Corte di Strasburgo e formalismo in Cassazione
di Guido Raimondi
Sommario: 1. La sentenza Succi c. Italia e l’accesso al giudice secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo - 2. Le fattispecie litigiose - 3. L’analisi della Corte europea - 4. Qualche riflessione.
1. La sentenza Succi c. Italia e l’accesso al giudice secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo
La pubblicazione, il 28 ottobre 2021, della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Succi et al. c. Italia (n. 55064/11, 37781/13 e 26049/14) ha suscitato, comprensibilmente, grande attenzione dentro e fuori la Corte di cassazione.
La Corte di Strasburgo si è occupata con questa sentenza di tre vicende giurisdizionali conclusesi con decisioni prese in ultima istanza dalla nostra Corte di legittimità, che in tutti e tre i casi aveva ritenuto inammissibili i ricorsi degli interessati, i quali poi si erano rivolti alla Corte europea.
I ricorrenti lamentavano la violazione del loro diritto di accesso al giudice, garantito dall’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in seguito: la Convenzione), sostenendo che le decisioni di inammissibilità prese dalla Corte di cassazione fossero affette da eccessivo formalismo.
Come è noto, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha assegnato al diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, implicito nell’art. 6 § 1 della Convenzione (Golder c. Regno Unito, n. 4451/70, 21 febbraio 1975), una posizione sempre più centrale nell’architettura complessiva della Convenzione via via che si è acquisita la consapevolezza che una delle premesse fondamentali del sistema europeo di tutela dei diritti umani, cioè lo Stato di diritto, non può reggersi senza un apparato giurisdizionale credibile, indipendente, imparziale ed accessibile a tutti. Nell’attuale momento storico, nel quale i principi dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura sono sottoposti a tensione in alcuni Stati contraenti della Convenzione, anche membri dell’Unione europea, non c’è da stupirsi che la giurisprudenza europea sia particolarmente rigorosa nella tutela di questo aspetto fondamentale. Questo vale sia per la Corte europea dei diritti dell’uomo sia per la Corte di giustizia dell’Unione europea, che davvero, su questo terreno, procedono “mano nella mano”[1].
La Corte europea dei diritti dell’uomo si è occupata in varie occasioni del diritto di accesso al giudice, in particolare relativamente alle Corti supreme, o di ultima istanza. Un riepilogo dei principi elaborati dalla giurisprudenza a questo proposito si trova nella recente sentenza della Grande Camera Zubac c. Croazia (n. 40160/12, GC, 5 aprile 2018, §§ 76-82), alla quale si rinvia.
L’art. 6 della Convenzione non obbliga gli Stati contraenti a dotarsi di Corti di appello o di cassazione, ma se tali giurisdizioni esistono, le garanzie poste da questa disposizione si applicano anche in tali sedi, in particolare relativamente al diritto di accesso al giudice, per le decisioni inerenti ai “diritti ed obbligazioni di carattere civile” presi in considerazione dal § 1 del detto art. 6.
Detto questo, la Corte di Strasburgo considera fisiologiche possibili restrizioni all’accesso presso le Corti supreme, ammettendole se giustificate da un fine legittimo e proporzionate.
La Corte procede in primo luogo a considerare se la restrizione al suo esame persegue un fine legittimo, e poi passa a valutare la proporzionalità della stessa restrizione. Nella valutazione della proporzionalità della restrizione, la Corte procede ad un esame in concreto, prendendo in considerazione normalmente tre fattori: a) la prevedibilità della restrizione; b) la responsabilità – in capo al ricorrente o alle autorità – degli eventuali errori procedurali che abbiano impedito l’accesso alla giurisdizione superiore; e c) se la restrizione applicata riveli un “formalismo eccessivo” (v. Zubac, cit., § 85).
2. Le fattispecie litigiose
Come si è detto, i tre casi considerati dalla sentenza Succi riguardavano, per l’appunto, accuse di “formalismo eccessivo” rivolte alle decisioni di inammissibilità adottate dalla Corte di cassazione.
Nel primo caso (n. 55064/11, Succi), si trattava di una procedura di sfratto. Contro la sentenza a lui sfavorevole della Corte di appello di Catania, il ricorrente si era rivolto alla Corte di cassazione sollevando cinque motivi di impugnazione. La Sesta sezione civile della Corte di cassazione, con ordinanza n. 4977/11, riteneva inammissibile il ricorso perché, in violazione dell’art. 366, primo comma, n. 4 e 6, esso non conteneva la rubrica dei motivi, con la puntuale indicazione delle ragioni per le quali essi motivi erano stati proposti, né la “specifica indicazione” degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso.
