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La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile

1. Premessa : le regole vigenti e le diverse questioni in campo; 2.Le ragioni contro l’unicità di carriera; 2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m.; 2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.; 2.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero; 2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale; 2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata; 2.f – La particolarità del Portogallo; 3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera; 3.a – La prospettiva del Consiglio d’Europa; 3.b - La cultura giurisdizionale deve appartenere anche ai PM; 3.c. - I dati statistici sul cambio di funzioni; 3.d - Unica formazione e unico CSM; 3.e - Condizionamento del giudice e gerarchizzazione dell’Ufficio del P.M.: conseguenze certe della separazione delle carriere; 3.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia; 4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. E’ passato il tempo delle riforme “rancorose”; 5. - La proposta dell'Unione delle Camere Penali di determinare la “cancellazione” di fatto dell’ obbligatorietà dell’azione penale; 6. - Per concludere...

In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità ci impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi degli argomenti a sostegno delle tesi contrapposte (e delle rispettive obiezioni).

In questa prospettiva, sento comunque il dovere di anticipare con chiarezza la mia ferma contrarietà (per le ragioni che appresso esporrò) a qualsiasi cambiamento delle norme vigenti in materia e, dunque, manifesto subito il mio dissenso rispetto alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali (di cui specificatamente tratterò appresso) che giudico del tutto anacronistica e priva di qualsiasi rilevanza diversa da quella mediatica,

1. Premessa : le regole vigenti e le diverse questioni in campo .

Come è noto, le norme dell’ordinamento giudiziario vigenti in tema di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti (e viceversa), nonché in tema di assegnazione dei magistrati all’una o all’altra funzione al termine del tirocinio, sono quelle previste dal d.lgs n. 160/2006, emesso in attuazione della legge delega 150/2005, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007.

Il conseguente nuovo sistema ha notevolmente cambiato quello preesistente (che qui non serve richiamare) ed ha limitato il passaggio delle funzioni sotto un profilo oggettivo, vietandolo nei seguenti casi:

a) all’interno dello stesso distretto;

b) all’interno di altri distretti della stessa regione;

c) all’interno del distretto di corte di appello determinato per legge (ex art. 11 c.p.p.) come competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni.

Sotto il profilo soggettivo , è indicato il limite massimo di quattro passaggi da una funzione all’altra nel corso della complessiva carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni, prima del passaggio all’altra, pari a cinque anni.

Ai fini del passaggio si richiede inoltre:

a) la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale;

b) la formulazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni.

Il cambio di funzioni, purchè avvenga in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza, è possibile – a certe condizioni in ordine al nuovo incarico da ricoprire - anche nel medesimo distretto nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero, nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Il tramutamento di secondo grado può invece avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza.

Va pure ricordato che la legge n. 111/2007 ha eliminato la netta ed irreversibile separazione delle funzioni originariamente introdotta dalla legge Castelli (secondo cui, dopo cinque anni dall’ingresso in magistratura occorreva scegliere definitivamente tra funzioni requirenti o giudicanti): il nuovo sistema, cioè, ha impedito l’entrata in vigore di una normativa che di fatto realizzava una separazione delle carriere, aggirando le previsioni costituzionali.

A tale ultimo proposito – ed in relazione allo specifico tema della separazione delle carriere - è però doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 e di altre previsioni dell’ ordinamento giudiziario 2 , ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue:

La Corte Costituzionale, nella stessa occasione, aveva pure precisato che:

Di ciò si deve prendere atto, pur ricordando anche altre autorevoli affermazioni secondo cui, per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere, bisognerebbe modificare la Costituzione. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, differenti rispetto a quelle oggetto del referendum abrogativo del 2000 e simili a quelle di cui qui si discute, che ciclicamente sono argomento di dibattito politico, quali la necessità di prevedere concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o quella di istituire separati Consigli Superiori della Magistratura. In questo caso 3 , si tratta all’evidenza di proposte di modifiche ordinamentali che, se attuate con legge ordinaria, difficilmente potrebbero sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale. Si comprende, dunque, la ragione per cui l’Unione delle Camere Penali è scesa in campo con una proposta di legge costituzionale per introdurre tali modifiche al sistema vigente.

Ai fini di quanto appresso si dirà, va pure ricordato che la Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dallastesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), attribuisce al P.M. la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi di tale modello rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero.

Questa annotazione, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi appena enunciati che rischiano di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale che periodicamente si addensano all’orizzonte e che sono ora oggetto della iniziativa dei penalisti italiani.

Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare separatamente – e separatamente confutare - ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma più o meno rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico-giudiziario, talvolta impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella dellaseparazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dall’addetto ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dall’art. 10 D.Lgs. 5 aprile 2006, poi sostituito dall’art. 2 L. 30 luglio 2007 4 . Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati, le carriere di giudicanti e requirenti siano amministrate da distinti CSM ed in cui il passaggio dall’una all’altra funzione sia impossibile.

2. Le ragioni contro l’unicità di carriera 5

2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. .

Il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m., secondo alcuni, sarebbe deducibile anche dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame.

Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto nel maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” ed ancora : “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale compromette..” etc. etc.

E’ notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare con le tesi dell’accusatore: autorevolmente, Francesco Saverio Borrelli ha parlato in proposito di “ diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” ed ha auspicato che “ si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee” 6 .

Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa e dello stesso dato statistico, facilmente strumentalizzabile in qualsiasi direzione: perché escludere, ad esempio, che l’alto numero di richieste cautelari accolte dai giudici costituisca spia del fatto che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione ?

2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.

E’ questa una posizione che emerge spesso negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati.

Orbene, dando per scontata l’esistenza, sia pur marginale, del vizio insopportabile di taluni magistrati (soprattutto P.M.) di erigersi al rango di storici o moralizzatori della società, sorprende che l’avvocatura italiana (o parte di essa) trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, svolgere “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp). Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo - non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati compresi), possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale.

Si potrebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose o ad associazioni terroristiche, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma – fortunatamente - dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove. E ciò vale anche per i giudici di legittimità.

2.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero.

Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del “nuovo” codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni è ancora prevista nell’ordinamento giudiziario vigente 7 , va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a vita a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante. Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro (sul modello americano, del quale mancano alcune connotazioni essenziali quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede che il P.M. “veglia alla osservanza delle leggi..”): un ruolo che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività e che non coincide, dunque, con quello di semplice parte, interessata solo alle ragioni dell’accusa. In definitiva appare evidente, anche a chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, va costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.

Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”. “Ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”. Anche questa falsità è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata o, nel migliore dei casi, di una visione storica propria di commentatori disattenti. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G., rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del ’98; in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura. Le sue affermazioni, risalenti ad epoca anteriore alle ben note aggressioni subite in anni seguenti dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno.

2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale

Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal secondo comma dell’art. 111 Costituzione (“ Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”) quasi che esso avesse, per questa parte, introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché costituire una norma-manifesto, enunciativa di principio già presente e praticato nel processo penale, come in quello civile.

Tralasciando slogan suggestivi, dunque, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe anche ricordare che per effetto di varie riforme si è realizzato nel tempo un notevole potenziamento del ruolo della difesa nel nostro processo, persino con conseguentemente allungamento dei suoi tempi di complessivo svolgimento.

In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i “risentimenti” originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore delle attività delle parti resta tale, e un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.

Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione, tutti diventati magistrati attraverso identico meccanismo concorsuale. Perché non si vede come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo 8 .

Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei : il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio mandato nella piena legalità e con eventuale e personale successo professionale: senza quel ruolo non sarebbe possibile giustizia e l’immagine della bilancia che la rappresenta non potrebbe essere equilibrata.

Niente di tutto questo, però, vale per il P.M. che con il giudice condivide l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le cui indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il pubblico ministero che redige un atto è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” - alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio (art.70 comma 4 ordinamento giudiziario e art. 53 c.p.p.).

Del significato di queste differenze ontologiche (che non intaccano in alcun modo l’etica del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica) ciascuno può agevolmente rendersi conto, in modo da comprendere che non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è fatto positivo per i cittadini e per la collettività.

L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale , garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio, condiviso da chi scrive, della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Ma non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa” 9 .

2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata 10 .

E’ questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori, meno dai giuristi favorevoli alla separazione, i quali – evidentemente – ne conoscono la natura di mero slogan. Si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.

E’ opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la mancanza di fondamento dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo e il condizionamento delle indagini.

Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo descrivere in Italia. E’ chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese : basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Del resto, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione : “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente” . Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - ove essa costituisce la regola accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita persino ad alcuni accademici 11 . Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:

Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. ( “Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura” ), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto” .

Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica, scelta per cui le va reso onore), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).

E’ stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese.

Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà non può ritenersi, però, così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento, come appresso si dirà), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è sostanzialmente esercitato (non senza qualche occasione di polemica con gli stessi pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo. Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.

2.f – La particolarità del Portogallo

La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo : non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso come anche la proposta di riforma della Unione delle Camere Penali contiene principi che rischiano di introdurre nel nostro sistema un indiretto controllo della maggioranza politica di turno sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.

Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale portoghese: in Portogallo, sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua quasi trentennale applicazione, quel progressivo affievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese 12 , il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione –ha dichiarato il magistrato portoghese - aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri 13 hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. E’ stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.

Ecco dimostrate, dunque, la perversione dell’eccesso di specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.

3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera

Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono già in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati. Ma altre ne esistono.

3.a – La prospettiva del Consiglio d’Europa

Per completare la carrellata sul panorama internazionale, è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea. Vanno a tal fine citate almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni, l’uno risalente al 2000 e l’altro più recente del dicembre 2014: il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000 , ove si prevede (al punto 18) che:

“…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice , o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie” .

Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “ esposizione dei motivi”), che:

La possibilità di <> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine della garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto . Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero” .

Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero” , contenente la cosiddetta Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.

Orbene, in questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono qui ribaditi.

Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni 14 .

3.b – La cultura giurisdizionale deve appartenere anche ai PM

Si è già più volte parlato, fin qui, di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi. O quasi si trattasse di uno slogan pubblicitario.

E’ quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi pur se ormai nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità” 15 . In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.

Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. a garanzia e tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino, come quelli in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla sua attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria etc. . Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere “inserito”, appunto, nella cultura della giurisdizione 16 : un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Il PM, insomma, deve saper esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria, senza appiattirsi, da un lato, sulle esigenze della investigazione pura e senza rinunciare, dall’altro, a quella cultura della giurisdizione che costituisce la barriera più solida contro i ricorrenti progetti di separazione delle carriere. Se questo legame si attenua o viene reciso, si apre la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “ un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica” 17 . Anni fa, lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia si suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.

L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa “agli ordini”) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente (i cui eventuali diversi “colori” sono del tutto indifferenti rispetto agli argomenti qui in esame).

3.c – I dati statistici sul cambio di funzione

E’ opportuno pure ragionare attorno ad aggiornati dati statistici: si parla molto spesso, infatti, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM – nel 2000 - inviò anche al Comitato promotore del citato referendum abrogativo. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risultava sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50% ; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo erano costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. . Tali dati sono vistosamente “crollati” a seguito delle limitazioni introdotte d.lgs n. 160/2006, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007.

Si riproducono di seguito, a tal proposito, i dati relativi ai trasferimenti con contestuale cambio di funzioni (da requirenti a giudicanti e viceversa), forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura, relativi al periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016 (cioè, a ben 5 anni e mezzo, peraltro recentissimi):

Trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti .

nel periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016

Totale : 101 , così suddivisi:

Numero requirenti trasferiti e specifica funzione di provenienza

Specifica funzione giudicante

oggetto del trasferimento

61 Sostituti Procurat. Repubblica c/o Tribunale

3 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale Minori

2 Procurat. della Repubblica Aggiunti

Totale 66

Giudice Tribunale

(non è noto, tra i 66 trasferiti, il numero degli

ex requirenti destinati al settore civile)

11 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

1 Sost. Procurat.Repubbl. c/o Tribunale Minori

Totale 12

Giudice Tribunale Sezione Lavoro

1 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

Totale 1

Presidente Sezione Tribunale

1 Sostituto Procurat. Repubblica c/o Tribunale

1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

Totale 2

Magistrato distrettuale Giudicante

5 Sostituti Procurat. Repubblica c/o Tribunale

1 Sostituto Procurat. Naz.le DNAA

1 Procuratore Repubbl. c/o Tribunale Minori

2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale Minori

Totale 9

Consigliere di Corte d’Appello

1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

Totale 1

Presidente Sezione di Corte d’Appello

1 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

Totale 1

Consigliere Corte App. Sezione Lavoro

3 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

Totale 3

Magistrato di sorveglianza

2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

Totale 2

Magistrato di Trib. destinato a Corte Cass.

