero "di realizzare, mantenere e consolidare la unità genitoriale nei riguardi dei minori".

    In 20 quesiti, il Giudice ha delegato al CTU il compimento di varie attività di indagine, tra le quali anche l’esame degli atti e documenti, l’ascolto delle persone, l’acquisizione di ogni informazione utile anche presso uffici pubblici, le visite domiciliari, gli accessi nelle strutture scolastiche e colloqui con gli educatori e gli insegnanti, ma anche deleghe molto più ampie quali "compiuto ogni necessario accertamento... compiute tutte le indagini del caso, estese anche ai rispettivi ambiti familiari".

    Ancora più considerevole il contenuto di alcuni quesiti che attengono ad aspetti di natura squisitamente tecnica, quali "procedere alla valutazione della personalità dei genitori in funzione dell’accertamento della loro capacità di svolgere la funzione genitoriale", "valutare il profilo psicologico di ciascun genitore, valutare "le sue vicende familiari", effettuare "ogni accertamento necessario sotto l’aspetto fisico, psichico, morale ed ambientale [al fine di accertare] se la parte presenti disturbo del comportamento o nei tratti della personalità o disturbi di identità".

    L’analisi qualitativa dei quesiti evidenzia molte "criticità" delle "indagini" oggetto dell’incarico al consulente. Tali criticità destano gravi riserve se correlate ai dati acquisiti presso i Tribunali e sopra riportati riguardo alle modalità di scelta dei CTU, al profilo della loro professionalità, alla mancata verifica di una formazione in materia forense e di una specializzazione nella materia della violenza domestica.

    Peraltro le criticità evidenziate e le problematicità che ne conseguono hanno trovato riscontro nell’esito degli accertamenti presso gli Ordini degli psicologi (di cui si dirà in seguito) dove sono emerse carenze nella formazione degli psicologi nel campo della violenza di genere e domestica, riconducibili anche alla mancanza di una specializzazione mirata e continuativa.

    Nel panorama descritto non mancano alcuni uffici che si connotano in termini positivi - quanto meno sotto il profilo metodologico - in quanto contestualizzano l’incarico esplicitando dettagliatamente le ragioni della scelta istruttoria nella singola causa, delineando il perimetro nel quale il CTU deve operare e le finalità dello specifico incarico.

    Quanto rilevato indica chiaramente che nei Tribunali civili si ritiene sufficiente che il Consulente possieda una professionalità di tipo generico e che non sia considerato né rilevante né tantomeno essenziale che egli possieda anche una specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica.

    La circostanza è molto significativa se si considera che il ricorso a questo strumento è sostanzialmente riservato alle ipotesi che evidenziano situazioni altamente conflittuali o violente, che meriterebbero una elevata e specifica competenza da parte di tutti gli attori del processo.

    Criticità si riscontrano anche riguardo il profilo dei rapporti tra procedimento penale e civile, tant’è che soltanto nel 31,5% dei Tribunali (41 su 130) vengono sempre acquisiti atti e/o provvedimenti del procedimento penale che riguarda le stesse parti della causa civile nei casi di violenza domestica.

    I dati evidenziano anche che l’acquisizione di tali atti non assicura che essi siano sempre oggetto di valutazione da parte del CTU. Infatti, solo nel 76% dei Tribunali che dichiarano di acquisirli sempre, gli atti sono generalmente conosciuti e presi in considerazione dai CTU nell’espleta­mento dell’incarico, percentuale che scende al 61% nei Tribunali in cui gli atti sono acquisiti solo a volte.

    Altro aspetto di sicuro interesse e rilievo è il ruolo del Pubblico Ministero nelle cause civili.

    L’esito dell’indagine sul ruolo del Pubblico Ministero nelle cause civili evidenzia che il flusso delle informazioni tra civile e penale non avviene quanto sarebbe necessario: troppo poco il Pubblico Ministero viene informato dal giudice civile nei casi di violenza e troppo poco il Pubblico Ministero, benché informato, si attiva intervenendo nella causa civile. A ciò si aggiunga che, nei limitati casi in cui interviene, non sono state riferite – sebbene richieste – le modalità con le quali ciò avviene.

    Particolarmente preoccupante appare quanto dichiara l’11% dei Tribunali (14 su 130) in riferimento al fatto che il Pubblico Ministero non sia mai stato informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica

    Tuttavia, anche nei casi in cui il Pubblico Ministero ha avuto conoscenza di una situazione di violenza domestica, quindi violenza agita nelle relazioni familiari e di convivenza, tale circostanza non determina necessariamente un suo intervento nella causa civile, anzi, nel 9% dei Tribunali il Pubblico Ministero, benché informato, non è intervenuto in nessun caso, nel 32% è intervenuto solo a volte, mentre nel 58% è intervenuto tutte le volte che è stato informato.

    Complessivamente quindi, la partecipazione del Pubblico Ministero nelle cause civili nelle quali emergono situazioni di elevata conflittualità e di violenza domestica – evenienze che renderebbero auspicabile il suo intervento a tutela soprattutto dei minori – sembra essere occasionale e non adeguata.

    A ciò si aggiunga il fatto che il 60% dei Tribunali non ha risposto alla richiesta della Commissione di esplicitare le modalità dell’eventuale intervento del Pubblico Ministero nella causa civile, sebbene la domanda fosse stata riferita soltanto ai casi in cui si era precedentemente dichiarato che tale intervento fosse avvenuto ("sempre" o "a volte").

