Diritto e società
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La crisi della magistratura: origine e possibili rimedi di Aniello Nappi

La crisi della magistratura: origine e possibili rimedi

di Aniello Nappi
1. La magistratura vive oggi la più grave crisi nella storia della Repubblica. E’ una crisi di credibilità, nel rapporto con la società e con le altre istituzioni. E’ una crisi di identità, che interpella ciascun magistrato sulle responsabilità individuali e collettive per linguaggi e comportamenti quantomeno imbarazzanti.
Tutti denunciano la degenerazione delle correnti in cui si articola l’Associazione nazionale magistrati, che da espressioni di autentico pluralismo culturale e professionale si sono ridotte a centri di potere clientelare. Ma non mi pare che siano adeguate le idee sulle cause di questa involuzione.
Vladimiro Zagreblesky ha scritto che «per un consigliere del Consiglio superiore della Magistratura clientelare vi sono decine di clienti»; sicché «il problema vero» sono i clienti, perché «il consigliere è persona di servizio, che passa le sue giornate a soddisfare coloro che lo hanno eletto». Analoga è in definitiva l’analisi di Magistratura democratica: «la degenerazione del sistema ha molti responsabili e protagonisti, ma alla radice vi è una straordinaria ripresa della carriera e del carrierismo»; perché «solo in questo modo si può … spiegare l’attenzione spasmodica di molti magistrati per gli incarichi direttivi e semi direttivi che emerge dai fatti di Perugia».
Ora queste diagnosi non sono certo inattendibili, perché non v’è dubbio che in prospettiva etica il problema vero sia la domanda, non l’offerta: senza lo scarso senso morale dei cittadini non vi sarebbe la degenerazione dei partiti e della democrazia; il ceto politico sarebbe di qualità se non vi fosse la disponibilità a scambi elettorali.
Ma qui si pone un problema politico, non una questione morale. Le individuali ambizioni di carriera c’erano forse ancor di più quando l’organizzazione della magistratura rispondeva a quei criteri verticistici contro i quali si batté l’ANM, pur con la diversità di accenti che ne determinò appunto l’articolazione in contrapposte correnti culturali. Da anni si assiste invece a una sostanziale omogeneizzazione dei gruppi associativi su posizioni corporative, frequentemente in palese e piena incoerenza con le proclamazioni valoriali e programmatiche. E la omologazione si aggrava ovviamente nell’imminenza delle scadenze elettorali, perché gli apparati dirigenti dei gruppi tendono a inseguire il consenso sul più facile terreno della tutela degli interessi corporativi piuttosto che su quello certamente più impegnativo della cultura istituzionale e della capacità progettuale.
Sempre più frequentemente i magistrati operano infatti in condizioni di lavoro molto difficili. Si tende perciò a garantire il magistrato come “lavoratore” piuttosto che come istituzione.
Se si scorrono gli ordini del giorno del CSM si può constatare che le delibere del plenum sono quasi sempre approvate all’unanimità della componente togata sulle questioni di “amministrazione della giurisdizione”: come le incompatibilità parentali, le coassegnazioni a più uffici giudiziari, il rispetto dei termini per l’esercizio dell’azione penale, i “carichi esigibili” e gli standard di rendimento, le valutazioni di professionalità.
Nulla autorizza certo alla qualunquistica conclusione che “sono tutti uguali”; ma le distinzioni non possono rimanere affidate al solo criterio dell’onestà, se si vuole ribadire la legittimazione culturale dell’articolazione in correnti.
Anche i gruppi tradizionalmente più impegnati in una prospettiva istituzionale, di tutela della funzione a garanzia del sistema democratico, hanno rinunciato ormai a contrastare la deriva della sindacalizzazione, perché temono di perdere consensi elettorali. Svuotate così di effettività le contrapposizioni culturali e programmatiche, la competizione per il consenso elettorale si riduce alla contesa per gli incarichi ambiti.
Ed è qui che nasce il carrierismo, anche perché per l’aggiudicazione degli incarichi più contesi non sempre è sufficiente l’appartenenza all’una o all’altra corrente. Sempre più frequentemente è il “merito sindacale” il titolo decisivo che premia l’ambizione dei concorrenti, nel rispetto di un peculiare cursus honorum.
Tappe fondamentali di queste carriere parallele sono frequentemente i collocamenti “fuori ruolo”, vale a dire la destinazione all’esercizio di funzioni non giudiziarie presso pubbliche amministrazioni, in particolare il Ministero della Giustizia ma non solo, o altre istituzioni di rilievo costituzionale, come lo stesso Consiglio superiore della magistratura, le commissioni parlamentari o la Corte costituzionale. Infatti sono i rappresentanti delle correnti che hanno occasione di incontri con il mondo della politica, dal quale provengono per lo più gli incarichi extragiudiziari. Vi sono poi anche gli esoneri parziali o totali dal lavoro giudiziario per circa quattrocentocinquanta magistrati, che vengono decisi per lo più dai gruppi consiliari. Un inventario completo di questi esoneri è stato tentato; ma pare che non sia possibile, perché le ragioni che li giustificano sono le più varie: dalla partecipazione ai consigli giudiziari, il ruolo istituzionale che maggiormente giustifica l’esonero, agli incarichi di referenti per l’informatica o di esperti internazionali di lungo periodo o di formatori decentrati.
In particolare dal fuori ruolo consiliare, come magistrati addetti alla Segreteria o all’Ufficio studi selezionati da ciascuna corrente in proporzione del rispettivo consenso elettorale, si passa alla Cassazione, con preferenza per la Procura generale, o si assume un incarico associativo o di corrente, per poi tornare in Consiglio come componenti. Tutto ciò avviene benché tutti i gruppi si dichiarino contrari alle “carriere parallele”.
In particolare il ruolo di esponente dell’associazione o di una corrente è la premessa migliore per ottenere la candidatura al CSM. E questo incide in misura significativa sulle caratteristiche personali e professionali di molti componenti del Consiglio.
L’esperienza al CSM costituisce poi titolo privilegiato per incarichi direttivi. La competitività tra magistrati si è così trasferita sul piano dell’impegno sindacale: è in questo contesto che si coltivano le speranze, se non i timori, vanificando l’ideale originario del magistrato sine spe ac metu. Anche perché si evita accuratamente che si diano occasioni per distinzioni e comparazioni sul piano del lavoro giudiziario, con la conseguenza di privare il CSM di dati e informazioni da valutare quando si tratta di conferire incarichi ambiti, lasciando che prevalgano appunto le possibili referenze sindacali e comunque le appartenenze.
Sarebbe in realtà del tutto ragionevole che ciascuno degli orientamenti culturali rappresentati in CSM potesse far valere il proprio modello di dirigente. Ma occorrerebbe tradurre questi diversi modelli in criteri di selezione, ordinandoli per priorità. E confrontarsi su questi criteri, senza che risultino determinanti l’appartenenza o il curriculum sindacale dei candidati.
Sarà casuale, e comunque di per sé non è certamente negativo, ma gli attuali vertici della Corte di cassazione vantano tutti esperienze al Consiglio superiore della magistratura.