1 Procuratore della Repubblica

2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

Totale 4

Consigliere Corte di Cassazione

Trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti

nel periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016

Totale : 78, così suddivisi:

Numero giudicanti trasferiti e specifica funzione di provenienza

Specifica funzione requirente

oggetto del trasferimento

1 Presidente Tribunale

Totale 1

Procuratore della Repubblica c/o Tribunale

22 Giudici di Tribunale

2 Consiglieri di Corte d’Appello

1 Presidente Sezione Tribunale

1 Magistrato di sorveglianza

Totale 26

Sostituti Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

2 Giudici di Tribunale

1 Magistrato di sorveglianza

1 Consigliere di Corte d’Appello

Totale 4

Sostit.Procurat. Repubbl. c/o Tribun. Minori

1 Giudice Tribunale

1 Giudice Tribunale Minori

Totale 2

Procur. della Repubbl. c/o Trib. Minori

1 Giudice Sezione LavoroTribunale

1 Giudice Tribunale

1 Consigliere di Corte d’Appello

Totale 3

Magistrato distrettuale Requirente

1 Consigliere Sez. Lavoro Corte Appello

4 Consiglieri Corte d’Appello

1 Presidente Sezione Tribunale

2 Presidente Tribunale Sorveglianza

1 Magistrato di Sorveglianza

8 Giudici Tribunale

2 Giudici Tribunale Minori

Totale 19

Sostit. Proc. Generale c/o Corte d’Appello.

1 Giudice Tribunale

Totale 1

Avvocato Generale c/o Corte d’Appello

2 Consiglieri Corte di Cassazione

5 Giudici Tribun. destinati a Corte Cassazione

4 Consiglieri di Corte d’Appello

2 Consiglieri Sez. Lavoro Corte d’Appello

1 Presidente Tribunale Sorveglianza

2 Magistrati di Sorvegianza

1 Presidente Sezione Tribunale

5 Giudici Tribunale

Totale 22

Sost. Procur. Gener. c/o Corte di Cassazione.

Pertanto, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2016 (requirenti: 2192; giudicanti : 6453);

ne deriva che negli ultimi cinque anni e mezzo la percentuale annua dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra (rispetto al numero di quelli effettivamente in servizio nell’una e nell’altra funzione) - è la seguente:

Tale percentuale sarebbe poi ancora più irrilevante se la si rapportasse al numero più alto dei magistrati previsti in organico, anzichè a quello dei magistrati effettivamente in servizio.

Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è affatto così massiccia come si crede, anzi è quantitativamente marginalissima; dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.

3.d - Unica formazione e unico CSM

Ecco, dunque, che la magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato, dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione globale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura, di un’unica Scuola per l’aggiornamento da aprire il più possibile all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni: verrebbe da chiedersi, anzi, perché non è stata mai formulata o seriamente presa in considerazione l’ipotesi di un’unica Scuola di formazione per magistrati ed avvocati.

Ma è comunque evidente che formazione comune ed un unico CSM, in presenza di carriere dei magistrati definitivamente separate, non avrebbero ragione di essere. E sarebbe un danno per tutti, a partire dai cittadini utenti della giustizia.

3.e - Condizionamento del giudice e gerarchizzazione della struttura del Pubblico Ministero: conseguenze certe della separazione delle carriere

Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi – nell’esercizio dell’azione penale - alle direttive dell’esecutivo o a leggi variabili approvate da maggioranze anch’esse variabili o che potrebbe essere condizionato, a secondo dei momenti storici, da orientamenti culturali e giuridici di natura prevalentemente securitaria o, come qualcuno vorrebbe nel presente contesto storico, ispirati alla necessità di privilegiare le esigenze dell’economia e del mondo imprenditoriale etc. . Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata. E si estenderebbe quella inaccettabile tendenza alla gerarchizzazione dell’ Ufficio del PM di cui già si vedono preoccupanti segnali nelle direttive che alcuni Procuratori Generali e perfino il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, grazie ad una interpretazione estensiva della nozione di “coordinamento”, impartiscono o vorrebbero impartire ai Procuratori della Repubblica, pure se solo a questi compete, in via esclusiva, la titolarità dell’azione penale.

3.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia

E’ noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e para-giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente) ed è noto che l’8 giugno scorso 20 Stati membri dell’Unione Europea hanno raggiunto l’accordo politico sull'istituzione della nuova Procura europea (anche se competente solo su alcuni tipi di reato) nel quadro della cooperazione rafforzata. L'accordo dovrà essere approvato dal Parlamento europeo. Si discute, inoltre, della creazione di un vero e proprio Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.

In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso 18 e di cui – in altri casi – ancora si discute.

Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato. Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.

4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. E’ passato il tempo delle riforme “rancorose ”.