    Preso atto, altresì, che la maggior parte dei Tribunali non è in grado di riferire in cosa consista la partecipazione del Pubblico Ministero in dette cause civili, trovano conferma le difficoltà nelle relazioni tra processo civile e processo penale.

    In tale contesto, con riguardo specifico al tema del coordinamento tra le istituzioni, si è posta attenzione ad alcune forme di collaborazione istituzionale e, in particolare, alla eventuale adozione di linee guida, accordi o protocolli che regolino i rapporti tra gli uffici interessati.

    Dall’indagine emerge che soltanto il 25% dei Tribunali (32 su 130) ha dichiarato di applicare linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia, della violenza di genere e/o domestica, e soltanto 20 Tribunali li hanno allegati alle risposte ai questionari, come richiesto dalla Commissione.

    Per converso è positivo il fatto che alcuni Tribunali si siano resi interpreti della rilevanza di siffatte problematiche (anche a seguito di interventi del Consiglio Superiore della Magistratura con Delibere e Risoluzioni in materia) e hanno realizzato virtuose forme di collaborazione con altri organismi ed attori del processo (Ordini degli Avvocati, Ordini degli Psicologi e Centri Antiviolenza) che hanno condotto alla redazione di utili linee guida, protocolli o accordi. In questo ambito si segnalano le best practices dei Tribunali di Benevento, Bologna, Enna, Macerata, Palermo e Roma.

    Nel panorama del contrasto alla violenza di genere e domestica nel processo civile, un istituto che ha sostanzialmente disatteso le aspettative è quello degli "ordini di protezione" che - durante il triennio 2016-2018 - ha avuto scarsa rilevanza.

    In primo luogo, infatti, solo in 35 Tribunali (pari al 27%) esiste un registro sulle richieste degli "ordini di protezione contro gli abusi familiari" e, di questi, solo 21 sono stati in grado di quantificare gli ordini di protezione richiesti e adottati nei tre anni di riferimento.

    Complessivamente, i 21 Tribunali hanno dichiarato di aver richiesto 125 ordini di protezione nel 2016, 127 nel 2017 e 149 nel 2018.

    Ancora meno le richieste accolte: 40 nel 2016, 53 nel 2017 e 68 nel 2018.

    In ogni caso, il 93% degli ordini adottati nel 2018 (96% nel 2017 e 89% nel 2016) sono stati emessi a carico di un uomo.

    L’esperienza concreta dei Tribunali riguardo agli "ordini di protezione" non è incoraggiante e sconta probabilmente le difficoltà di adattamento del processo civile alle tematiche della violenza domestica che storicamente erano riservate al procedimento penale, e che, di fatto, richiederebbero una concreta collaborazione tra giudice ordinario civile, Pubblico Ministero ed anche giudici minorili.

    L’analisi multivariata[6] ha dato come esito la suddivisione dei 130 Tribunali ordinari in quattro gruppi omogenei internamente, ma differenziati tra loro rispetto ai comportamenti adottati nel trattamento della materia della violenza di genere e domestica.

    A differenza di quanto è emerso per le Procure, nessun gruppo (o cluster) di Tribunali è caratterizzato da soli comportamenti virtuosi.

    Emergono, infatti, tre elementi negativi che accomunano tutti i gruppi, il primo dei quali è la diffusa impossibilità di nominare CTU che possiedano una specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica, tanto che in nessun gruppo la quota di Tribunali che riesce "sempre" o "nella maggioranza dei casi" a nominare CTU specializzati supera il 27%.

    Un secondo elemento che accomuna tutti i cluster è l’arretratezza nel processo per uniformare l’azione interna, evidenziata dal carente ricorso ad un quesito standard nella nomina del CTU nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli. La percentuale di Tribunali che adotta un quesito standard oscilla nei quattro gruppi tra il 18% e il 37%.

    Terzo e ultimo elemento negativo comune è la scarsa applicazione di linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia e/o della violenza di genere e domestica che regolino i rapporti tra civile, penale e minorile[7]. In nessun cluster è prevalente la quota di Tribunali che ha adottato almeno una misura tra quelle citate.

    I quattro gruppi si distinguono tra loro riguardo alla prevalenza di comportamenti positivi o negativi: in due gruppi prevalgono quelli positivi e in due quelli negativi. Ogni gruppo, comunque, è contraddistinto da proprie specificità che di seguito si descrivono nel dettaglio.

    Quanto ai due gruppi che presentano diversi elementi positivi, il primo è composto da pochi Tribunali (11 su 130, pari all’8,5%), che possono definirsi "attenti alla materia e coerenti nell’azione". E si caratterizza per il particolare riguardo riservato alla materia, soprattutto per lo sforzo – rilevante poiché molto raro nel complesso – di monitorare il fenomeno attraverso la quantificazione delle cause[8] nelle quali sono emerse situazioni di violenza domestica[9] e nelle quali è stata disposta la consulenza tecnica di ufficio[10].

    Elevato è il coinvolgimento del Pubblico Ministero da parte del Giudice civile: nel 91% dei Tribunali del gruppo il Pubblico Ministero è stato sempre informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica. D’altro canto, è caratteristica del gruppo anche un’elevata partecipazione del Pubblico Ministero alla causa civile.

    Un ulteriore elemento che si può considerare positivo, se posto a confronto con gli altri gruppi, va ravvisato nel fatto che "solo" il 45,5% dei Tribunali del gruppo dichiara di nominare i CTU soltanto se iscritti all’albo dei periti (dato medio: 75%).

