Diritto e società
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Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico di Marco Dell’Utri

Prosegue ancora la riflessione di Giustizia insieme sul Programma di gestione per l'anno 2021 della Corte di Cassazione. Agli interventi di Renato Rordorf - Commento al punto 11: “La motivazione dei provvedimenti” - di  Bruno Capponi - Lampeggi sulle motivazioni - e dell'Avv. David Cerri su Chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti) - si aggiunge, oggi, il contributo di Marco Dell’Utri sul tema degli stereotipi nel ragionamento giuridico.

Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico

di Marco Dell’Utri   

La Relazione illustrativa del Primo Presidente della Corte di Cassazione sul programma di gestione per l’anno 2021 dedica un significativo passaggio al tema dell’uso degli stereotipi (e, in particolare, di quelli di genere) nei provvedimenti del giudice.

Muovendo da questo spunto, il saggio propone una particolare riflessione sulle radici del pregiudizio (di cui lo stereotipo rappresenta una delle forme più tipiche di manifestazione), e sembra rinvenire, lungo il proprio cammino (dalla relazione uomo-donna, alle più recenti questioni dell’affettività delle coppie same sex e del relativo accesso ai procedimenti di procreazione medicalmente assistita o al sistema delle adozioni dei minori, fino ai temi più controversi posti dal transessualismo), i segni dell’antica, e mai sopita, disputa sui rapporti tra diritto e natura.

E con le profonde ragioni di quella disputa, chiama il giurista (e il giudice in primo luogo) – già nella composizione e nello stile formale della propria pagina – a misurarsi con umiltà e consapevolezza.  

Sommario: 1. Sul linguaggio delle sentenze - 2. Linguaggio giuridico e stereotipi di genere - 3. La natura del pregiudizio - 4. Dell’“ordine naturale delle cose” - 5. Stereotipi di genere e dimensione sovranazionale - 6. Il diritto tra “ordine naturale” e artificio - 7. Per una lettura del “programma”.  

1. Sul linguaggio delle sentenze  

Si segnala come un invitante richiamo, tra le righe di un documento di prevalente destinazione burocratica, il passaggio della relazione sul “programma di gestione” redatta dal Primo Presidente della Corte di cassazione dedicato alla motivazione delle sentenze.[1]

Il tema, sviluppato lungo l’intero par. 11, è affrontato, in primo luogo, sotto il profilo della chiarezza e della comprensibilità del linguaggio dei provvedimenti del giudice che si rivendica come segno di un patrimonio professionale, e quindi della necessaria sinteticità, cui pure è associato il richiamo erudito alla concinnitas di derivazione ciceroniana; si tratta, con riguardo a ciascuna di tali caratteristiche, di qualità destinate ad assolvere al compito di agevolare la “progressione logica del ragionamento”; di scongiurare il rischio di “inutili ripetizioni”; di favorire “un confronto costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice”, nell’incontro con l’altrettanto auspicata agilità o funzionalità dello stile che si prospetta come destinato a caratterizzare anche gli scritti che provengono dalle parti.

La riflessione teorica del ceto giudiziario sui temi dello stile e del linguaggio delle sentenze ha conosciuto nel tempo – segnatamente attraverso l’impulso delle strutture tradizionali della formazione (il Consiglio superiore della Magistratura nelle sue articolazioni interne, prima, la Scuola superiore della Magistratura, più di recente) – momenti di significativo approfondimento, tanto in chiave storico-culturale, quanto più strettamente sul piano dell’analisi delle tecniche redazionali dei provvedimenti giudiziari: un percorso di ricerca destinato a portare alla luce i significati che si nascondono nei diversi modi di giustificare la decisione; un discorso che appartiene alla storia delle idee e delle concezioni proprie sull’autorità o sul potere, nelle diverse latitudini geografiche o secondo le sensibilità proprie di aree nazionali o culturali di differente estrazione.

Non costituisce dunque un elemento di particolare originalità, in tal senso, il ritorno, da parte del documento di programmazione gestionale della nostra Corte Suprema, ai temi dello stile e del linguaggio dei provvedimenti, specie se collocato sullo sfondo di un prospettato recupero di funzionalità complessiva che l’adozione di modelli di più sobria o agile composizione formale consentirebbe di realizzare.[2]  

2. Linguaggio giuridico e stereotipi di genere

Una questione di ben altro respiro o profondità culturale sembra, viceversa, potersi cogliere con riguardo al passaggio della relazione sul programma di gestione che si spinge a considerare il “non sufficientemente esplorato” aspetto dell’uso degli stereotipi, e “in particolare, di quelli di genere”, come punto critico di caduta della qualità o della stessa credibilità del discorso del giudice. Il documento sottolinea come la lingua manifesti e, allo stesso tempo, condizioni il nostro modo di pensare: “essa incorpora una visione del mondo e ce lo impone. Il linguaggio, quindi, non è soltanto uno strumento di informazione e comunicazione, ma rappresenta uno dei più importanti sistemi simbolici a nostra disposizione e uno degli strumenti privilegiati per la costruzione della soggettività individuale, compresa l’identità di genere”. Della lingua si sottolinea l’idoneità, non solo a rispecchiare i valori che si affermano in un determinato contesto sociale, ma a concorrere alla loro determinazione: “il linguaggio, sia esso quello storico-naturale che quello giuridico, racchiude la sedimentazione di tutti i significati individuali e collettivi attribuiti alle parole nel corso del tempo, nonché delle idee, dei giudizi di valore, dei comportamenti elaborati a livello formativo e sociale”. Da questa prospettiva, la relazione sul programma di gestione dichiara apertamente di fare proprio il contributo del Comitato per le pari opportunità, ritenendo “non più procrastinabile l’approfondimento sulla costruzione del ragionamento giuridico, sulle categorie da esso utilizzate, sul linguaggio, sulla loro “permeabilità” ai cambiamenti e alle nuove sensibilità maturate nella società con riferimento al tema del pregiudizio di genere e di ogni forma di discriminazione”.[3]

Poco più di un anno fa, questa rivista aveva segnalato, attraverso una delle sue “interviste”, la necessità di tornare a riflettere sul tema, significativo, del lessico di genere.[4] Si pose in evidenza, allora - sulle tracce del discorso heideggeriano sul linguaggio[5], e sull’attitudine “archeologica” e “decostruttiva” della ricerca sul potere (nel significato assunto da tali termini secondo le proposte teoriche di Foucault e Derrida[6]) - come l’ordine del discorso non sia mai innocente, spettando a ciascuno, nella misura in cui si nutre o si serve del linguaggio, porsi l’interrogativo radicale sulle origini, la funzione e lo scopo dello strumento comunicativo adoperato, di demistificarne l’aura quasi-sacrale, di decostruirlo appunto, affinché abbia a emergere la tessitura complessa dei poteri e delle culture che ne hanno, nel tempo, forgiato le forme e i contenuti simbolici. Si ammonì, allora, come nel quadro dei poteri che percorrono (talora apertamente, più spesso sotterraneamente) la struttura delle relazioni della vita quotidiana, quello che innerva i rapporti di genere appaia, singolarmente, quello più presente (o evidente) alla riflessione comune, ma, insieme (e contemporaneamente), quello più nascosto e insidioso.