In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano contrasti tra giustizia, politica, economia, ma in nessuna parte del mondo il livello di tali contrasti ha portato, come in Italia, ad una situazione di vero pericolo per l’indipendenza della magistratura ed al rischio di violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. Ci si vuol qui riferire ad un passato che, sia pur non troppo lontano, sembra definitivamente tramontato: basti pensare alle accuse di parzialità e mala fede rivolte ai magistrati anche da chi rivestiva talune importanti cariche istituzionali. La crisi della divisione dei poteri si mostrò in tutta la sua pericolosità in Senato, il 5 dicembre 2001, allorchè venne approvata, a maggioranza, una mozione in cui si “denunciavano” riunioni clandestine tra giudici e PM per trovare il modo di violare la legge sulle rogatorie e si bocciavano senza appello l’interpretazione della medesima adottata dai collegi giudicanti milanesi (indicando loro quella che sarebbe stata corretta) e le decisioni da questi assunte in tema di impedimenti a comparire in giudizio di imputati parlamentari 19 . Nello stesso senso, peraltro, andavano le reazioni di parti consistenti del mondo politico successive a sentenze sgradite. Significativamente, dopo una decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, sgradita ad imputati eccellenti ed ai loro difensori (in buona parte parlamentari), si riaccese il dibattito sulle riforme ordinamentali, prima tra tutte proprio quella sulla separazione delle carriere, che veniva presentata, per l’ennesima volta, come una riforma da attuarsi rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini, pur non avendo a che fare né con l’una, nè con le altre. Essa andava ad iscriversi, piuttosto, all’interno di un pacchetto di riforme “rancorose” 20 e punitive caratterizzate da un solo fine: il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo .

L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, allora Presidente della Commissione Giustizia della Camera, lanciava la proposta di far eleggere i dirigenti delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia rilanciava, due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra E già da tempo, inoltre, si discuteva dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe stato sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M. (oggetto, più avanti, di un ulteriore progetto di riforma del procedimento penale, contenuto nel DDL n. 1440, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 2009, il cui cuore era costituito proprio dal ridimensionamento del ruolo del PM, che – secondo note enunciazioni – avrebbe dovuto assumere la veste di “avvocato dell’accusa” o “ avvocato della polizia”. Il tutto in un contesto che ne avrebbe determinato burocratizzazione ed ancora una volta sottoposizione di fatto all’esecutivo).

Proprio quest’ultima prospettiva appare allarmante almeno quanto quella dell’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria non solo farebbe rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenzierebbe l’organo dell’accusa e, riducendolo al rango di funzionario amministrativo, comprometterebbe inevitabilmente il livello delle garanzia riconosciute ai cittadini 21 .

E’ probabilmente vero – e chi scrive ne è convinto - che il livello di queste preoccupazioni è oggi notevolmente diminuito anche se la storia di questo Paese ed, in particolare, quella che riguarda i rapporti tra politica e magistratura in Italia, non è mai tranquillizzante e deve indurre tutti alla massima attenzione. E ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti nella guida politica del Paese.

Proprio per questa ragione, è auspicabile che Avvocatura e Magistratura, con il contributo determinante del mondo accademico, uniscano le loro forze, fino a determinare una sinergia virtuosa che si concentri sulle cause vere delle disfunzioni del processo e dei tempi lunghi del processo, a partire dalla drammatica carenza di personale amministrativo.

5. La proposta dell'Unione delle Camere Penali rischia di determinare la “cancellazione” di fatto dell’obbligatorietà dell’azione penale .

Merita specifica attenzione, a questo punto, la proposta dell’Unione delle Camere Penali, tanto indefinita quanto inaccettabile (almeno per chi scrive), di modificare l’art. 112 della Cost. che dovrebbe così essere riformulato: “ Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge”.

In tal caso si rischierebbe la cancellazione di fatto del principio di obbligatorietà dell’azione penale,

Sono certamente a tutti noti i problemi e le difficoltà che si frappongono all’effettiva applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma si tratta di un principio da difendere con convinzione perché garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essoè semmai il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare, come in molti vorrebbero!

E’ chiara la ragione per cui quel principio garantisce tale eguaglianza : i cittadini sanno che, essendo il PM obbligato a perseguirli, tutti gli accertati responsabili di qualsiasi reato saranno condotti dinanzi ad un Tribunale per essere giudicati, senza distinzione di razza, religione, censo e senza possibilità di influenza sull’esito delle indagini del loro eventuale potere economico o politico.