    Appare critico, invece, il comportamento di questi uffici rispetto alla acquisizione degli atti dal procedimento penale a quello civile nei casi in cui siano emerse situazioni di violenza domestica: solo il 9% ha dichiarato che ciò avviene sempre[11].

    Inoltre, il grado di uniformità dell’azione interna ai Tribunali del gruppo è basso: solo il 18% adotta un quesito standard nella nomina dei CTU e solo il 18% regola i rapporti tra civile, penale e minorile con l’applicazione di almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione.

    Per quanto attiene alla specializzazione dei CTU, solo il 27% - dato modesto sebbene superiore alla media - afferma di riuscire sempre o nella maggioranza dei casi[12] a nominare CTU specializzati in materia di violenza di genere e domestica.

    Il secondo gruppo in cui prevalgono le caratteristiche positive su quelle negative si caratterizza per il fatto che vi è un "buon coordinamento tra penale e civile", e racchiudendo il 40% dei Tribunali ordinari (52 su 130), risulta il più numeroso.

    Nel complesso, questi uffici appaiono i più avanzati nella gestione del rapporto tra le diverse attività giudiziarie, che non si ferma al piano formale, ma si traduce in uno scambio concreto che coinvolge tutti gli attori in campo, infatti positivo è il coinvolgimento e l’intervento del Pubblico Ministero nella causa civile[13], e frequente l’acquisizione degli atti del procedimento penale nella causa civile[14], e soprattutto detti atti sono generalmente conosciuti e presi in considerazione dai CTU nell’espletamento dell’incarico.

    Inoltre, per quanto riguarda il coordinamento tra penale, civile e minorile, nel 42% dei Tribunali del cluster è applicata almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione, quota incoraggiante sebbene  comunque minoritaria nel cluster stesso.

    Come in tutti gli altri gruppi, si evidenzia un modesto ricorso all’adozione di quesiti standard nella nomina dei CTU e una bassa professionalità specifica dei CTU in materia di violenza di genere e domestica.

    Particolarmente critico l’aspetto della selezione dei CTU, che avviene sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti nell’86,5% dei tribunali appartenenti al gruppo.

    Sintomatico della "invisibilità" della violenza di genere e domestica emersa complessivamente dall’indagine è il fatto che nessuno dei Tribunali del gruppo si è rivelato in condizione di indicare quanti casi di violenza domestica sono emersi nel triennio 2016-2018 nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come anche nessuno disponeva del dato relativo al numero delle cause nelle quali il Giudice ha disposto la Consulenza Tecnica di Ufficio nella materia.

    I due gruppi restanti, che racchiudono nel complesso poco più del 50% dei Tribunali, si caratterizzano per la netta prevalenza di comportamenti critici, infatti nessuno dei Tribunali appartenenti ai due gruppi si dichiara in grado di quantificare le cause in cui è emersa violenza di genere e domestica, né quelle nelle quali il Giudice ha disposto una consulenza tecnica d’ufficio con riferimento al triennio 2016-2018.

    Tutto questo evidenzia una grave lacuna informativa, che impedisce oggettivamente di conoscere le dimensioni del fenomeno e, quindi, di potere effettuare le valutazioni conseguenti.

    In entrambi i gruppi, inoltre, il doppio flusso informazione-intervento che dovrebbe coinvolgere il Giudice civile e il Pubblico Ministero non avviene quanto auspicato e solo sporadici Tribunali all’interno dei due gruppi dichiarano di applicare almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione per regolare i rapporti tra civile, penale e minorile.

    Tra i due, il gruppo che si colloca in uno stadio meno arretrato è costituito dal 31,5% dei Tribunali (41 su 130) e si connota per un atteggiamento migliore rispetto alla media, seppur minoritario anche in questo cluster, rispetto all’adozione dei quesiti standard (37% a fronte di una media del 29%) e alla selezione dei CTU[15].

    Il cluster più critico, composto dal 20% dei Tribunali (26 su 130), è invece ancora lontano dall’avvio di percorsi che consentano di migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere attraverso una corretta lettura della violenza stessa e l'utilizzo di modalità operative - anche in collaborazione con le altre istituzioni interessate - necessarie per contrastarla.

    2.3. Osservazioni conclusive

    La situazione, come sopra rappresentata, evidenzia complessivamente uno stato in cui gli aspetti critici sono senz’altro prevalenti, fatte salve pochissime eccezioni.

    Preoccupa il fatto che non sia possibile rilevare quali e quante siano le cause in cui emergono situazioni familiari nelle quale si agisce la violenza, così come la mancanza di qualsiasi garanzia che nelle nomine del CTU sia assicurata sempre la professionalità e la specializzazione necessarie, come pure appare critica la tipologia delle indagini delegate da alcuni giudici.

    In tale contesto si prospetta il rischio che l’attività ed il ruolo del CTU sconfinino, anche solo in parte, nell’area delle competenze riservate al Giudice.

    Non mancano però segnali incoraggianti. I Tribunali ordinari appaiono divisi in due "macro gruppi" della stessa dimensione.

    Nel primo si collocano quelli caratterizzati da alcune scelte positive, che andrebbero però incoraggiate e messe a regime, così da compiere un salto di qualità e migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere. Nel secondo gruppo si collocano quei Tribunali in situazione più arretrata e, quindi, critica rispetto alla condivisione di comportamenti e modalità operative adeguate ed efficaci, funzionali ad assicurare un efficace contrasto e protezione delle vittime.