2. Sono diverse le proposte di riforma avanzate per far fronte a questa situazione.
Dal mondo dell’avvocatura viene con insistenza riproposta la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, senza considerare che, a parte ogni altra implicazione, ne conseguirebbe una moltiplicazione dei centri di potere clientelare.
Dal mondo della politica viene la proposta di istituire una corte disciplinare esterna al CSM, comune a tutte le magistrature. Ma questa riforma, che presupporrebbe il riconoscimento di piena indipendenza interna anche ai magistrati amministrativi, non avrebbe influenza alcuna sul ruolo delle correnti all’interno del CSM, come non lo avrebbe il parziale prolungamento della durata del mandato consiliare o la nomina del vicepresidente da parte del Capo dello Stato.
Maggiore efficacia potrebbe avere una riforma del sistema elettorale del consiglio, resa peraltro necessaria dal totale fallimento del sistema attuale, che ha permesso agli apparati correntizi una preventiva spartizione dei seggi.
Esclusa l’adeguatezza di un sistema elettorale maggioritario, incompatibile con un collegio destinato a maggioranze variabili, sarebbe preferibile un sistema elettorale a doppio turno, che imponga di eleggere al primo turno un numero predeterminato di candidati per ciascuno dei distretti di corte d’appello: al secondo turno sarebbero così in competizione molti più candidati, con una selezione più aperta e non ingessata dagli apparati di corrente. Ma certamente ragionevole è anche la proposta del prof. Silvestri, per un sistema elettorale analogo a quello un tempo in vigore per il Senato.
Anche la riforma del sistema elettorale, benché certamente necessaria, sarebbe tuttavia insufficiente, se le correnti, o almeno taluna di esse, non recuperassero l’originaria ispirazione progettuale.
Si tratterebbe in definitiva di scommettere sulla sensibilità istituzionale dei magistrati, confidando che il loro voto non sia determinato solo dall’aspettativa di una tutela corporativa. Non è detto che un confronto aperto con la prospettiva sindacale, che risulterebbe comunque significativamente rappresentata, debba segnare necessariamente la sconfitta di una prospettiva istituzionale. Sarebbe così possibile affrancare dal vincolo di corrente gli uffici ausiliari del CSM, segreteria e ufficio studi, reclutandone per concorso il personale, come del resto avviene per i funzionari parlamentari.
Oggi occorre comunque il coraggio di immaginare il futuro, per proporre un modello professionale di magistratura, ragionevolmente alternativo al modello burocratico e impiegatizio imposto dalla sindacalizzazione.
Infatti è appunto la logica sindacale, della tutela a qualsiasi costo del lavoratore magistrato, a spingere il CSM verso un irrimediabile declino. E questo declino, dagli sbocchi imprevedibili anche per la tenuta dell’intero sistema democratico, non potrà essere arrestato se la magistratura non sarà in grado di acquisire nuovamente una prospettiva istituzionale, superando decisamente l’attuale autorappresentazione corporativa.
Aniello Nappi

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