Il formalismo in Cassazione
di Bruno Capponi
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo resa lo scorso 28 ottobre nell’affaire Succi et autres c. Italie, che riunisce tre diverse denunzie di violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione (diritto di accesso a un tribunale) una soltanto delle quali è stata giudicata fondata, è un campanello di allarme che non suona soltanto all’interno del Palazzaccio. Abbracciata da anni la logica del respingimento, il nostro legislatore ha infatti disseminato in modo un po’ casuale per i vari gradi fattispecie di inammissibilità, non rispondenti a una logica unitaria e a volte neppure troppo chiare nel lessico (il prototipo-modello negativo ci sembra debba continuare a essere l’art. 348-bis c.p.c.), la cui sola funzione è quella di scoraggiare e sanzionare l’accesso alle corti. Addirittura dinanzi al giudice di primo grado vediamo moltiplicarsi le pronunce di “inammissibilità” (che nascondono valutazioni sanzionatorie dell’accesso stesso al giudice), al punto da potersi far capo a una nuova categoria (un tempo neppure immaginabile) oggetto di analisi scientifica: v., con profitto, A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, Napoli, 2018 (e, per chi fosse interessato, la mia recensione in Rass. esec. forz., 2019, 570 ss.). Lo scoraggiamento-respingimento può assumere diverse declinazioni: ad es., nel testo del d.d.l. 1662 approvato dal Senato il 21 settembre 2021 si prevede (art. 5, lett. p), nn. 1, 2 e 3) che il giudice possa, all’esito della prima udienza, emettere una incomprensibile ordinanza provvisoria di rigetto (reclamabile e inidonea al giudicato) se i requisiti di cui ai nn. 3 e 4 dell’articolo 163 c.p.c. non siano indicati in modo certo ed esaustivo nell’atto introduttivo: ciò che sinora ha costituito una nullità sanabile (sia pure con le conseguenze descritte nel comma 5, ultimo periodo, dell’art. 164 c.p.c.) domani condurrà senz’altro al rigetto in limine della domanda: che vale appunto e solamente quale deterrente e sanzione, perché quella stessa domanda potrà essere di nuovo esercitata (con buona pace del principio di economia), non trattandosi di rigetto nel merito (cui prodest?).
Quindi il problema che abbiamo dinanzi non è certo esclusivo della Corte di Cassazione: piuttosto, va preso atto che essa è l’organo di vertice di una giurisdizione che, di questi tempi, tende a esaltare la funzione deterrente e sanzionatoria delle norme processuali e soprattutto delle loro interpretazioni. E non va trascurato che, nell’avvelenato clima “di sistema”, ogni magistratura ci mette del proprio: proponendo spesso ricostruzioni tendenti a somministrare la lezione più irragionevolmente ostruzionistica delle norme che applica (ad es., inventando decadenze dove non ci sono, strozzando la trattazione dei giudizi e così moltiplicandone il numero). La logica del respingimento è quella della cittadella assediata: un colpo tira l’altro, nella speranza che arrivi, magari casualmente, quello che possa mettere definitivamente in fuga il nemico.
La Cassazione, oggi, dinanzi alla condanna della CEDU potrebbe ripetere quel che un noto politico ebbe a dire agli inizi di tangentopoli: “è una disgrazia che è capitata a me”. Ma che, se la musica non cambia, potrebbe capitare indiscriminatamente a molti altri giudici: a iniziare dalle corti d’appello, del resto apertamente provocate, dal perverso legislatore dell’estate 2012, a tenere comportamenti ben peggiori di quelli ora sanzionati a Strasburgo e che fortunatamente le corti di merito non si sono convinte a osservare (dopo un primo periodo di comprensibili sbandamenti).
Venendo al caso di specie: non c’è dubbio che il formalismo è stata l’arma che la Cassazione ha spesso brandito per proteggere se stessa e quella giurisprudenza d’élite, cui aspira, che si definisce “nomofilattica”; e ripetiamo cose note nell’affermare che tale atteggiamento è stato indotto dalla colpevole inerzia del legislatore, il quale ha anzitutto consentito che la Corte fosse travolta dall’inefficienza della pubblica amministrazione (la sezione tributaria, la lavoro, la prima e la terza vedono frequentemente quale parte in giudizio la p.a.); al tempo stesso, nulla ha fatto per correggere l’ambiguità e scorrettezza di quei testi legislativi che la stessa Corte, organo di vertice, dovrebbe interpretare “nomofilatticamente” e che invece assai spesso creano contrasti addirittura all’interno delle sezioni.