    È necessario supportare i Tribunali che stanno attuando degli sforzi virtuosi, incoraggiandoli a proseguire in tal senso, e - soprattutto - è auspicabile che le buone prassi adottate ed i modelli organizzativi positivamente sperimentati diventino patrimonio comune sia attraverso interventi efficaci ed operativi anche del Consiglio Superiore della Magistratura,  sia attraverso azioni positive che assicurino una effettiva formazione e specializzazione dei magistrati.

    3. I Tribunali di sorveglianza

    La Commissione ha ritenuto importante verificare se e quanto, nella concessione dei benefici penitenziari, i Tribunali di Sorveglianza valutino la specificità del trattamento penitenziario di detti condannati e, soprattutto, quale rilievo sia dato all’inderogabile esigenza di protezione delle vittime.

    La prospettiva nella quale ci si muove è che sia necessaria, anche durante la fase dell’esecuzione penale, una piena sensibilizzazione, anche culturale, ed una adeguata formazione di tutti gli operatori coinvolti, non disgiunte dalla consapevolezza della specifica pericolosità sociale dei condannati.

    Ci si riferisce, in particolare, al tema centrale del rischio di recidiva specifica che li caratterizza, strettamente connesso, da un lato, alla abitualità delle condotte criminose, e, dall’altro, anche al rapporto personale-familiare-affettivo tra l’autore della violenza e la persona offesa, che spesso si viene a trovare in una condizione di "particolare vulnerabilità" proprio a causa  della violenza subita.

    È noto anche che, per le caratteristiche proprie di questa forma di violenza, soprattutto nei casi in cui le condotte si siano protratte per molto tempo e con ripetitività, l’autore non sempre acquisisce piena consapevolezza del disvalore dei suoi comportamenti, spesso non si ritiene colpevole, non comprende la condanna e difficilmente modifica le proprie condotte.

    In questo contesto  la concessione dei benefici penitenziari, dal "permesso premio" alla "semilibertà", non può prescindere da un fondato accertamento che essi non mettano a rischio la sicurezza delle persone offese dal reato.

    Per tali ragioni si è ritenuto importante verificare se e con quali modalità le indicate problematiche assumano rilievo davanti alla magistratura competente, quanto incidano sulle richieste del condannato di accedere a misure di esecuzione penale esterna, ed anche quanto si tenga conto dell’evolu­zione dei rapporti del condannato con la vittima, ivi compreso l’accerta­mento del loro stato al momento della decisione del Tribunale.

    In sintesi, appare centrale conoscere le modalità con le quali la magistratura di sorveglianza valuta il rischio di recidiva specifica ai fini della concessione dei benefici previsti dalla legge n. 354 del 1975.

    L’analisi dei dati pervenuti ha evidenziato, nel complesso, una scarsa attenzione all’esigenza di protezione delle vittime di violenza domestica e di genere.

    Il quadro emerso dai dati, che  fanno riferimento alla quasi totalità (27 su 28) dei Tribunali di Sorveglianza che hanno risposto all’indagine, evidenzia come soltanto in un numero limitatissimo di Tribunali di Sorveglianza vi sia la buona prassi rappresentata dal coinvolgimento anche delle vittime nell' istruttoria finalizzata alla concessione dei benefici penitenziari: ciò  conferma la mancanza di una seria e concreta valutazione della loro esposizione a pericolo connessa alle decisioni che riguardano la concessione delle misure alternative alla detenzione.

    Il 26% (7 su 27) dei Tribunali di Sorveglianza non acquisisce mai notizie e informazioni dalle persone offese, il 63% (17 su 27) afferma che non è sempre possibile acquisirle e solo l’11% (3 su 27) dichiara di acquisire sempre tali informazioni (Figura 14).

    Alla richiesta di indicare quali atti e documenti sono presi in considerazione per valutare il rischio di recidiva specifica, soprattutto se la condanna attiene a delitti caratterizzati da abitualità delle condotte, il 22% dei Tribunali (6 su 27) non ha risposto alla domanda.

    In ogni caso si segnalano alcune significative, e condivisibili, esperienze riguardo alle modalità attraverso le quali l’esigenza prospettata assume rilievo nella realtà giudiziaria, in quanto risulta che alcuni Tribunali di sorveglianza:

    "verificano i rapporti con la vittima anche successivi alla condanna" (Torino);

    "valutano anche il contesto familiare e sociale nel quale il condannato dovrebbe rientrare" (Roma);

    "ascoltano anche il congiunto (il coniuge) ove la difesa del condannato asserisca il completo superamento della conflittualità familiare" (Trento);

    "valutano le risultanze circa i rapporti con la vittima" (Brescia);

    "valutano l’attuale rapporto con la vittima del reato ed anche il luogo in cui abita la vittima stessa" (Genova);

    "valutano i rapporti attuali con la persona offesa" (Lecce);

    Inoltre, alcuni Tribunali (Roma, Genova, Lecce, Sassari, Trento e Trieste) riferiscono che l’attenzione del Giudice è rivolta in vario modo a valutare il profilo criminologico del condannato, mentre uno (Sassari) precisa di monitorare anche la sua condotta successiva al reato.

    Per quanto attiene al rischio di recidiva specifica, la Commissione ha ritenuto di dover rilevare il grado di attenzione riguardo ad una categoria particolare di soggetti, cioè dei minorenni vittime di violenza sessuale.