L’invito del documento programmatico qui richiamato, come spunto e avvio di una comune riflessione sul senso del linguaggio giudiziario nella prospettiva delle questioni di genere, chiede dunque di essere inteso, non già - come solo brutalmente potrebbe intendersi - alla stregua di una surrettizia imposizione di orientamenti culturali predeterminati (evidentemente fuori luogo o comunque incompatibile con il senso o la funzione di un testo come quello in esame), bensì come indispensabile richiamo del giudice alla necessità di affinare i propri strumenti di consapevolezza critica dei ragionamenti posti a fondamento delle decisioni e dei linguaggi destinati a renderne conto sul piano formale. Si tratta, in breve, di un’ammonizione che guarda al pregiudizio (di cui lo stereotipo rappresenta una delle forme più tipiche di manifestazione) come a uno dei fattori di più frequente mortificazione, sul piano sociale, dei legittimi percorsi di costruzione delle identità individuali (compresa quella di genere) al di fuori da ogni indebita o illecita discriminazione.[7]  

3. La natura del pregiudizio  

In un’indimenticata lezione torinese della fine degli anni Settanta[8], Norberto Bobbio aveva avuto modo di soffermarsi sulla natura del pregiudizio, definito come “un’opinione e un complesso di opinioni, talora anche un’intera dottrina, che viene accolta acriticamente e passivamente dalla tradizione, dal costume oppure da un’autorità i cui dettami accettiamo senza discuterli”[9]. Il carattere acritico e passivo dell’accettazione senza verificazione sta a significare il rifiuto di ogni confutazione che venga fatta ricorrendo ad argomenti razionali. Per questo si dice, a buon diritto, che il pregiudizio appartiene alla sfera del non razionale, il complesso di quelle credenze che non nascono dal ragionamento e si sottraggono a qualsiasi confutazione fondata su un ragionamento. Proprio l’appartenenza del pregiudizio alla sfera delle idee refrattarie ad essere sottoposte al controllo della ragione serve a distinguerlo da qualsiasi altra forma di opinione erronea: il pregiudizio è un’opinione erronea creduta fortemente per vera che si distingue da tutte le altre forme suscettibili di essere corrette attraverso le risorse della ragione e dell’esperienza. Proprio in tal senso, “poiché non è correggibile o è meno facilmente correggibile, il pregiudizio è un errore più tenace e socialmente più pericoloso”[10]. Questa singolare tenacia del pregiudizio, proseguiva Bobbio, dipende generalmente dal fatto che “il credere vera un’opinione falsa corrisponde ai miei desideri, sollecita le mie passioni, serve ai miei interessi. Dietro la forza di convinzione con cui crediamo a ciò che il pregiudizio ci vuol far credere sta una ragione pratica, e quindi, proprio in conseguenza di questa ragione pratica, una predisposizione a credere nell’opinione che il pregiudizio tramanda”[11].

Il nesso di implicazione immediata tra pregiudizio e discriminazione si fonda sulle particolari modalità attraverso le quali l’opinione discriminatoria si forma e si radica nelle convinzioni comuni. Al giudizio di fatto, che ordinariamente accompagna la naturale constatazione delle diversità, la discriminazione accosta il giudizio di valore che sancisce la superiorità (morale, civile, intellettuale) dell’un termine della comparazione rispetto all’altro. Si tratta di criteri normalmente tramandati in modo acritico nell’ambito di un certo gruppo e che come tali si reggono sulla forza della tradizione o su un’autorità riconosciuta. Ma ciò che più ancora rileva, nei processi di formazione del pensiero discriminatorio, è che il trattamento da riservare al gruppo di cui è sancita la superiorità rispetto all’altro deve necessariamente tradursi nel comando, nel dominio, nella sopravvivenza contro la soppressione; in breve, nel privilegio del primo rispetto all’inevitabile soccombenza dell’altro.

L’esigenza di una particolare attenzione, o di una più avvertita sensibilità del giudice sul tema delle discriminazioni, discende, in primo luogo, dal principio fondamentale sancito dall’art. 3 della Costituzione, che notoriamente riconosce la pari dignità sociale di ogni cittadino dinanzi alla legge, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

A questo specifico riguardo, converrà fermare l’attenzione (ancora una volta sulle orme della riflessione raccomandata da Norberto Bobbio) su quella - tra le diverse forme di distinzione delle diseguaglianze - che suole compiersi tra le diseguaglianze naturali e quelle sociali: “si tratta di una distinzione relativa e non assoluta. Però è una distinzione che entro certi limiti ha un fondamento. [...] La distinzione fra queste due specie di diseguaglianze ha avuto una grande importanza in tutta la storia del pensiero politico. Una delle costanti aspirazioni degli uomini è di vivere in una società di eguali. Ma è chiaro che le diseguaglianze naturali sono molto più difficili da vincere che quelle sociali. Ragione per cui coloro che resistono alle richieste di maggiore eguaglianza sono portati a ritenere che la maggior parte delle diseguaglianze siano naturali e, come tali, invincibili o più difficilmente superabili. Al contrario, coloro che lottano per una maggiore eguaglianza sono convinti che la maggior parte delle diseguaglianze siano sociali o storiche. [...] La differenza fra diseguaglianza naturale e diseguaglianza sociale è rilevante per il problema del pregiudizio per questa ragione: spesso il pregiudizio nasce dal sovrapporre alla diseguaglianza naturale una diseguaglianza sociale senza riconoscerla come tale, senza riconoscere che la diseguaglianza naturale è stata aggravata dal sovrapporsi di una diseguaglianza creata dalla società, e che non essendo riconosciuta come tale viene considerata ineliminabile. Nella questione femminile proprio questo è avvenuto. Che fra uomo e donna vi siano differenze naturali è evidente. Ma la situazione femminile che i movimenti femministi rifiutano è una situazione in cui alla diversità naturale si sono aggiunte differenze di carattere sociale e storico, che non sono giustificate naturalmente e che, essendo un prodotto artificiale della società retta dai maschi, possono (o debbono) essere eliminate”.[12]  

4. Dell’ “ordine naturale delle cose”

La distinzione tra origine naturale o culturale delle disuguaglianze può legittimamente ritenersi discutibile o controvertibile, e del resto lo stesso Bobbio invitava a non sopravvalutarla, preferendo ricondurne il richiamo a un’esigenza di carattere eminentemente retorico: “questa differenza tra diseguaglianze naturali e sociali deve essere presa con molta cautela, per quanto sia legittima. Però serve a far capire che il pregiudizio è un fenomeno sociale, è il prodotto della mentalità di gruppi formatasi storicamente, che proprio in quanto tale può essere eliminato”.[13]

La rievocazione di due diverse pronunce (una della Corte costituzionale dei primissimi anni ‘60, l’altra di una Corte d’appello di non molti anni fa) aiuta a rendere più agevolmente comprensibile il senso concreto del discorso che si conduce.

