Franco Benigno, ordinario di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nella sua precedente opera dal titolo “La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878” (Einaudi, 2015) aveva rilustrato il rapporto fra il neonato Stato italiano e la criminalità organizzata avvalendosi delle fonti, poliziesche giudiziarie e giornalistiche dell’epoca.
Nel recente “L'Italia Come Storia: Primato, Decadenza, Eccezione” (Viella, 2020), scritto assieme a Igor Mineo, docente di Storia medioevale nell’Università di Palermo, si interroga circa il metodo e il merito dell’indagine storiografica sull’Italia, sul carattere degli italiani e sulla loro presunta ‘eccezione’ rispetto alle virtù delle altre genti, anche considerando che i rivolgimenti successivi al 1989 hanno cambiato profondamente la prospettiva sulla storia dell’Italia.
Su questo tema è centrato l’articolo da lui scritto per Giustiziainsieme
Superare l’eccezionalismo come visione della storia d’Italia
Fra pratica storiografica e polemica pubblica il canone nazionale italiano, ovvero un insieme di temi e problemi fondamentali relativi all’identità storica del paese, si aggira nella sfera pubblica e nei testi accademici, sia pure ormai solo come spettro. Esso tiene assieme, come due facce della stessa medaglia, discorsi sul primato e discorsi sul ritardo o sulla decadenza, con l’avvertenza che, sul lungo periodo, questi ultimi si sono rivelati più̀ resistenti e influenti dei primi. Il suo principale segno di riconoscimento è in una forma di eccezionalismo, che non consiste solo nell’idea di una storia speciale, peculiare e distinta da quella del resto del mondo ma in qualcosa di più: la fisionomia dell’Italia di oggi, e soprattutto i suoi mali, vi appaiono non come l’effetto di una serie di condizioni rintracciabili nel presente o nel passato recente, ma come il risultato di un sedimentato deposito di tare originarie, tali da definire una contorta morfologia storica.
La genealogia esplicativa per via d’eccezione ha goduto negli ultimi anni di una rinnovata fortuna nell’opinione pubblica. Connessa a bisogni politici immediati, oltreché a un diffuso sentire collettivo, essa tende a raccontare la vicenda del paese come un succedersi di vuoti e di carenze, di ritardi e di mancanze, rimandando a un «peccato originale», identificato nei modi più̀ vari, tra cui la mancanza vuoi di una riforma protestante, vuoi di una vera rivoluzione, vuoi di un’autentica dimensione statuale. Più spesso l’essenza di tale fenomeno è stata identificata in un presunto «carattere degli italiani», espresso da una serie di tratti perniciosi quali l’individualismo, l’intelligenza furbesca, lo scarso senso civico, il familismo e, sul piano politico, il conformismo delle élites e il radicato quietismo delle maggioranze di governo. Ne è risultato una sorta di patriottismo alla rovescia, un atteggiamento pesantemente autocritico spinto fino alla fustigazione di sé e addirittura al sentimento dell’intima vergogna nel dirsi italiani
Soprattutto, nel caso italiano il senso comune eccezionalista ha imposto agli intellettuali la funzione non di interpreti dei processi della modernizzazione economico-sociale e politico-istituzionale del paese, ma di denunciatori dei ritardi e delle insufficienze di quegli stessi processi, della progettualità sconfitta, delle riforme inattuate e delle rivoluzioni mancate. La formula dell’«ideologia dell’assenza» risulta azzeccata: la tendenza, evidente già agli inizi del XX secolo (senza risalire più indietro, come sarebbe possibile, a Leopardi per esempio), a leggere la storia d’Italia come marcata da ciò che non è molto più che da ciò che è, dai vuoti più che dai pieni.
In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità, il nucleo profondo di tali tendenze sarebbe risultato ancora visibile, e con esse l’antica querelle sulle radici profonde del fascismo nei vizi antichi della nazione italiana. E’ proprio di questi anni una storiografia di successo che, insieme alla contestazione della tradizionale storia etico-politica e di una retorica celebrativa divenuta col tempo stantia, recupera parti significative del paradigma rielaborando, su basi metodologiche aggiornate, la continuità tra Risorgimento e fascismo: riafferma così qualcosa tradizionalmente rivendicato da parte dell’Italia d’opposizione, l’idea dello Stato nazionale come “manufatto incompiuto”, incapace di integrare le varie parti del paese, e in specie del Meridione, in un insieme organico.
L’altro terreno decisivo di incubazione dell’eccezionalismo è stato certamente quello dell’economia. Ricostruirne la storia ha significato a lungo discutere sulle insufficienze del processo unitario, inquadrate in un retroterra di lungo o lunghissimo periodo, segnato dal ristagno o dalla decadenza. È facile oggi notare come in questi discorsi economici la prospettiva unitaria proiettata all’indietro risulti, se possibile, ancora più incongrua di quella concentrata sui fenomeni politici, tanto differenziata risulta la mappa delle economie preindustriali in termini di capacità produttiva, di attitudini al consumo, e di modi di integrazione in reti di mercato multiformi, una mappa che con l’ordinata silhouette della penisola non ha alcuna attinenza sensata.
Naturalmente, se dalla politica e dall’economia si sposta sulla società lo sguardo eccezionalista trova facilmente appigli per ulteriori elaborazioni. Basti pensare alla famiglia, spesso identificata come la causa causans dei guasti della vita pubblica del paese, una sorta di dato di fondo esplicativo della tanto deprecata mancanza di solidarietà e di partecipazione civica. Quante volte è stata declinata la rappresentazione della famiglia italiana come trincea, ghetto egoista, impedimento a un compiuto approdo alla modernità? Oppure quella speculare di un’Italia spezzata, in cui la distanza tra Nord e Sud rimane incolmabile non solo per le congiunture politiche ed economiche, ma in ragione dei processi divergenti di strutturazione dei sistemi parentali?