    Si è, quindi, ritenuto utile acquisire i dati sull’applicazione e l’esecuzione delle "misure di sicurezza personali" previste dall’articolo 609 nonies del codice penale quali "l’imposizione di restrizioni dei movimenti e della libera circolazione", "il divieto di avvicinarsi a luoghi frequentati da minori", "il divieto di svolgere lavori che prevedano un contatto abituale con minori" e anche l’obbligo di informare le forze dell’ordine sui propri spostamenti, misure che, come è noto, devono essere eseguite dopo l’espiazione della pena detentiva.

    Durante il triennio 2016-2018, soltanto nel 26% dei Tribunali (7 su 27) è stata eseguita almeno una delle misure previste dalla citata disposizione per i condannati per violenza sessuale.

    Va comunque registrato un incremento nell’applicazione di dette misure di sicurezza che passano da 3 nel 2016 a 21 nel 2018.

    3.1. Osservazioni conclusive

    I profili delle persone in stato di detenzione per reati di violenza di genere e domestica si caratterizzano per una particolare pericolosità sociale. Pertanto, appare di estrema importanza che, nella concessione dei benefici penitenziari - dal "permesso premio" alla "semilibertà" - i magistrati di Sorveglianza considerino prioritaria la protezione della persona offesa.

    Preoccupa che in sede di valutazione delle richieste del condannato di ammissione ai benefici previsti dalla legge n. 354 del 1975 il tema non sia centrale e che non sempre venga accertato lo stato dei suoi rapporti con la vittima, tanto che in un quarto dei Tribunali di Sorveglianza non vengono mai acquisite notizie ed informazioni dalle persone offese.

    Anche nella fase esecutiva della pena non si può abbassare la guardia ed è necessario un impegno costante perché le buone prassi adottate da alcuni Tribunali di Sorveglianza diventino un patrimonio comune, proprio perché l’autore di delitti di violenza domestica e di genere presenta tratti caratteristici del tutto tipici, sia riguardo alle condotte che alla personalità, ed entrambi detti tratti si riflettono sulla sua pericolosità sociale condizionandola significativamente.

    Analogamente a quanto già evidenziato per le Procure ed i Tribunali Ordinari, è necessario assicurare circolarità delle buone prassi e delle migliori linee operative sperimentate in alcuni uffici più virtuosi, non disgiunte da adeguati interventi nella formazione dei giudici e degli operatori penitenziari.

     4. La formazione degli operatori

    La formazione degli operatori è tema centrale nella Convenzione di Istanbul e sebbene il nostro Paese se ne sia fatto interprete in una recente disposizione normativa – articolo 5 della legge n. 69 del 2019 - riguardo soltanto alla formazione degli “operatori di polizia”, è di tutta evidenza come non possa non riguardare tutti i professionisti che hanno competenze nell’attività di contrasto alla violenza domestica e di genere.

     

    In particolare la Convenzione, nella disposizione sulla “formazione delle figure professionali” (articolo 15) richiede agli Stati di “fornire e rafforzare” la formazione delle figure professionali che si occupano sia delle vittime che degli autori di violenza di genere e domestica, come pure di incoraggiare e inserire nella formazione la materia della “cooperazione coordinata e inter istituzionale”.

     

    Nell'analisi della effettiva operatività nel nostro Paese di questi principi è apparso importante ed utile la verifica di come siffatto obbligo sia stato attuato riguardo soprattutto alle figure più direttamente coinvolte nel processo: magistrati, avvocati e psicologi. Una parte dei questionari è stata pertanto focalizzata proprio sull' approfondimento di questa tematica.

    4.1. La Magistratura

    Riguardo alla magistratura l’offerta formativa appare, nel complesso, piuttosto carente.

    Le magistrate sono risultate più interessate alla materia della violenza di genere e domestica, più sensibili a questo tema e  più impegnate nella formazione, come attesta la maggiore partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale.

    Quanto all’offerta formativa della Scuola Superiore della magistratura è risultato che nel triennio 2016-2018 sono stati organizzati soltanto 6 corsi di aggiornamento in materia di violenza di genere e domestica, di cui 2 rivolti sia al settore civile che penale, e 4 esclusivamente al settore civile.

    Le  magistrate hanno frequentato i corsi formativi in numero di gran lunga superiore ai colleghi uomini: in media, nel triennio analizzato, il 67% dei partecipanti sono donne, a fronte dei una proporzione di donne in magistratura pari al 52%.

    Significativo il fatto che le principali problematiche affrontate dalla Scuola Superiore della Magistratura abbiano privilegiato il settore civile, quindi quello delle separazioni, dei divorzi e dei provvedimenti riguardo i figli.

    L’offerta di formazione appare, così, piuttosto scarsa, soprattutto riguardo al settore penale.

    Peraltro, il numero limitato dei magistrati partecipanti che esercitano funzioni giudicanti potrebbe essere sintomatico di una insufficiente attenzione e specializzazione del Giudice, a cui è fondamentale porre rimedio, e ciò con riguardo a tutti i gradi del giudizio, quindi anche all’appello, se si vuole che l’azione di contrasto sia efficace ed effettiva in tutte le fasi processuali.

    La circostanza è del tutto coerente con quanto sopra riferito circa l’esito dell’indagine riguardo agli uffici di Procura e dei Tribunali Ordinari che ha consentito di rilevare come le Procure siano più attente alla specializzazione ed abbiano anche raggiunto, in numero significativo, standard qualitativi importanti, mentre non può dirsi lo stesso per i giudici, per i quali i dati qualificanti della specializzazione sono meno diffusi.