Nel 1961, la Corte costituzionale[14], rigettando la questione di incostituzionalità dell’art. 559 c.p. che prevedeva come reato unicamente l’adulterio della moglie e non anche quello del marito, giustificava tale decisione sostenendo come sia innegabile che anche l’adulterio del marito possa “in date circostanze, manifestarsi coefficiente di disgregazione della unità familiare; ma, come per la fedeltà coniugale, così per la unità familiare il legislatore ha evidentemente ritenuto di avvertire una diversa e maggiore entità della illecita condotta della moglie, rappresentandosi la più grave influenza che tale condotta può esercitare sulle più delicate strutture e sui più vitali interessi di una famiglia: in primo luogo, l’azione disgregatrice che sulla intera famiglia e sulla sua coesione morale cagiona la sminuita reputazione nell’ambito sociale; indi, il turbamento psichico, con tutte le sue conseguenze sulla educazione e sulla disciplina morale che, in ispecie nelle famiglie (e sono la maggior parte) tuttora governate da sani principi morali, il pensiero della madre fra le braccia di un estraneo determina nei giovani figli, particolarmente nell’età in cui appena si annunciano gli stimoli e le immagini della vita sessuale; non ultimo il pericolo della introduzione nella famiglia di prole non appartenente al marito, e che a lui viene, tuttavia, attribuita per presunzione di legge, a parte la eventuale – rigorosamente condizionata – azione di disconoscimento”.

Sette anni dopo la Consulta, con un radicale revirement (segno dell’iniziale incidenza delle ragioni che pochi anni più tardi avrebbero condotto alla riforma del diritto di famiglia), dichiarò l’incostituzionalità della norma[15], testimoniando il più generale progresso nella comprensione del principio di uguaglianza tra i sessi nonché dei rapporti sociali tra uomini e donne, restando tuttavia da intendere – ricorda l’autore di uno dei più recenti studi giuridici sugli stereotipi di genere – “se e fino a che punto le immagini patriarcali e stereotipate delle donne contenute nel passaggio della sentenza […]  siano realmente sparite, e quali strascichi invece persistano nella nostra società odierna e nel nostro diritto.[16]

Quanto quel timore, manifestato solo pochi anni fa, non apparisse privo di ragioni sembra testimoniato dalla vicenda sottoposta, alla fine del 2014, all’esame della Corte di cassazione, nel quadro di un’ordinaria questione di carattere risarcitorio avanzata da due coniugi.

In quel caso, a seguito di un sinistro stradale che coinvolse una coppia di coniugi, il marito riportò gravi lesioni che lo costrinsero a una lunga assenza dal lavoro, durante la quale venne assistito dalla moglie. I coniugi adirono di conseguenza il Tribunale di Venezia per vedersi risarciti i danni patiti dai responsabili dell’incidente. Tra questi, il marito rivendicò il risarcimento del danno da perdita della capacità di lavoro, ivi compreso quello domestico; pretesa a cui la moglie associò la richiesta del risarcimento, tanto del danno non patrimoniale derivatole indirettamente dalle sofferenze patite dal coniuge, quanto del danno patrimoniale provocato dalla forzosa rinuncia allo svolgimento delle attività domestiche, causata dalla necessità di assistere il marito infermo a causa del sinistro.[17]

Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello di Venezia, accogliendo parzialmente le domande dei due coniugi, respinsero quelle relative all’incapacità lavorativa domestica del marito e del conseguente danno patrimoniale riflesso della moglie. In particolare, la Corte d’Appello motivò il rigetto della domanda del marito affermando come non rientrasse “nell’ordine naturale delle cose[18] che il lavoro domestico venisse svolto da un uomo”. Quanto alla domanda della moglie, il relativo rigetto trasse motivo, vuoi dalla già avvenuta considerazione del danno indiretto nella liquidazione del danno non patrimoniale, vuoi dalla mancata dimostrazione che, a causa della malattia del marito, la stessa dovette abbandonare “completamente e quotidianamente” le occupazioni domestiche.[19]

Al di là degli aspetti critici messi in evidenza dal severo monito della nostra Corte suprema[20], spicca, nel quadro del discorso composto dalla Corte veneziana, il riferimento al carattere normativo dell’ordine naturale delle cose, che il giudice lagunare richiama, nella propria argomentazione, come un fatto da assumere alla stregua di un dato di indiscutibile rilievo, non bisognoso di alcuna particolare dimostrazione.

Si tratta, come è evidente, della plastica riproposizione di quel pregiudizio (ben descritto dal discorso bobbiano) originato dalla sovrapposizione, alla naturale disuguaglianza tra uomini e donne, di una diseguaglianza sociale non riconosciuta come tale; di un’analisi incapace di riconoscere come la diseguaglianza naturale sia indebitamente aggravata – proprio in forza della riproposizione di uno stereotipo – dal sovrapporsi di una diseguaglianza di origine socio-culturale che, inconsapevole di sé, viene considerata ineliminabile.  

5. Stereotipi di genere e dimensione sovranazionale 

Si è in precedenza accennato al testo della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, approvata il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea generale dell’ONU (CEDAW), e ai riferimenti positivi (artt. 5 e 10) che, con immediatezza, individuano, in quel documento, la grave incidenza ritardante, sullo sviluppo e l’affermazione di una cultura realmente non discriminatoria, degli stereotipi destinati a tramandare le convinzioni fondate sull’inferiorità o la superiorità dell’uno o dell’altro sesso, o sull’idea di una rigida ripartizione dei ruoli che, di necessità, accompagnerebbero l’esperienza di vita di uomini e donne.

Più di recente, nel quadro delle attività connesse al monitoraggio sull’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la c.d. “Convenzione di Istanbul”), il “Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” (GREVIO)[21] ha rilasciato un “Rapporto di Valutazione” riguardante l’Italia, sulle misure legislative e di altra natura da adottare per dare efficacia alle disposizioni della Convenzione di Istanbul.[22]

In tale rapporto, si menzionano gli stereotipi di genere tra le “cause alla radice della violenza contro le donne” (pag. 9); se ne registra la “persistente” presenza nelle decisioni dei tribunali sui casi di violenza domestica (pag. 14)[23]; se ne segnala la permanente problematicità nella cultura italiana[24]; si evidenzia, degli “stereotipi patriarcali”, l’idoneità a favorire l’accettazione della violenza e la tendenza a colpevolizzare le donne (pag. 36); il relativo contributo ad esporre le donne a una vittimizzazione secondaria (pagg. 42, 58 e 70), con particolare riguardo all’esperienza dei tribunali penali, spesso responsabili “di discriminazioni nei confronti delle donne”, di sottovalutazione delle “conseguenze e [de] i rischi della violenza basata sul genere”, oltre che di fomentare “pregiudizi e stereotipi sessisti” (pag. 70).