Ci si deve domandare, allora, come mai esistano accaniti “detrattori” del principio affermato nell'art. 112 Cost., pronti a sostenere che si potrebbe rendere discrezionale l'azione penale, anche senza necessità di trasformare il PM in un organo dipendente dall’esecutivo e senza compromettere il principio inviolabile dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Le ragioni addotte a sostegno di questa posizione sono di duplice natura: tecniche, quelle di alcuni osservatori e giuristi che possono essere definiti “pragmatici”; politiche, quelle di chi – magari obliquamente – intende condizionare il ruolo del pubblico ministero, apparentemente preservandone l’indipendenza dall’esecutivo, in realtà mirando ad impedirgli di avviare indagini ed esercitare l’azione penale per certi reati e nei confronti di certi imputati.

Entrambe le posizioni si fondano su un identico rilievo di partenza, quello concernente le note difficoltà che si oppongono all’effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Si è già detto che questo principio postula per il PM l’obbligo di avviare l’indagine preliminare per ogni tipo di reato di cui egli abbia comunque notizia. Si obietta però che, nonostante quanto previsto dall’art. 112 Cost., soltanto una parte dei reati commessi viene effettivamente perseguita: le notizie di reato pervenute al PM e le procedure d’indagine che si avviano, infatti, sarebbero troppo numerose ed ingestibili, costringendo il PM stesso ad operare una selezione. L’obbligatorietà dell’azione penale, dunque, non troverebbe effettiva applicazione nella realtà ed il PM, pur obbligato per legge a non scegliere, finirebbe per agire discrezionalmente selezionando gli affari da trattare e quelli da trascurare. Tale discrezionalità, peraltro, sarebbe esercitata senza criteri predeterminati o secondo criteri diversi tra Procura e Procura e, all’interno del singolo ufficio, tra i magistrati che lo compongono. In certi casi, poi, il PM sarebbe indifferente all’esito dei procedimenti di cui è oberato, mentre in altri la scelta di procedere o meno per un reato finirebbe con l’essere politicamente orientata, al punto da indurre il PM a perseguire i reati in cui sono coinvolti personaggi di orientamento politico a lui non gradito e contemporaneamente a tralasciarne altri che pure destano grave allarme sociale e pericolo per la sicurezza dei cittadini. In ogni caso, il destino finale per molti reati sarebbe costituito dalla prescrizione o dall’archiviazione per la mancata acquisizione degli elementi utili ad esercitare l’azione penale.

Si è già fatto cenno ad un altro argomento, spesso utilizzato a sostegno della proposta di introdurre la separazione della carriere, che nasce da uno sforzo incolto di usare il diritto comparato a proprio uso e consumo, così affermando che il sistema italiano costituirebbe l’eccezione in un panorama internazionale asseritamente caratterizzato dal principio di discrezionalità dell’azione penale e da quello inevitabilmente connesso della dipendenza del PM dal potere esecutivo, che ne detta le linee d’azione. L’affermazione è sicuramente errata: esistono in Europa, infatti, sistemi in cui l’azione penale è obbligatoria, altri in cui è discrezionale, altri ancora in cui esistono temperamenti all’uno o all’altro principio (per cui l’obbligatorietà è talvolta condizionata all’effettiva gravità del reato e, dunque, all’ “economicità” in senso lato del processo, mentre la discrezionalità orientata dal prevalere dell’interesse delle vittime dei reati). Negli Stati Uniti, poi, le direttive per l’esercizio dell’azione penale sono periodicamente dettate dall’Attorney General (figura che racchiude in sè le funzioni tanto del nostro Ministro della Giustizia che del Procuratore Generale presso la Cassazione), ma lì – e questa è la principale differenza con l’Italia - nemmeno il Presidente protesta se il Prosecutor lo incrimina. Nei sistemi europei in cui le direttive dell’esecutivo regolano il principio della discrezionalità dell’azione penale, esiste comunque la figura del Giudice Istruttore indipendente (da noi ormai abolita quasi trent’anni fa), che può rimediare alle inerzie del PM.

Insomma, il significato del dato comparatistico non può essere enfatizzato, né assunto come parametro di valutazione del nostro sistema. E le differenze ordinamentali esistenti tra uno Stato e l’altro spesso derivano da secolari differenze di cultura giuridica e politica.

Le proposte “costruttive” per la modifica del sistema esistente, comunque, si differenziano in ordine all’individuazione dell’istituzione o autorità cui attribuire competenza e responsabilità di dettare periodicamente i criteri-guida uniformi per l’esercizio discrezionale dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri.