    Oltre ai 6 corsi erogati a livello centrale, la Scuola Superiore della Magistratura segnala che, nel triennio 2016-2018, sono state anche realizzate 25 iniziative formative a livello distrettuale – cioè locale - sul tema della violenza di genere, che hanno visto il coinvolgimento di circa il 13% dei magistrati (1.198 presenze su una media di 8.891 magistrati nel triennio).

    Tenuto conto del fatto che i dati acquisiti riguardano un periodo anteriore alla emergenza sanitaria determinata dalla pandemia Covid-19, non può non rilevarsi come nell’aggiornamento e nella specializzazione dei magistrati il ruolo più incisivo – ma ancora limitato - sia effettivamente svolto dalla formazione decentrata: 13% di magistrati partecipanti a fronte del 5% che hanno frequentato i corsi organizzati e svolti dalla scuola centrale.

    Si tratta di una evidenza molto significativa ed importante che indica chiaramente il netto interesse dei magistrati per l’aggiornamento in sede locale, ascrivibile non solo a ragioni di tipo logistico ma, verosimilmente, anche al maggiore interesse per l’offerta formativa delle sedi distrettuali.

    Appare quanto mai auspicabile una estensione della offerta formativa anche attraverso una doverosa sensibilizzazione di tutti i magistrati, soprattutto uomini, ancora di più se delegati a trattare la materia specialistica, particolarmente ove esercitino funzioni di Giudice per le indagini preliminari, quindi di Giudice che svolge un ruolo di essenziale rilievo in un doveroso raccordo con il Pubblico Ministero nella fase delle indagini preliminari (è, ad esempio, competente ad emettere le misure cautelari, ad autorizzare le intercettazioni telefoniche, a disporre l’incidente probatorio speciale per l’ascolto delle vittime) e che per tale ragione non può non essere “specializzato”.

    Analoghe le considerazioni per la figura del Giudice per la udienza preliminare, che, frequentemente, è il Giudice nei riti alternativi, la cui mancata specializzazione appare  non pienamente in linea con i principi della Convenzione di Istanbul.

    4.2. L'Avvocatura

    Per quanto attiene agli Avvocati, sulla base dei dati forniti dal Consiglio Nazionale Forense, deve prendersi atto che si dispone di informazioni piuttosto generiche, purtuttavia sintomatiche di una carenza di offerta formativa in materia, e, quindi, di una insufficiente attenzione al tema della violenza di genere e domestica.

    Infatti si riferisce che dal 2016 al 2018  sono stati organizzati in tutto il Paese "più di 100 eventi in materia di violenza di genere e domestica, che vi hanno partecipato oltre 1.000 avvocati", (su un totale di 243.000 circa), di cui oltre l’80% donne, ed in maggioranza civiliste.

    In tre anni, dunque, lo 0,4% degli avvocati ha partecipato ad eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica, per l’80% donne.

    Pa6.re evidente che i dati riferiti siano sintomatici di scarsa sensibilità della classe forense, soprattutto maschile, per il fenomeno della violenza di genere e domestica, e come prevalga nella richiesta ed attenzione formativa il settore civile nel quale pure sono largamente protagoniste le donne avvocate.

    Inoltre, alla domanda circa l’istituzione di elenchi di avvocati specializzati nella materia il Consiglio ha riferito che sono pochi gli elenchi istituiti, come pure gli sportelli dedicati alla materia aperti presso i Consigli degli Ordini professionali. Anche nel caso dell’avvocatura si rilevano iniziative individuali meritorie ed utili che necessiterebbero di sostegno per essere valorizzate, strutturate e estese imprimendo una svolta culturale già ad iniziare dai percorsi di studio ed universitari.

    4.3. Gli Psicologi

    Evidenti criticità si registrano, quanto alla formazione, anche riguardo agli psicologi, e ciò sia per quanto attiene alla formazione, sia riguardo alla costituzione di gruppi di lavoro mirati sull’attività di consulenza giuridico-forense nell’ambito della violenza di genere e domestica.

    I dati acquisiti sono sintomatici di una generalizzata sottovalutazione circa la necessità che gli psicologi, ove svolgano attività di consulenza e peritale nel processo, sia civile che penale, possiedano anche una formazione di tipo specialistico forense ed anche competenze adeguate ove operino nella materia della violenza di genere e domestica.

    Le buone prassi e linee guida, pur esistenti, sono poche e frammentarie e sembra emergere, a livello nazionale, una doppia carenza nella formazione degli psicologi, che pare espressione della mancanza di una visione globale e condivisa del ruolo di questo professionista e della ineludibile necessità della sua specializzazione.

    Le risposte ai quesiti specifici sugli eventi formativi e di aggiornamento hanno rivelato una limitata attenzione al tema, considerato che poco meno della metà degli Ordini regionali - 8 su 18 - ha dichiarato di non avere mai organizzato eventi formativi nella materia specializzata.

    Nel complesso, il numero degli eventi formativi organizzati si rivela piuttosto basso, atteso che nel 2016, in tutto il Paese, sono stati 8, nel 2017 e 2018 sono stati 24 per ciascun anno. Peraltro, soltanto 3 Ordini hanno organizzato almeno un evento in tutti e tre gli anni.