Il “Rapporto” riprende talune denunce delle organizzazioni femminili inclini a sottolineare l’estrema difficoltà di “erodere gli stereotipi negativi sessisti all’interno delle aule di tribunale”, mentre “le forze dell’ordine, i magistrati e gli avvocati dovrebbero ricevere una maggiore formazione e sensibilizzazione su questi temi” (pag. 75).

Il contenuto di tali documenti è improvvisamente riapparso, rapidamente ripreso dalle cronache degli ultimi giorni, tra le righe di una decisione con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha condannato l’Italia a seguito dell’emissione, da parte di una corte d’appello fiorentina, di una sentenza di assoluzione di taluni imputati da un’accusa di stupro di gruppo.[25]

Nel ricorrere contro il nostro paese, la ricorrente – a seguito del procedimento penale seguito alla denuncia di uno stupro di gruppo dalla stessa presentata e conclusosi con l’assoluzione dei suoi presunti aggressori – aveva contestato l’avvenuta violazione, da parte dello Stato italiano, dei doveri di protezione sullo stesso incombenti in relazione al diritto alla privacy e all’integrità personale della donna (di cui agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo) in occasione del processo.

Nella sua iniziativa dinanzi ai giudici europei, la ricorrente ha evidenziato come i suoi diritti di presunta vittima non fossero stati sufficientemente protetti nel procedimento per stupro contro i suoi presunti aggressori; ha spiegato come l’intera procedura fosse stata lunga e dolorosa; ha sostenuto di essere stata sottoposta a continue e ingiustificate interferenze nella sua privacy da parte delle autorità; ha rilevato come la corte d’appello fiorentina avesse deciso di assolvere gli imputati sulla base di una valutazione soggettiva delle sue abitudini sessuali e delle sue scelte intime e personali, e non sulla base di prove oggettive, riproducendo un concetto restrittivo e superato di violenza sessuale. Ha inoltre affermato di essere stata interrogata più volte su dettagli della sua vita privata e sessuale non collegati all’aggressione (come la storia delle sue performance artistiche, o delle sue relazioni sessuali) allo scopo di dimostrare il carattere “anormale” del proprio stile di vita e del proprio orientamento sessuale.

La Corte europea, dopo aver sottolineato di non essere chiamata a pronunciarsi su eventuali errori od omissioni dei giudici italiani (non potendo sostituirsi ad essi nella valutazione dei fatti relativi al caso specifico), ha comunque rilevato l’effettiva violazione, da parte delle autorità giudiziarie italiane, delle ragioni della donna. E tuttavia, non già in relazione ai modi con i quali sarebbero state condotte le indagini preliminari, o governato il dibattimento, bensì (e il rilievo vale a inserirsi nel quadro delle riflessioni qui rapidamente raccolte) per essersi i giudici italiani ingiustificatamente riferiti, nei diversi passaggi della sentenza di assoluzione degli imputati, ad aspetti propri della persona o della vita della presunta vittima del tutto privi di concreta rilevanza rispetto alle esigenze del giudizio.

I giudici di Strasburgo ricordano, a tale riguardo, i riferimenti alla lingerie rossa “mostrata” (non già “indossata” o “inavvertitamente rivelatasi”) dalla ricorrente durante la serata in occasione della quale si svolsero i fatti del processo; i commenti sulla bisessualità della donna o sulle sue relazioni sessuali occasionali di poco precedenti la relazione di gruppo oggetto della denuncia; il carattere inappropriato delle considerazioni dei giudici italiani sull’atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso o sulla circostanza che la stessa avesse partecipato, in passato, come attrice, a un cortometraggio dai contenuti violenti ed esplicitamente sessuali; la valutazione della decisione della ricorrente di denunciare i fatti che, secondo la corte d’appello, era il risultato di una volontà della donna di “stigmatizzare” e sopprimere un “discutibile momento di fragilità e debolezza”; il finale riferimento alla sua “vita non lineare”.

La circostanza che il complesso di tali elementi non fosse in alcun modo utile ai fini della valutazione della credibilità della donna (già esaminabile alla luce delle numerose altre risultanze oggettive del procedimento) era valsa a tradursi in un’illecita divulgazione di informazioni e dati personali della ricorrente non correlati all’oggetto del processo, e tale da costituire un’ingiustificata interferenza nella sua vita privata.[26]

Nel richiamare il rilievo (già presente nel rapporto sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne e nel già citato rapporto GREVIO riferito all’Italia) relativo alla persistente iterazione degli stereotipi sul ruolo delle donne e la resistenza della società italiana alla causa dell’uguaglianza di genere, la Corte di Strasburgo ha sottolineato come il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello di Firenze avessero finito col veicolare nuovamente i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana, come tali suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere, al di là dell’eventuale apprezzabilità del quadro legislativo nazionale. Si tratta dell’ennesimo ricorso, attraverso la riproduzione di stereotipi nelle decisioni giudiziarie (suscettibili di minimizzare la violenza di genere), di forme di vittimizzazione secondaria, frutto di un linguaggio colpevolizzante e moraleggiante capace di scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario (v. parr. 140 e 141).[27]  

6. Il diritto tra “ordine naturale” e artificio  

Se il superamento di sedimentazioni culturali così marcatamente inadeguate (sul piano civile, prim’ancora che su quello culturale) può ritenersi operazione storicamente definita in relazione ai rapporti sociali di genere, assai più incerto e inquietante deve intendersi il percorso che attende la riflessione collettiva sul terreno della rivisitazione delle convinzioni che ancora oggi, con estrema difficoltà, il discorso razionale affronta, nel tentativo di misurarsi con i riflessi d’indole emotiva o passionale che pure agitano o turbano i riferimenti più consolidati della coscienza sociale.

Si tratta di questioni che toccano nel profondo le persuasioni più radicate sul senso stesso dell’esperienza umana, sull’origine della vita, sulla strutturazione delle relazioni parentali, sul significato della genitorialità, sulla declinazione, attorno a ciascuno di tali temi, del ruolo del “sesso”, come estremo identificativo rilevante sul piano strettamente biologico e, insieme, del “genere”, come dimensione identificativa della persona su cui incidono, con determinante rilievo, il peso delle più libere latitudini del discorso culturale e gli schemi che si affermano, riflessivamente, sul terreno sociale e comportamentale.

Sono i temi che il discorso pubblico, spesso frettolosamente, considera nell’affrontare, tra le altre, le vicende dell’affettività delle coppie same sex; del relativo accesso ai procedimenti di procreazione medicalmente assistita o dell’apertura, in forma più o meno completa, al sistema delle adozioni dei minori; del transessualismo e dell’irrilevanza, ai fini della concreta rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, dell’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.[28]

Torna ad affacciarsi, nell’accostamento dialettico tra “sesso” e “genere” (nella loro dimensione identificativa e costitutiva della persona), lo spettro antico della contrapposizione tra “natura” e “cultura”, tra l’ordine naturale che esige il debito dell’osservanza (il diritto naturale; l’astratta deduzione della regola), e l’attitudine ‘costruttiva’ della politica e della cultura (il diritto come sedimentazione politico-culturale in perenne divenire).