Il formalismo, diceva Satta (Prefazione alla quinta edizione del Diritto Processuale Civile, 1956), «non è altro che una manifestazione di paura: paura del giudizio, della grande opzione tra i due interessi in contrasto. Si direbbe che nel Giudice, accanto al dovere funzionale di giudicare, vibri l’eco paralizzante del nolite judicare. Paura, dunque, sacrosanta nelle sue origini, ma che non legittima le evasioni. L’evasione e il formalismo, il risolvere il giudizio in termini di processo, il rigetto della responsabilità del giudizio sulla norma». Un giudice che non giudica, e che si pone alla ricerca degli artifizi che gli consentono di non giudicare nel merito, è un giudice che mette seriamente in crisi la sua stessa funzione.
La posizione di Satta ci sembra ormai una romanticheria consegnata alla storia.
Occorre infatti intendersi bene su cosa sia il formalismo giudiziario: perché esso può manifestarsi nell’interpretazione disfunzionale di un testo normativo, come pure nella creazione di regole disfunzionali. Non dimentichiamo che la Corte è un giudice che facilmente crea diritto, e in particolare può creare quel particolare diritto che regola le modalità stesse di accesso al giudizio di legittimità.
La Corte di Strasburgo, nel suo excursus un poco burocratico sulle nozioni di autonomia e autosufficienza, ricorda i “quesiti di diritto” introdotti nel 2006 e abrogati a furor di popolo nel 2009 (ma irragionevolmente lasciati in vita in via transitoria). In questo c’è un chiaro vizio di prospettiva. La ragione che spinse il legislatore delegato del 2006 a introdurre i “quesiti di diritto” non intendeva consentire alla Corte la selezione dei ricorsi sul riflesso del più vieto formalismo; la ragione vera, esplicitata nella bozza Brancaccio-Sgroi del 1988 (art. 7) e nella connessa Risoluzione del CSM (est. Borrè, in Foro it., 1990, V, part. c. 269-270), era da ricercarsi nell’esigenza di affinamento della tecnica di redazione dei ricorsi, in cui spesso «risultano affastellate una molteplicità di questioni sotto lo stesso mezzo di annullamento» cui corrispondeva, dal lato del giudice, «il diffondersi della formula di accoglimento del ricorso “per quanto di ragione”». Il CSM scriveva che a tale tecnica di mixing, dal lato del ricorrente come da quello del giudice, doveva sostituirsi, in un sistema di effettiva valorizzazione del precedente, «la scabra enunciazione della questione di diritto» e cioè, come la bozza Brancaccio-Sgroi appunto prevedeva, «la specificazione, per ciascun motivo, del quesito che si intende sottoporre alla corte» (all’interno del CSM taluno proponeva «la specificazione del principio di diritto di cui si chiede l’affermazione»).
Questa, e non altra, è stata la genesi dei “quesiti di diritto”, che non dovrebbero essere ricordati quando si parla della selezione dei ricorsi.
Una soluzione tecnica che avrebbe dovuto servire tanto alle parti (per scrivere ricorsi più chiari ed efficaci e, se vogliamo, meno ritagliati sugli atti dei precedenti gradi di merito) quanto alla Corte per decidere meglio, e cioè per affermare principi di diritto frutto dell’esame dei ricorsi nel merito dei singoli motivi, è stata invece utilizzata, dalla stessa Corte, come un (a volte impietoso e irragionevole) regolatore di contenzioso: il rubinetto che si poteva aprire o chiudere. In molte sentenze si è parlato di “filtro a quesiti”, esattamente come se i quesiti di diritto costituissero il dispositivo tecnico, finalmente accordato alla Corte, per operare al suo interno la selezione dei ricorsi.