    Merita di essere menzionata la circostanza che soltanto la metà degli Ordini - 9 su 18 - ha organizzato dei gruppi di lavoro mirati sulla materia della violenza di genere e domestica.

    Con riguardo specifico ai profili di consulenza giuridico-forense, in riferimento alle problematiche, indubbiamente molto rilevanti, circa le perizie e le consulenze tecniche svolte dagli psicologi, si deve evidenziare che solo 5 dei 9 Ordini hanno organizzato gruppi di lavoro mirati sulle attività di consulenza giuridico–forense, e che 4 di essi non hanno mai trattato questa materia.

    Due gli Ordini risultati più virtuosi i quali, oltre ad essere stati più attenti alla materia, hanno organizzato sia eventi formativi che di aggiornamento, ed hanno anche organizzato gruppi di lavoro mirati sugli aspetti specifici e qualificanti dell’attività giuridico-forense.

    Conclusivamente, anche per gli psicologi deve prendersi atto di una generalizzata carenza di sensibilità ed attenzione per la formazione degli operatori di ciascun settore, ed anche di una significativa sottovalutazione del ruolo che gli psicologi hanno nel tempo assunto nel settore specifico e quanto tutto questo incida sulla efficacia, effettività e tempestività della risposta giudiziaria alla violenza domestica e, soprattutto alla protezione delle vittime, molte delle quali in condizioni di "particolare vulnerabilità" in quanto minorenni.

    5. Conclusioni

    La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio  nella cornice sovranazionale dei principi della Convenzione di Istanbul - più volte ricordati - ha ritenuto importante verificare quanto il nostro Paese abbia aderito agli impegni rivolti agli stati firmatari (articolo 4) ad “adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere libere dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata”, ed anche (articolo 5) ad essere diligenti nel “prevenire, indagare, punire i responsabili”.

    È proprio con riguardo a questo obbligo di “diligenza” nell’attività preventiva e repressiva che la Commissione non poteva non considerare l’impor­tante monito dei Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - nella sentenza “Talpis c. Italia” del 2 marzo 2017- ad operare affinché i meccanismi di protezione previsti nel diritto interno funzionino in pratica e non solo in teoria, e che soprattutto nelle cause in materia di violenza domestica i diritti dell’aggressore non possano prevalere sui diritti alla vita ed alla integrità fisica e psichica delle vittime.

    In un contesto così delineato, e nel difficile percorso intrapreso dal nostro Paese di adeguamento alla normativa convenzionale, la Commissione ha focalizzato alcuni aspetti più qualificanti, quali: la specializzazione degli operatori, ed in particolare dei magistrati, degli avvocati e degli psicologi nonché le formule organizzative adottate e ritenute idonee a garantire immediatezza ed efficacia all’intervento giudiziario.

    Ne è emersa una realtà multiforme ed allo stesso tempo complessa.

    Il contesto nel quale operano gli uffici giudiziari è obiettivamente difficile, gli operatori non sono formati quanto sarebbe necessario , segno – anche ma non solo – di mancanza di investimenti che hanno determinato gravi carenze anche strutturali, soprattutto di personale e mezzi che ne hanno significativamente condizionato l’efficienza.

    È parsa anche scarsa la consapevolezza, in chi opera nel settore, della necessità di adeguare i propri standard operativi alle mutate esigenze, nonché della esigenza di una effettiva cooperazione e collaborazione interistituzionale, presupposti ineludibili perché il contrasto alla violenza domestica e di genere sia effettivo ed efficace.

    È doveroso sottolineare che, accanto a indubbi aspetti critici, si registrano importanti progressi nel percorso indicato, come attesta lo sforzo compiuto da una parte - purtroppo ancora minoritaria - della magistratura, più evidente per quella inquirente, la quale interpreta il proprio ruolo con modalità organizzative più aderenti alle mutate esigenze investigative. Tutto ciò avviene – comunque – in un quadro complessivo di evidenti difficoltà e resistenze, anche di natura culturale.

    Non ci si può certo ritenere soddisfatti della realtà così come rappresentata dalle indagini condotte, ma è anche innegabile che sia in atto un grande sforzo messo in campo da alcuni uffici giudiziari più virtuosi che possono – auspicabilmente – essere trainanti per tutti gli altri, purché sostenuti anche da adeguate iniziative di tipo organizzativo, e supportati nel percorso di formazione e specializzazione di chi ha il compito di assicurare in tutto il territorio nazionale uniformità e coerenza dell’azione giudiziaria.

    Occorre anche sottolineare la mancanza di consapevolezza della esigenza –non rinviabile  – di attuare forme di collaborazione e cooperazione tra tutti gli organi e le figure istituzionali coinvolte, sempre in una prospettiva comune: combattere la violenza, soprattutto in ambito domestico.

    Non vi è dubbio che le maggiori  criticità siano state rilevate per quanto riguarda la formazione specifica sui temi della violenza di genere e domestica nell’ambito dell’at­tività forense ed in quella dei consulenti tecnici, psicologi in particolare: ciascuno nel proprio ambito e nell’esercizio delle proprie competenze ha evidenziato mancanza di attenzione e di sensibilità per il tema della violenza di genere e domestica, soprattutto nella formazione e nell’aggiornamento professionale.

    Sia gli avvocati che gli psicologi hanno soltanto avviato un percorso di sensibilizzazione alle tematiche indicate e sono in grave ritardo nella specializzazione dei professionisti.

    L’esito delle indagini svolte segnala, perciò, una sostanziale difficoltà, anche di tipo culturale, nella conoscenza del fenomeno.