In questo senso, l’allusione alla figura dello stereotipo legata alle questioni di genere, convoca, all’orizzonte della riflessione, l’intero percorso della costruzione moderna e contemporanea sul tema dell’identità personale e della soggettivazione, dalla lettura metafisica e sostanzialista di origine cartesiana, fino alle più recenti proposte di dissoluzione della idea stessa dell’identità personale come di un processo di ricerca meramente autoreferenziale, per intenderla, piuttosto, alla stregua di una costruzione dipendente, in modo determinante, dalla qualità delle relazioni istituite con la società e l’ambiente.

Si è detto dell’estrema difficoltà di affrontare con la necessaria nettezza la tradizionale distinzione tra origine naturale o culturale delle disuguaglianze; e si è rilevato il carattere paradossale di un uso spregiudicato o irriflesso dell’espressione che allude all’“ordine naturale delle cose” al fine di desumerne valide conseguenze sul piano normativo.

Al tema dell’“ordine naturale delle cose”, uno tra i nostri giuristi civilisti di più apprezzata e raffinata cultura, aveva ricondotto non molti anni fa – quasi come a un comune denominatore – l’ispirazione di talune, ricche, riflessioni dedicate ai più diversi temi (come la soggettività, l’uguaglianza, le biotecnologie, il multiculturalismo), tenendo sullo sfondo il dilemma da sempre iscritto nelle dispute, mai sopite, sul rapporto tra diritto e natura.[29]

La storia delle dottrine del diritto naturale, si ammonisce, è la nostra storia intellettuale, che prende vita dall’esperienza presocratica, con la proiezione, nella natura, di principi e affermazioni di valore tratti dall’esperienza delle relazioni sociali, e l’annuncio dell’apertura del pensiero, con l’abbandono della magia, a ciò che diverrà, in progresso di tempo, il senso della causalità scientifica. Una storia lunghissima, coerentemente misurabile fino alle reazioni opposte, in un tempo a noi più vicino, agli orrori delle dittature del ‘900, con la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo e la creazione di una dimensione giuridica sovra-nazionale e sovra-statuale.

E tuttavia, pur quando così ben strutturato sulla trama elegante dell’“ordine naturale delle cose”, nessuno steccato immaginario ha mai potuto preservare l’esperienza delle nostre comunità dalle istanze del pluralismo, dal bagno della concretezza, dalla dilagante problematicità del reale. Su quelle forze “dis-ordinanti” ancora registriamo oggi, come esiti politico-culturali di un secolare tragitto, la permanente espropriazione, da parte degli esecutivi (in nome dell’urgenza e del tecnicismo delle decisioni), della funzione legislativa; la liquidazione della legge; la trasformazione della politica da rappresentanza in rappresentazione; il giudizio politico, morale, e perfino quelli storico e giuridico, veleggianti verso approdi conformisti, ludici, puramente estetici.[30]

Cospira a questi effetti, senza alcun dubbio e paradossalmente, “il progresso della conoscenza, che con la vertigine della storia genera anche quella di un’infinita complessità. Si direbbe che l’uomo contemporaneo sia meno in grado di ogni suo predecessore di reggere il fardello – di sopportare quello che sa. Come è solito nascondersi l’umanità della legge giuridica, così amerebbe non aver scoperto che è rivedibile la legge naturalistica, e che l’ordine si presenta in entrambi i sensi come un prodotto instabile della mente. […] Nell’era dell’onnipotenza tecnologica, l’idea dell’ordine naturale tradisce, attraverso brandelli di antiche dottrine, il suo sembiante di gran lunga più ingenuo: la vita ‘secondo natura’ – ed in essa un individualismo “debole”, sordo e muto – come abbandono al corso delle cose, come scelta di non scegliere, la cui sola evocazione è sufficiente a candidarla come la migliore delle scelte possibili. Se natura è ciò che è intatto da manipolazione – in contrapposto all’artificio – abbiamo oggi ogni elemento per affermare che, quale criterio dell’azione, non c’è da farvi affidamento. […] Anche le abitudini che troviamo, per la loro diffusione e familiarità, massimamente naturali – le nostre maniere di lavorare, abitare, nutrirci, quelle di amarci con anime e corpi – conosciamo come il risultato di una lunga evoluzione umana nella storia. Ci sappiamo insomma, anche se stentiamo a dichiararlo, inchiodati senza scampo a una cultura sovrapposta alla natura: le opzioni dell’etica non sono mai tra natura e cultura, ma fra diverse possibilità aperte nel contesto culturale in cui viviamo”.[31]

Rivista da questo punto di vista, la moralità del diritto risiede tutta nell’artificialità, e il nichilismo appare non un suo nemico, ma un suo intimo e naturale alleato: secondo l’ammonimento di Gustavo Zagrebelski (significativamente maturato all’interno della “classica” rimeditazione dell’Antigone sofoclea), “lo Stato giusto e, alla fine, duraturo è quello che assume come suo fondamento l’uguaglianza dell’uomo nella nullità del suo valore, l’uomo destinato al regno di Ade. […] Solo la fondamentale uguaglianza degli uomini nella loro intrinseca mancanza di valore di fronte alla morte può dare un senso alla vita dell’essere umano”.[32]

Appartandoci nello studio delle leggi positive, delle retrostanti forme geometriche, di invarianti ontologiche o di verità teologiche, ritiriamo il nostro sguardo dalla nostra umanità, e con essa dalla nostra finitezza: esprimiamo, dietro l’uno e l’altro atteggiamento, la medesima paura di conoscere.[33]

La formula del diritto naturale, con tutta la sua antica vocazione di argine all’ingiustizia, rischia più che mai nel mondo attuale di risuonare come un’abiura al pensiero critico, parola d’ordine delle divisioni culturali e religiose, grido di intolleranza, invito alla chiusura, alla discriminazione, perfino alle armi.[34]

Ma ancora una volta, come un vertiginoso nuovo capovolgimento, il sentimento del nostro darci con il mondo, dell’appartenenza a quello sfondo mobile cui di natura diamo il nome, la progettazione del dover essere in base all’essere (alle regolarità e ai nessi causali che si riscontrano nei nostri rapporti reciproci nel contesto in cui hanno luogo) sembrano tornare a offrirci le condizioni necessarie perché il diritto, mantenendo la propria struttura ambigua, non cessi di manifestarsi come tale, transustanziando in cieco scontro di forze.[35]

In questa enigmatica ambiguità, la suggestione dell’ordine naturale delle cose “ha un che di simile al meccanismo della rimozione, che combattiamo con profitto, ma dal quale non possiamo uscire senza negare noi stessi. Difficilmente rifiuteremmo alla sequenza delle sue innumeri sconfitte il senso generale di un progresso. La fantasia del suo superamento, nondimeno, è fantasia di un mondo regredito, impoverito: di un universo dal quale è assente ciò che chiamiamo scienza giuridica, e molto altro”.[36]

Come in un’ideale trasposizione di letture “leviane”[37], la coltivazione degli studi giuridici ci insegna a muoverci verso un “futuro dal cuore antico”; a progettare l’idea dell’“allontanamento” e, dunque, a disegnare con precisione il punto dal quale, sempre, ogni cammino ha da partire.  