Il dualismo Nord/sud, la visione della penisola come la giustapposizione di due mondi contrapposti: è indubbio che sia questo uno dei capitoli cruciali del ricco repertorio dell’Italia come eccezione. Stella polare per molto tempo del meridionalismo classico, durante la crisi politica della cosiddetta prima Repubblica, esso è divenuta anche qualcos’altro, il grimaldello su cui far leva per la costruzione della cosiddetta «questione settentrionale». Gli anni Novanta, cioè, quelli in cui è venuta montando la preoccupazione collettiva per la “disunione d’Italia” sono stati anche quelli in cui il Meridione, sorta di quintessenza dei mali del paese, è divenuto il luogo di concentrazione dei timori per il declino nazionale, l’ambiente di propagazione del contagio malefico, l’inferno.
Così, al tradizionale vittimismo meridionale, invocante l’intervento straordinario in ragione dei torti storici inflitti dall’unificazione al Mezzogiorno, ha fatto seguito, come una sorta di copione invertito o di spartito rovesciato, un vittimismo settentrionale di nuovo conio, l’idea di un Nord bloccato dalla «palla al piede» meridionale, e impossibilitato perciò a dispiegare le sue potenzialità virtuose, non solo economiche ma anche implicitamente morali.
Oggi questo momento, in una diversa stagione politica, sembra superato e l’ansia collettiva si rivolge di nuovo alle sorti generali del paese. Colpisce tuttavia il fatto che rimanga inarticolato un ragionamento su quanto simili siano state storicamente la narrazione sull’Italia intera (la sua cultura, il suo “carattere”) e quella sul Meridione del paese (la sua cultura, e anche qui, il suo “carattere”). Si può dire di più. Non appena si scrostano le parole, solo apparentemente dissimili, ci si accorge con chiarezza che si tratta di variazioni sul tema, che ci si appoggia sulla stessa scala valoriale, che si adopera la stessa tavolozza di colori. Ci si rende conto, in altre parole, che il “familismo” è, per il dibattito sulla specificità negativa del Meridione, più o meno ciò che il “particolarismo” rappresenta come singolarità negativa dell’Italia in generale. E ancora, che il “gattopardismo” è per il Sud del paese quel che il “trasformismo” è per l’Italia nel suo insieme. Questo perché tutte queste narrazioni appartengono a uno stesso registro discorsivo polarizzato, quello che definisce in un sistema sociale ciò che è giusto, bello e buono come opposto a ciò che è sbagliato, brutto e cattivo.
Risulta evidente, dopo che se ne sono definiti i contorni, che il paradigma dell’eccezionalismo italiano costituisce in realtà una sorta di costellazione fatta di astri di diversa natura e intensità, alcuni fissi, altri intermittenti. Ciò che forse si può affermare, alla fine, è che l’unico carattere relativamente eccezionale della storia d’Italia è costituito dalla continuità di una riflessione ancipite, di taglio inguaribilmente negativo o superbamente rivendicativo, sulle debolezze del paese e sui vizi che ne connoterebbero la natura, o all’opposto sulla sua speciale funzione di battistrada nei processi di civilizzazione; di una riflessione, in ogni modo, concentrata su una irregolarità. Prevalendo, da circa un secolo e mezzo, il segno negativo di tale irregolarità, «italiano» è diventato alla fine uno stigma, come si è visto, fatto oggetto di lamentazioni ripetute, che hanno assunto non di rado una sofferta intonazione autodistruttiva: il «dolore di essere italiani» comporta automaticamente l’identificazione con una serie di comportamenti deprecabili di cui ci si vergogna, con la conseguenza paradossale che, com’è stato osservato, «italiani sono sempre gli altri».
In conclusione. Per capire come si esce dalla crisi del “canone nazionale”, vera per la storia d’Italia, ma non meno probante altrove, è assai probabile che occorra pensare la storia degli ultimi secoli su una scala diversa, e che forse a un rinnovamento duraturo occorrerebbe un più avanzato processo di costruzione di una «storia d’Europa». Diventerebbe così più praticabile un punto di vista sul passato che non si limitasse a indagare, comparativamente, influssi culturali reciproci, prestiti istituzionali, condizionamenti politici fra aree e fra paesi, mescolanze e concorrenze fra fedi e credi, ma che guardasse in modo integrato alla nascita e alla diffusione di modelli economici e imprenditoriali, di forme di statualità e di disciplinamento, di urbanizzazione, di sistemi di appartenenza e di identificazione collettiva, e così via, cioè dei caratteri che sembrano potere connotare il continente come spazio storicamente intellegibile.
Forse non viviamo un momento favorevole a una simile impresa. I processi di ri-nazionalizzazione sembrano segnare il nostro presente. Sicché v’è da chiedersi quali effetti potrebbe produrre sull’indagine del passato comune europeo il ritorno a letture in chiave statual-nazionale o peggio, etnico-identitaria, condite magari da qualche apertura alla visione globale. Riattivare per davvero la lente del nazionalismo storiografico è, in realtà, molto difficile; è certamente alto tuttavia il rischio che rallenti molto la costruzione dell’unica dimensione che potrebbe ridare senso a una storia, e per noi a una storia d’Italia, sviluppata in chiave non eccezionalista ma critica, la dimensione europea.