    Ciò comporta - da parte di tutto il sistema – -una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene "letta" correttamente. 

    Per queste ragioni può affermarsi che vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro "sistema Paese" sia davvero democratico in quanto garantisce  alle donne di essere libere da ogni forma di violenza.

    Se è vero che la fotografia della realtà giudiziaria che emerge dai dati dei questionari segnala che il percorso di adeguamento ai principi della Convenzione di Istanbul appare solo avviato, sono anche molteplici le buone prassi e le collaborazioni interistituzionali che hanno consentito un decisivo passo in avanti nella tutela delle donne vittime di violenza di genere.

    Il legislatore, pertanto, in costante raccordo con tutte le istituzioni e gli ordini professionali  coinvolti, ha il dovere di rafforzare e mettere " a sistema" i modelli positivi emersi, come pure  di implementare le misure normative già vigenti, al fine di garantire  a tutti i soggetti coinvolti l'accesso agli strumenti processuali e la  formazione necessaria per una corretta lettura ed un efficace e tempestivo  contrasto della violenza di genere e domestica.

    Non bisogna  commettere l’errore di addebitare la responsabilità delle situazioni negative emerse alla responsabilità di questo o di quell’operatore o della singola categoria professionale con una operazione politico-mediatica piuttosto diffusa.

    Non si farebbe una operazione di verità e non sarebbe utile ai nostri fini.

    La realtà degli uffici  giudiziari rappresenta come  i magistrati e tutti  gli operatori che ne fanno parte comprese le forze dell’ ordine, operano con i mezzi e le strutture che hanno  a loro disposizione, e poi, certamente nell’ambito di dette disponibilità assume rilievo anche la preparazione, professionalità e specializzazione dei singoli.

    Quindi vanno individuate -con attenzione e tempestività- le reali cause della situazione rappresentata se si vogliono trovare le soluzioni corrette che portino il nostro Paese su standard qualitativi adeguati  che certamente può e merita  di raggiungere.

    E’ anche il momento storico perché tutto questo trovi attuazione considerato che  la pandemia da Covid 19 , che ha causato una “escalation”  nei fatti di violenza di soprattutto domestica, ha aggravato la condizione già difficile di tante donne,  soprattutto di quelle più vulnerabili, più fragili sul piano economico.

    E’ il momento di dare alla parola “resilienza” il significato proprio: mettiamo le donne vittime di violenza nelle condizioni  di potere essere resilienti, cioè di potere fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.

    Per questo vorremmo contare sulla “resilienza “ dei governanti , di  tutti coloro che sono competenti e responsabili,  perché  l’impegno nella ripresa del nostro Paese si trasformi in una reale  opportunità anche per le vittime di questa intollerabile e antistorica forma di violenza.

    L’esito dell’indagine della Commissione di inchiesta sul femminicidio, nei limiti  della delibera istitutiva, può costituire un utile incentivo ad impegnarsi –anche economicamente-  perché  la Convenzione di Istanbul,  non resti solo un “manifesto” di buoni propositi.

    [1] Intervento di Maria Monteleone alla Sala Zuccari del Senato del 17 luglio 2021per la presentazione della “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” approvata all’unanimità dalla Commissione di Inchiesta sul femminicidio del Senato il 17/6/2021.

    [2] Il Rapporto è stata curato da Maria Monteleone, Linda Laura Sabbadini e Marina Musci, collaboratrici della Commissione ai sensi dell’articolo 23 del Regolamento interno, sulla base di una indagine statistica condotta attraverso specifici questionari  inviati agli uffici giudiziari ed ai  Consigli degli Ordini Professionali interessati.

    [3] I questionari sono stati richiesti nel dicembre 2019 tramite un'applicazione informatica e la raccolta dei dati si è conclusa nel 2020.

     [4] Art. 19 co. 2 bis del d.l. 160/2006 (Ordinamento giudiziario) e Regolamento del CSM del 13/3/2008.

    [5] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli.

    [6] Nello specifico, è stata effettuata un’Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM) e, successivamente, una cluster analysis gerarchica ascendente sulle prime due dimensioni fattoriali, che spiegano complessivamente il 39% della varianza dei dati.

    [7] Nello specifico, ci si riferisce a rapporti tra I) Giudice civile e Giudice minorile, II) Giudice civile e Pubblico Ministero ordinario, III) Giudice civile e Giudice minorile e IV) Giudice civile e Pubblico Ministero minorile.

    [8] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli (art. 337 ter del codice civile).

    [9] Ciò avviene nel 64% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 5,4%.

    [10] Ciò avviene nel 54,5% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 4,6%.

    [11] Si ricorda che il periodo temporale di riferimento dell’indagine è il triennio 2016-2018, antecedente alla legge 69/2019 che ha introdotto l’obbligo di trasmettere determinati atti dal procedimento penale a quello civile nei casi in cui si proceda per determinate ipotesi di reato.

    [12] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli (art. 337 ter del codice civile).

    [13] Infatti, l’86,5% (dato medio: 51%) dei Tribunali del cluster dichiara di aver sempre informato il P.M. nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica e, il 69% (dato medio: 41%) ha dichiarato che il P.M., quando informato, è intervenuto sempre.

    [14] Ciò avviene nel 58% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 31,5%.

    [15] Selezione che avviene sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti nel 61% dei Tribunali appartenenti al cluster, a fronte dei una media del 75%.

     

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