7. Per una lettura del “programma”

Dietro l’invito (o il proponimento) sollecitato dal documento programmatico da cui hanno preso le mosse le brevi riflessioni che si propongono al lettore, sembrano dunque profilarsi le linee di un habitus professionale e intellettuale che al giudice è chiesto di affidare, oltre al tempo della meditazione, allo stile formale della propria pagina: la coltivazione, incessante, del dubbio metodico; il riferimento, saldo, all’incedere del pensiero critico; il coraggio di mettere in gioco il valore identitario delle proprie memorie culturali; e, infine, il recupero, umile ma ineludibile, del senso originale della vita che a ciascuno spetta di scoprire per sé.

Si tratta di un appello che richiama il giurista (e il giudice in primo luogo) al compito di restituire alla parola, e alla scrittura che pubblicamente la diffonde, il “peso culturale” del tempo e la sua antica vocazione, che è propria anche del diritto, alla causa dell’uomo.


[1] Si tratta della Relazione illustrativa del Presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, sul programma di gestione per l’anno 2021 dei procedimenti civili e penali ex art. 37 D.L. 6.7.2011 n. 98, convertito in L. 15.7.2011, n. 111.

[2] Sul punto, possono ricordarsi: la Magna Carta dei giudici europei del 17/11/2010 (par. 16) e la Raccomandazione 12/2010 del 17/11/2010 Com. Min. CE (par. 63), per cui la motivazione dei provvedimenti va redatta in un “linguaggio semplice, chiaro e comprensibile”; le delibere del CSM del 5/7/2017 e del 20/6/2018 sulle modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti; i decreti del primo Presidente della Corte di cassazione n. 84 e n. 136/2016, sulla motivazione semplificata o sintetica dei provvedimenti; i Protocolli d’intesa fra la Corte di cassazione, il CSM e il CNF, in merito alle regole redazionali degli atti, ispirate a criteri di chiarezza, sinteticità e comprensibilità. Lo stesso codice del processo amministrativo, art. 3 comma 2, stabilisce che “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”, mentre, secondo la Corte di cassazione (Sez. un. civ., n. 642/2015 e n. 964/2017; Sez. un. pen., n. 40516/2016, par. 9), i doveri di specificità, chiarezza e sinteticità degli atti costituiscono “un principio generale del diritto processuale”.

[3] Il concetto di “stereotype”, nel suo moderno significato socio-psicologico, venne introdotto da Lippmann nel 1922, nella sua opera W. Lippmann, Public Opinion, (New York, 1922). L’opera di riferimento nel campo giuridico, invece, è quella più recente di Rebecca Cook e Simone Cusack, Gender Stereotyping: Transnational Legal Perspectives (Philadelphia, 2010). Le autrici di questa monografia definiscono come gender stereotypes tutte le costruzioni sociali e culturali che distinguono uomini e donne sulla base di criteri fisici, biologici, sessuali e delle loro funzioni sociali.

Sul piano normativo, varrà ricordare, nell’ambito delle attività delle Nazioni Unite, gli artt. 5, lett. a), e 10, lett. c), della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, approvata il 18 dicembre 1979 dall'Assemblea generale dell'ONU (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, CEDAW), secondo cui “Gli Stati parte prendono ogni misura adeguata: a) al fine di modificare gli schemi e i modelli di comportamento socio-culturale degli uomini e delle donne e giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne” (art. 5), nonché “Gli Stati parte prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne al fine di assicurare loro gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l’educazione e, in particolare, per garantire, su basi uguali tra l’uomo e la donna: […] c)l’eliminazione di ogni concezione stereotipata dei ruoli dell’uomo e della donna a tutti i livelli ed in ogni forma di insegnamento, incoraggiando l’edu­cazione mista e altri tipi di educazione che tendano a realizzare tale obiettivo e, in particolare, rivedendo i testi ed i programmi scolastici ed adattando i metodi pedagogici in conformità” (art. 10).

[4] M. Dell’Utri, Lessico di genere, intervista a S. Governatori, M.R. Marella, E. Resta, C. Robustelli, J. Visconti, v. https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/844-lessico-di-genere.

[5] Su cui v., tra gli altri, i testi raccolti in M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 2019.

[6] Di cui v. M. Foucault, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 2004 [ma v. 1972] e J. Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 2002 [ma v. 1971].

[7] Sul tema del ruolo dello stereotipo nell’analisi giuridica, v. il lungo saggio di M.R. Marella, G. Marini, La costruzione sociale del danno, ovvero l’importanza degli stereotipi nell’analisi giuridica, in Riv. crit. dir. priv., 1999, pp. 3 ss.; v. altresì, sul terreno giuridico-sociologico, A. Lollini, La rilevanza degli stereotipi sociali nella giurisprudenza minorile sullo stato di abbandono, in Riv. crit. dir. priv., 1999, 525 ss.; V. Mazzarelli, Diritti umani, convinzioni imposte e stereotipi, in I diritti dell’uomo, 2002, 89 ss.; U. Santina, Scienze sociali, mafia e crimine organizzato, tra stereotipi e paradigmi, in Studi sulla questione criminale, 2006, pp. 99 ss.; G. Borelli, Massime di esperienza e stereotipi socioculturali nei processi di mafia. La rilevanza penale della contiguità mafiosa, in Cass. pen., 2007, pp. 1074 ss.; E. Larrauri, Cinque stereotipi sulle donne vittime di violenza. Alcune risposte del femminismo ufficiale, in Studi sulla questione criminale, 2008, pp. 65 ss.; X. Lacroix, La famiglia oltre gli stereotipi, in Aggiornamenti sociali, 2013, pp. 466 ss.; O. Giolo, Norme, prassi e stereotipi nel diritto sessuato dell’immigrazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2014, pp. 34 ss.; M. Di Masi, Danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico maschile: la Cassazione contro gli stereotipi di genere in famiglia, in Danno e resp., 2015, pp. 814 ss.; M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, in Riv. crit. dir. priv., 2015, pp. 443 ss.; F. Colombo, La vecchiaia non è un destino. Stereotipi e ideologie dell’età avanzata, in Problemi dell’informazione, 2017, pp. 57 ss.; G. Ramaccioni, Faccia da casalinga. Il lavoro domestico e gli stereotipi sociali, in Riv. crit. dir. priv., 2017, pp. 151 ss.; (2017) M.C. Giorda, A. Cuciniello, M. Santagati, Nuove generazioni e radicalismo violento. Stereotipi e antidoti, in Rass. ital. di criminologia, 2017, pp. 228 ss.; S. Viciani, Il riconoscimento del danno non patrimoniale alla salute sessuale della persona, libero dagli stereotipi di genere, in Nuova giur. civ. comm., 2017, pp. 1646 ss.; M. Caruso L. Cerbara A. Tintori, Stereotipi, bullismo e devianza a scuola. Identikit degli studenti italiani, in MinoriGiustizia, 2019, pp. 133 ss.; A. Arace, Stereotipi e disuguaglianze di genere nell’istruzione scolastica, in MinoriGiustizia, 2020, pp. 23 ss.; I. Acocella, Giovani donne musulmane in Italia oltre gli stereotipi, in Aggiornamenti sociali, 2020, pp. 849 ss.; M.L. Piga, Erving Goffman gli stereotipi di genere nella pubblicità commerciale italiana (1982-2017), in Studi di sociologia, 2020, pp. 325 ss..