Questo però non è formalismo; è piuttosto un tradimento del testo e dell’intentio legis, perpetrato per la realizzazione di fini che in nulla corrispondevano al disegno originario del legislatore. La giurisprudenza sui quesiti di diritto è una pagina davvero buia nella vita recente della Corte Suprema, almeno quanto fu una pagina davvero luminosa quella scritta negli anni Cinquanta a proposito del ricorso straordinario. E non mi sembra che dall’interno della Corte si sia (con umiltà e responsabilità) mai preso atto della gravità e illegittimità della giurisprudenza sui quesiti, che ha mandato al macero ricorsi fondati perché non rispondevano a prescrizioni formali che la Corte andana elaborando …strada facendo (finché il legislatore glielo ha permesso), magari a distanza di anni dalla redazione del ricorso.
E non è neppure formalismo l’abrogazione di fatto dell’art. 360-bis c.p.c., norma che evoca una funzione – la giurisprudenza “nomofilattica” della Corte – che nei fatti è difficilissimo identificare, almeno quanto risulta difficile comprendere cosa significhi «offrire elementi per confermare o mutare» quella stessa giurisprudenza (sul n. 2 dello stesso articolo caliamo un pietoso velo).
La verità è che il legislatore, ancora una volta, nulla ha saputo fare per dare una mano alla Corte di Cassazione: perché non è affatto detto che la selezione dei ricorsi debba essere un problema che la Corte si risolve da sola.
Lo stesso requisito dell’autosufficienza, che con molti sforzi si riesce ad ancorare a qualche novellata norma del c.p.c., e che in ogni caso è nato da un diritto appositamente creato dalla Corte per regolare l’accesso a se stessa, ha tuttora aspetti poco chiari.
Ad esempio, sfugge la ragione per cui la Corte non distingua tra letture obbligatorie e letture indotte dai motivi di ricorso coi loro riferimenti a produzioni documentali rinvenibili nel fascicolo (che notoriamente “non si tocca”). La lettura della sentenza impugnata è da ritenersi obbligatoria, perché non si può conoscere del ricorso senza leggere la sentenza impugnata. Eppure, si sente ripetere spesso che l’autosufficienza rileva non soltanto nel rapporto tra gli atti introduttivi (ricorso e controricorso) ma anche nel rapporto tra questi e la sentenza impugnata: al punto che viene dichiarato inammissibile il ricorso se la sua narrativa non specifichi quali erano stati i motivi di appello fatti valere avverso la sentenza di primo grado. Anche qui, siamo nel dominio del formalismo? A nostro avviso no, perché anche a voler predicare la ricorrenza di certi requisiti formali del ricorso, pur severamente interpretati, l’idea di pensare tali requisiti totalmente avulsi dalle letture obbligatorie proprie del giudizio di legittimità è qualcosa che va oltre il mero formalismo, essendo piuttosto espressione della funzione deterrente e sanzionatoria di cui s’è detto (dichiaro il ricorso inammissibile non perché non abbia capito di che si tratti, bensì perché il tuo atto, avulso dal contesto processuale, non mi mette in condizioni di comprenderlo).
Altro è il formalismo, insomma, altra la concezione del processo come trappola o labirinto: un campo minato in cui non è dato sapere con quale salvifico percorso ti salvi la pelle.
C’è un ulteriore elemento di origine pretoria, a cui la sentenza non dedica soverchia attenzione, che interessa il requisito di specificità del ricorso e dei singoli motivi. Di cosa si tratta? Per comprenderlo (o tentare di farlo) occorre leggere molte sentenze di legittimità, e spesso quella stessa lettura non potrà che moltiplicare i dubbi sulla portata effettiva del requisito. Al punto da aversi, a volte, l’impressione che si tratti di una componente residuale, che si richiama quando nessun’altra risulterà richiamabile di fronte all’esigenza di non decidere il ricorso nel merito. Anche qui, si esce spesso dal dominio del formalismo, per entrare di prepotenza in quello del diritto deterrente e sanzionatorio.
Dunque possiamo chiederci: è lecito chiamare formalismo tutto questo insieme di problemi affastellati gli uni sugli altri? A nostro avviso il formalismo presuppone l’esistenza di una norma, o quantomeno una regola chiara (la sentenza della CEDU sembra mettere sullo stesso piano il c.p.c., il c.p.a. e i protocolli firmati tra Cassazione e CNF), rispetto alle quali la lettura che il giudice opera è sì legittima (perché altrimenti vi sarebbe violazione di legge) ma disfunzionale e magari contrastante con altre norme; e al tempo stesso altre letture risulteranno possibili, giustificate sempre dal testo della norma, ma che appaiono più coerenti con la mens legis o con l’impianto complessivo derivante dalla considerazione anche di altre norme.