Tralasciando in questa sede, visto il tenore della proposta di cui qui si discute, le ipotesi alternative di affidare (eventualmente anche previa interlocuzione complessa tra tutte – o quasi tutte - le Istituzioni appresso indicate) la competenza circa la linee guida in tema di azione penale al Governo, o al Ministro della Giustizia, o al Consiglio Superiore della Magistratura (che mai, invece, si è ritenuto competente ad orientare il merito delle scelte giurisdizionali), o al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, o ai Consigli Giudiziari operanti su base distrettuale (e così in grado di valorizzare esigenze territoriali) o ai singoli Procuratori della Repubblica, va fermamente criticata anche quella – fatta propria dalle Camere Penali – di affidare tale compito al Parlamento, sia pure previa discussione generale e trasparente.

Appare del tutto evidente, infatti, che in questo modo si finirebbe con l’accettare la possibilità che l’esercizio dell’azione penale sia condizionato dalle scelte della maggioranza politica di turno. Né è pertinente l’ovvio rilievo secondo cui ogni legge è il frutto dell’accordo possibile all’interno di maggioranze variabili: l’obbligatorietà dell’azione penale è infatti un principio costituzionale e, svuotandolo di fatto con la previsione di attribuire al Parlamento il compito di dettare le linee guida in materia, si finirebbe con il pregiudicare – o rendere oscillante e variabile – la tutela dei diritti fondamentali previsti dalla prima parte della Costituzione, tutela spesso connessa all’esercizio dell’azione penale .

L’elencazione delle ragioni della crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei possibili rimedi (inclusi, a tal proposito, i riferimenti al controverso tema delle priorità) richiederebbe comunque molto spazio, ben più di quello, già troppo ampio, sin qui occupato. Sia permesso, allora, di fare riferimento a precedenti interventi su questo tema di chi scrive, ampiamente disponibili.

6. Per concludere…

Nell’ovvio rispetto per le elaborazioni e le proposte formulate dall’Unione delle Camere Penali, appaiono a questo punto chiare – alla luce di quanto sin qui precisato - le ragioni della ferma contrarietà di chi scrive al contenuto delle proposte di modifica dei seguenti articoli della Costituzione e dei principi in essi affermati 22 :

E’ doveroso precisare – sia ben chiaro - che le persistenti e periodiche discussioni attorno alla ipotesi di separazione delle carriere e alla crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale sono talvolta conseguenti anche ad innegabili criticità che possono essere rilevate in ogni parte d’Italia nelle prassi investigative e nei criteri di promovimento dell’azione penale. Ma, in proposito, è utile invitare tutti ad un’analisi seria e mirata di tali problematiche, evitando di invocare soluzioni radicali, incompatibili con la nostra cultura e tradizione giuridica.

Sono ancora attuali e condivisibili, a tal fine, le parole del prof. Gaetano Silvestri, pronunciate in occasione di un Congresso dell’ANM di vari anni fa 23 : “ Non possiamo negare che oggi si assista in varie parti d’Italia ad una ipertrofia dell’azione penale, derivante da una concezione pan-penalistica dei rapporti sociali, politici e istituzionali coltivata da taluni magistrati. In contrasto con la cultura del diritto penale minimo, che dovrebbe essere l’approdo di una più aggiornata visione della legalità, si sviluppa talvolta un iperattivismo inquisitorio ed accusatorio non certo in linea con un equilibrato esercizio della giurisdizione. Dobbiamo tuttavia notare che complessivamente la terzietà del giudice nel nostro sistema funziona abbastanza bene e che la maggior parte dei processi iniziati in modo avventato – in assenza di un quadro probatorio sufficiente o in base a forzature pan-penalistiche della legge – si concludono con decisioni di proscioglimento. Il processo penale italiano contiene in sé una grande quantità di garanzie per la difesa. Sono convinto che di fronte alla scelta di barattarlo con altri sistemi, molti suoi detrattori farebbero un passo indietro” .

Purtroppo – aggiungeva il prof. Silvestri – i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il PM che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulle prospettazione dell’accusa; se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei PM, perché colleghi ed amici” .