[8] Si tratta della lezione svolta da N. Bobbio nel quadro del corso La natura del pregiudizio, tenuto all’Istituto tecnico industriale Amedeo Avogadro di Torino dal 5 novembre al 17 dicembre 1979. Il corso era parte del programma Torino Enciclopedia - Le culture della città, organizzato dalla Città di Torino e dalla Regione Piemonte. Il testo fu raccolto nel volume La natura del pregiudizio, Torino, Città di Torino, Regione Piemonte, s.d., pp. 2-15, riprodotto nel volume Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Linea d’ombra, 1994, pp. 123-139, e infine in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1998, pp. 107-122 (da cui sono tratti i riferimenti delle citazioni richiamate nel testo).

[9] N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1998, p. 107.

[10] Op. ult. cit., p. 108.

[11] Loc. ult. cit.

[12] N. Bobbio, Elogio della mitezza, cit., pp. 116-118.

[13] Op. ult. cit., pp. 118-119.

[14] Corte Cost., sentenza n. 64/1961, richiamata anche da M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, cit., p. 443.

[15] Corte cost., sentenza n. 126/1968.

[16] M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, cit., p. 444.

[17] V. Cass. civile, Sez. 3, 18 novembre 2014, n. 24471, in Danno e resp., 2015, pp. 812 ss., su cui M. Di Masi, Danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico maschile: la Cassazione contro gli stereotipi di genere in famiglia, cit., pp. 814 ss.

[18] Corsivo mio.

[19] V. M. Di Masi, Danno patrimoniale, cit., p. 814.

[20] Affidato a un triplice ordine di considerazioni, rispettivamente, di tipo filosofico-culturale, giuridico e pragmatico. Scrive la Corte: “Tale motivazione è illogica per tre ragioni. La prima ragione di illogicità è che (a prescindere da qualsiasi considerazione circa l’esistenza o meno d’un ordine ‘naturale’ delle cose: felix qui potuit rerum cognoscere causas) non è certo madre natura a stabilire i criteri di riparto delle incombenze domestiche tra i coniugi. Tale riparto è ovviamente frutto di scelte soggettive e di costumi sociali, le une e gli altri nemmeno presi in considerazione dalla Corte d’appello. La seconda ragione di illogicità consiste nel fatto che l’affermazione della Corte d’appello è contraria al fondamentale principio giuridico di parità e pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, sancito dall’art. 143 c.c., commi 1 e 3: ed in mancanza di prove contrarie, che sarebbe stato onere dei convenuti addurre e che non furono addotte, è ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto che il contrario. La terza ragione di illogicità della motivazione della Corte d’appello consiste nel fatto che secondo l’id quod plerumque accidit qualunque persona non può fare a meno di occuparsi di una certa aliquota del lavoro domestico: non foss’altro per quanto attiene le proprie personali esigenze. Pertanto dal fatto noto che una persona sia rimasta vittima di lesioni che l’abbiano costretta ad un lungo periodo di rilevante invalidità, è possibile risalire al fatto ignorato che a causa dell’invalidità non abbia potuto attendere al menage familiare. La Corte d’appello, invece, ha capovolto tale deduzione logica, assumendo che dal fatto noto del sesso (maschile) dell’infortunato fosse possibile risalire al fatto ignorato che egli si disinteressasse completamente di qualsiasi attività domestica”.

[21] Il GREVIO è un organismo indipendente di controllo dei diritti umani avente il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul da parte degli Stati membri che l’hanno sottoscritta. Il gruppo si compone di 15 tra esperti ed esperte indipendenti e imparziali, nominati sulla base delle loro competenze nel campo dei diritti umani, dell’uguaglianza di genere, della violenza nei confronti delle donne e/o del supporto e della protezione alle vittime. Le attività istituzionali del GREVIO comprendono un monitoraggio Paese per Paese della Convenzione di Istanbul (procedura di valutazione), l’avvio di indagini su una delle parti contraenti della convenzione (procedura d’indagine) e l’adozione di raccomandazioni generali sugli argomenti ed i concetti espressi dalla convenzione.

[22] Il testo della “Relazione” è stato adottato il 15 novembre 2019 e pubblicato il 13 gennaio 2020.

[23] Con la tendenza a “ridurre la violenza nelle relazioni intime a un conflitto: a considerare a priori entrambe le parti responsabili della violenza, ignorando lo squilibrio di potere generato dall’uso della violenza stessa, [con] una tendenza a dare credito agli stereotipi ed ai luoghi comuni che vedono la relazione intima intrinsecamente basata sulla sottomissione/dominio, la possessività; secondo cui automaticamente una moglie/partner che si avvia verso la separazione è una donna che vuole vendicarsi, che cerca di danneggiare e punire il partner” (pag. 14).

[24] “Nelle sue Osservazioni conclusive nel settimo rapporto periodico sull’Italia, il Comitato CEDAW, a tal riguardo, ha posto l’accento sui “consolidati stereotipi relativi al ruolo e alle responsabilità delle donne e degli uomini all’interno della famiglia e della società, che perpetuano la visione tradizionale delle donne come madri e casalinghe, pregiudicando la loro posizione sociale e le loro prospettive educative e di carriera”, ma anche sulla “crescente influenza delle organizzazioni maschili all’interno dei mass-media, che rappresentano le donne con stereotipi negativi”.

[25] Si tratta dell’affaire J.L. c. Italie (Requête no. 5671/16) deciso a Strasburgo il 27 maggio 2021 (reperibile su https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-210299%22]})

[26] Sul punto, la Corte di Cassazione italiana ha già da tempo sottolineato come “gli specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato il sospetto che la vittima di reati sessuali dichiari il falso non possono consistere nelle sue abitudini sessuali, nel suo modo di vivere la propria corporeità, di concepire il sesso e la vita sessuale in generale, in una parola: nei suoi costumi sessuali. Si tratta di regola di giudizio espressamente vietata in quanto tale. È vero che la vita privata e la sessualità della persona offesa rilevano se/e quando ciò sia necessario alla ricostruzione del fatto (art. 472, comma 3-bis, cod. proc. pen.) ma su questo punto bisogna evitare equivoci: nella ricostruzione del fatto, la vita sessuale della persona offesa non può mai essere utilizzata quale argomento di prova dell’esistenza, reale o putativa, del consenso. Il consenso all’atto deve essere reale, non può essere presunto, deve permanere per tutta la durata dell’atto stesso e le modalità della sua espressione non possono essere modulabili in base ai costumi sessuali della vittima (Cass. pen., Sez. 3, Sentenza n. 46464 del 09/06/2017).