Quando però la regola viene volta per volta creata dalla Corte – quando cioè non siamo dinanzi a una regola bensì a un orientamento – può avvenire che il ricorrente non sappia quale preciso adempimento deve realizzare perché il suo atto venga dichiarato ammissibile. Non voglio trasformare questo commento “a prima lettura” nel commentario a un repertorio di casi, ma potrei citarne parecchi (quasi a memoria) in cui la regola di specificità, scritta da nessuna parte, non era ricavabile dalla pregressa giurisprudenza della Corte. A mio avviso, in questi casi la formula utilizzata dal comma 1 dell’art. 111 Cost. – il giusto processo regolato dalla legge – trova tutta la sua giusta espansione, perché dovrebbe essere la legge ex ante a regolare anche le modalità e forme di accesso al giudice, non il giudice stesso con orientamenti che si conoscono ex post.
Ne deduco che il formalismo giuridico è uno dei problemi che possono riscontrarsi nell’accesso al giudice di legittimità, non certamente l’unico.
Ricordo che in occasione dei lavori preparatori della riforma del 1990 (legge n. 353) si accese una piccola polemica sulla supposta funzione educativa delle norme processuali, perché nella Risoluzione del CSM sul d.d.l. 1288/S/IX (in Foro it., 1988, V, c. 249 ss.) l’estensore Borré affermava che il processo «educa o diseduca» (il riferimento era al giudizio di primo grado e alle preclusioni). A distanza di molti anni, occorre riconoscere che quell’estensore (un giurista di calibro non comune) aveva perfettamente ragione: le norme processuali, come tutte le regole di comportamento, possono favorire comportamenti virtuosi o viziosi. Le norme di cui stiamo parlando – quando si tratta di norme – hanno avuto un chiaro effetto diseducativo su intere generazioni di giuristi: sui giudici, presso i quali si è favorito il radicamento dell’idea che decidere il merito equivalga a non deciderlo e che comunque la somministrazione della tutela presuppone un giudizio di meritevolezza sul come quella tutela viene richiesta e sulla “professionalità” del difensore (grave attentato al principio di eguaglianza, perché non tutti possono permettersi difensori esperti e specializzati); sugli avvocati, perché ormai non c’è difesa, nei gradi di impugnazione, che non preveda l’utilizzo di quel triste repertorio di eccezioni di inammissibilità che costituisce la snervante “sfoglia di cipolla” che nasconde il merito della causa. Ma davvero siamo disposti a credere che in tutti i ricorsi per cassazione ci siano problemi di autonomia, autosufficienza, specificità, contrasto cogli orientamenti consolidati? Davvero crediamo che i giudici dei gravami debbano, sempre, anteporre stucchevoli trattazioni sull’ammissibilità prima di passare al merito dell’impugnazione?
Discorso a parte, che abbiamo in altre sedi affrontato ma che ci sembra opportuno almeno cennare qui, è quello della “nomofilachia”. Ritengo che il legislatore delegato del 2006 abbia commesso qualche errore. Forse non è stata adeguatamente ponderata la generalizzazione del giudizio sostitutivo di merito, che la legge del 1990 aveva limitato ai casi di accoglimento del ricorso con motivo fondato sul n. 3) dell’art. 360 c.p.c.; ma l’errore più grave è stato quello di consentire alla Corte, anche senza istanza del PG, la pronuncia di principi di diritto nell’interesse della legge svincolata dalla pronuncia sul merito del ricorso. Allontanare la Corte dalle sue funzioni di giudice non è stato un bene (e infatti in taluni collegi hanno fatto capolino dei legislatori in erba, o garzoni del legislatore); così come non sarà un bene consentire alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale, come pure previsto nel d.d.l. di recente approvato dal Senato, non fosse altro perché una Corte, come la nostra, ingolfata di ricorsi non dovrebbe avere il tempo di – come oggi si dice – differenziare la propria offerta.
La cura che serve alla Corte è il ritorno al giudizio: senza impicci, senza soverchie complicazioni. E che sia il legislatore, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso, togliendo alla Corte l’imbarazzo di dover essere il regolatore di se stessa.