Si tratta di parole di grande efficacia, utili per invitare tutti a difendere con orgoglio i principi fondanti del nostro sistema ordinamentale, tra cui vi sono sicuramente quelli della unicità della carriera dei magistrati giudicanti e requirenti, della loro comune “cultura giurisdizionale” e quello dell’ indipendenza, costituzionalmente garantita, anche dei Pubblici Ministeri: sono valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che, con l’aiuto dell’Avvocatura, andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati

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1 Questo intervento – che l’Unione delle Camere Penali ha ritenuto di non poter pubblicare sulla homepage del proprio sito web - riprende ed aggiorna precedenti relazioni dell’autore sullo stesso tema.

2 Ci si vuol riferire al quesito referendario proposto da Radicali, SDI e PRI con cui si proponeva l'abrogazione delle norme dell'ordinamento giudiziario allora in vigore che consentivano ai magistrati di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa. Il referendum fu “bocciato” poiché il 21 maggio 2000 non fu raggiunto il necessario quorum dei votanti.

3 Si rimanda al paragrafo 5, in cui verranno brevemente commentate le recenti proposte di modifica costituzionale dell’Unione Camere Penali.

4 Prima del D.Lgs. 5 aprile 2006, la separazione delle funzioni era prevista dall’abrogato art. 190 dell’ordinamento giudiziario e dalla previsione ivi contenuta di pareri per il passaggio dall’una all’altra funzione.

5 Nei titoli dei sub-paragrafi da 2.a a 2.f sono riportate le affermazioni che spesso vengono formulate a sostegno della necessità della separazione delle carriere.

6 MicroMega n. 1/2003

7 Si ricordi che la previgente formulazione dell’art. 190 Ordinamento giudiziario, poi abrogato, che pure richiedeva il parere attitudinale in questione, era stata introdotta dall’art.29 DPR 22.9.88 n. 449, varato nella stessa data del DPR n. 447/1988 di approvazione del codice di procedura penale vigente.

8 In tal senso, più volte, numerosi giuristi e commentatori

9 Livio Pepino, Giudici e Pubblici Ministeri, in La Magistratura, nn.1/2 2002

10 I riferimenti che seguono agli ordinamenti di altri Stati non sono tutti aggiornati e, dunque, potrebbero contenere inesattezze. In tal caso l’autore se ne scusa con i lettori.

11 In tale senso, ad esempio, sembra essere orientato il prof. Giuseppe Di Federico (fautore della separazione delle carriere), come appare da una sua intervista pubblicata il 3 luglio 2016 su Il Giornale di Sicilia.

12 Antonio Cluny, dirigente di Medel: intervento nel corso del congresso di Magistratura Democratica (Roma, 23/26.1.2003)

13 Vengono qui ancora riportate le valutazioni critiche del dr. Cluny

14 Sia qui permesso di citare anche il consenso alla struttura ordinamentale della carriera e della indipendente funzione del P.M. in Italia, manifestato da organismi rappresentativi dell’avvocatura tedesca nel corso di un importante convegno internazionale svoltosi nel 2007 a Berlino, in cui il sottoscritto fungeva da relatore.

15 Così in Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario” , in La Magistratura, nn.1/2 2002 Tale posizione è stata ribadita dall’ANM in numerose successive ulteriori prese di posizione, mai abbandonate neppure nel periodo attuale.

16 Sul punto, come si è già detto, sorprende che buona parte dell’avvocatura penale non ritenga importante che il P.M. sia permeato da tale cultura, ritenendo sufficiente che “che il P.M. sia mosso dalla cultura della legalità”.

17 Livio Pepino : “Carriere Separate, Governo in Toga”, L’Unità, 20.11.02

18 Così Ignazio Juan Patrone, all’epoca presidente di Medel

19 A seguito di quella mozione, la giunta dell’ANM si dimise in blocco denunciandola come contrastante “.. con il modello di giurisdizione e di assetto di poteri disegnato dalla Costituzione”. La giunta dell’Anm si era sciolta un’altra sola volta: nel 1924, dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria di Mussolini.

20 Efficace definizione dell’allora Vice Presidente del CSM, on.le prof. Virginio Rognoni

21 In proposito, il prof. Giuseppe Di Federico rivendica di avere per primo utilizzato la espressione di “pm-poliziotto” perché “ se una persona dirige la polizia non la si può definire diversamente” , aggiungendo, però, che il Pm “a differenza del poliziotto, non risponde a nessuno: una cosa incompatibile con il sistema democratico” (3 luglio 2016, Il Giornale di Sicilia).

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22 Non vengono qui citate le proposte di citare i due istituendi CSM in luogo dell’attuale unico Consiglio Superiore della Magistratura ogni qualvolta gli articoli della Costituzione ad esso facciano riferimento .

23La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), relazione a commento del disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere.

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