Altrove, la nostra Corte Suprema ha sottolineato come, ai fini della valutazione della credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa che denuncia atti di violenza, il giudice non può dar rilievo al suo aspetto fisico, trattandosi di elemento del tutto irrilevante e non decisivo per vagliarne l’attendibilità (Cass. pen., Sez. 3, n. 15683 del 05/03/2019), finendo col ricondursi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui deve ritenersi affetta da vizio di motivazione la decisione del giudice di merito che, fondandosi apparentemente su una massima di esperienza, in realtà valorizza un mero convincimento soggettivo (cfr. Cass., pen., Sez. 4, n. 23093 del 02/02/2017).

[27] Non sarà inutile ricordare come, in calce alla sentenza della Corte di Strasburgo, sia stata riprodotta la dissenting opinion dell’unico giudice (su sette) contrario alla decisione di condanna dell’Italia (il giudice Krzysztof Wojtyczek). Nel suo testo, il giudice Wojtyczek ha rilevato una contraddittorietà logica nella decisione della corte europea (l’affermazione che le autorità nazionali “non hanno protetto la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria nel corso del procedimento, è in contraddizione logica con la […] frase, che afferma che le autorità nazionali hanno assicurato in questo caso che l'indagine e il procedimento sono stati condotti nel rispetto degli obblighi positivi derivanti dall'articolo 8 della Convenzione”); e ha evidenziato come “i giudici nazionali hanno dovuto stabilire circostanze di fatto di grande complessità, che per loro natura erano di natura privata, e valutare la questione del consenso della presunta vittima. Dovevano anche definire, prima di tutto, il perimetro delle circostanze rilevanti del caso. Esercitando il suo potere in questo senso, la Corte d'Appello di Firenze ha ritenuto che per esaminare la causa penale era essenziale stabilire alcuni elementi di fatto appartenenti a un contesto più ampio, comprendente eventi precedenti o successivi agli atti in questione, come indicato nelle accuse. Inoltre, la Corte d’appello ha dovuto valutare i fatti del caso nel loro specifico contesto culturale, quello della società italiana contemporanea. […] L’approccio del giudice nazionale non sembra essere viziato da arbitrarietà. Le osservazioni lamentate devono essere lette nel contesto dell'insieme degli argomenti su cui si basano le motivazioni della sentenza di assoluzione. L’approccio adottato dalla maggioranza può portare a mettere in discussione i diritti della difesa, che può avere un interesse legittimo, in vista di una decisione giudiziaria favorevole, a stabilire nel corso del procedimento alcuni elementi di fatto molto sensibili relativi alla vita privata e a farli confermare nella motivazione della sentenza pronunciata. […] La maggioranza ha criticato i giudici italiani (paragrafo 140 della sentenza) per il linguaggio e gli argomenti usati dalla Corte d'appello che trasmettono i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana. Tuttavia, questa critica non è supportata da alcun argomento. In particolare, non si spiega quali pregiudizi sul ruolo delle donne siano trasmessi dalla Corte d’appello. Noto, inoltre, che nel caso in questione la Corte d'appello di Firenze si è pronunciata in un collegio di tre giudici che soddisfano i criteri di equilibrio di genere (due donne, compreso il giudice relatore, e un uomo). […] Nel paragrafo 141, la maggioranza critica le affermazioni colpevolizzanti e moraleggianti che possono scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario. Questa critica dà luogo a due osservazioni. In primo luogo, le dichiarazioni lamentate (citate nel paragrafo 136, ma prese fuori contesto) sono proposizioni di fatto e non giudizi di valore. La maggioranza non spiega perché queste affermazioni fattuali sono descritte come colpevolizzanti e moraleggianti. In secondo luogo, le espressioni usate dalla Corte sono di per sé dichiarazioni colpevolizzanti e moralizzatrici, questa volta rivolte ai giudici italiani. Inoltre, non favoriscono la fiducia nella giustizia”. Polemicamente, il giudice Wojtyczek conclude: “la Corte continua ad esprimere la sua scelta a favore della cultura della pena come strumento principale per combattere varie violazioni dei diritti umani (si confronti anche il paragrafo 20 dell’opinione in parte dissenziente e in parte concurring del giudice Koskelo, unita ai giudici Wojtyczek e Sabato, allegata alla sentenza Penati c. Italia, n. 44166/15, 11 maggio 2021). L’approccio adottato amplifica il vento illiberale che soffia a Strasburgo, brillantemente denunciato dal giudice Pinto de Albuquerque nel suo parere separato allegato alla sentenza Chernega e altri c. Ucraina, n. 74768/10, 18 giugno 2019”.

[28] Su cui v. Cass. civ., sez. 1, 20 luglio 2015, n. 15138, in Giur. It., 2016, 1, pp. 63 ss., con nota di L. Attademo, La rettificazione del sesso non presuppone l'adeguamento dei caratteri sessuali primari. Sulla medesima pronuncia v. i commenti di G. Casaburi, La Cassazione sulla rettifica di sesso senza intervento chirurgico "radicale". Rivive il mito dell’ermafroditismo? in Foro It., 2015, 1, pp. 3138 ss.; P. Cavana, Mutamento di sesso o di genere? Gli equivoci di una sentenza, in Dir. fam, pers., 2015, 1, pp. 1279 ss.; F. Bartolini, Per la rettificazione anagrafica del sesso l’intervento chirurgico non è più necessario, in Dir. civ. contemporaneo, 2015, fasc. 3; D. Amram, Cade l'obbligo di intervento chirurgico per la rettificazione anagrafica del sesso, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 1, pp. 1068 ss.; F. Bartolini, Rettificazione del sesso e intervento chirurgico: la soluzione in un'interpretazione ‘costituzionalmente orientata’, in Corr. Giur., 2015, pp. 1349 ss.; E. Marmocchi, Identità di genere, identità personale e identificabilità, in Notariato, 2016, pp. 129 ss.

[29] D. Carusi, L’ordine naturale delle cose, Torino, Giappichelli, 2011.

[30] Op. ult. cit., pag. 127.

[31] Op. ult. cit., pp. 127 ss. I passaggi in corsivo sono tratti da U. Scarpelli, Bioetica laica, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, pp. 44 s.

[32] G. Zagrebelsky, Il diritto di Antigone e la legge di Creonte, in M. Cacciari - L. Canfora - G. Ravasi - G. Zagrebelsky, La legge sovrana, Milano, Rizzoli, pp. 36 s.

[33] D. Carusi, op. cit., p. 130. Nel testo si richiama il titolo del saggio di P.A. Boghossian, Fear of knowledge. Against relativism and constructivism, Oxford, Oxford University Press, 2006, trad it. A. Coliva, Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, Roma, Carocci, 2006.

[34] D. Carusi, loc. ult. cit.

[35] Loc. ult. cit.

[36] Op. ult. cit., pp. 132-133.

[37] Carlo Levi, Il futuro ha un cuore antico, Torino, Einaudi, 1956.

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