Nel secondo caso (n. 37781/13, Pezzullo), veniva in rilievo una controversia nella quale il ricorrente chiedeva al Comune di Frattamaggiore un risarcimento per un danno d’acqua subito da un immobile di sua proprietà. Contro la sentenza sfavorevole della Corte di appello di Napoli veniva proposto ricorso per cassazione con quattro motivi. All’epoca si applicava l’art. 366 bis del codice di procedura civile, introdotto dall’art. 6 del d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, poi abrogato dall’art. 47, comma 1, lett. d) della l. 18 giugno 2009, n. 69, sui “quesiti di diritto”. Con sentenza n. 3652 del 2013, la Terza sezione civile della Corte di cassazione dichiarava l’inammissibilità del ricorso per diverse ragioni: a) l’inidoneità dei “quesiti di diritto”, allora necessari, redatti in modo “astratto e generico”; b) per difetto di “autosufficienza” del ricorso, alla stregua dell’art. 366, primo comma, n. 6 cod.proc.civ., perché i documenti dei quali si lamentava in ricorso l’erronea valutazione o l’assenza di valutazione erano stati menzionati senza la riproduzione delle parti pertinenti e, laddove queste parti erano state riprodotte, omettendo di citare i riferimenti che avrebbero permesso di reperire gli stessi documenti; c) per il carattere apodittico delle critiche rivolte alla sentenza impugnata; d) relativamente al vizio di motivazione che era stato denunciato, il ricorso non conteneva, in violazione dell’art. 366 bis, secondo comma, cod.proc.civ., applicabile all’epoca, una chiara indicazione delle ragioni di critica.
Nel terzo caso (n. 26049/14, Di Romano et al.) si trattava del risarcimento dei danni richiesto dai familiari della vittima di un incidente stradale mortale. La Corte d’appello dell’Aquila riduceva l’ammontare del risarcimento accordato in primo grado e gli attori proponevano un ricorso per cassazione con quattro motivi. Con ordinanza n. 21232/13, la Sesta sezione civile della Corte di cassazione dichiarava inammissibile il ricorso ritenendo non assolta l’esigenza, posta dall’art. 366, comma primo, n. 3 cod.proc.civ., di una sintetica esposizione dei fatti nel ricorso per cassazione, con riguardo sia alla situazione litigiosa sia allo svolgimento della procedura. La Corte di cassazione osservava che nel ricorso al suo esame la “sintetica esposizione dei fatti” si prolungava per 51 pagine (sulle 80 complessive del ricorso) e riproduceva integralmente una serie di atti di procedura raggruppandoli con la cosiddetta tecnica dell’assemblaggio, senza il minimo sforzo di sintesi che permettesse di ricostruire la cronologia e lo sviluppo della procedura nei suoi snodi essenziali.
3. L’analisi della Corte europea
Dopo aver esposto sinteticamente la giurisprudenza della Corte di cassazione sul principio di autosufficienza del ricorso in cassazione e sull’art. 366 bis cod.proc.civ., la Corte europea ha esaminato i tre casi, giungendo a conclusioni diverse: di violazione nel primo e di non violazione nel secondo e nel terzo.
A parte la questione dei “quesiti di diritto”, che oggi presenta un interesse essenzialmente storico e a proposito della quale la Corte europea ha confermato la propria giurisprudenza (Trevisanato c. Italia, n. 32610/07, 15 settembre 2016), secondo la quale quel meccanismo processuale era compatibile con la Convenzione, sono interessanti le considerazioni della Corte di Strasburgo svolte a proposito del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, principio con il quale la Corte europea ha ritenuto compatibile – affermando in qualche modo la sua riconducibilità ad esso – l’esigenza di sintesi nell’esposizione del fatto, che conduce all’inammissibilità dei ricorsi che fanno uso della cosiddetta tecnica dell’assemblaggio (Succi, cit., § 110).
Svolgendo considerazioni comuni ai tre ricorsi riuniti, la Corte di Strasburgo ha sottoposto ad esame il principio di autosufficienza del ricorso in cassazione per come esso è stato elaborato dalla giurisprudenza, ed è giunta alla conclusione che questo principio, inteso come restrizione al diritto di ricorrere in Cassazione, persegue un fine legittimo, non accogliendo quindi la tesi dei ricorrenti, che tutti lo avevano contestato, denunciandone l’incompatibilità con la Convenzione (Succi, cit., § 74).
La Corte europea ha preso in esame le ragioni del principio quali emergono dalla giurisprudenza, e cioè la sua necessità per facilitare la comprensione dell’affare e delle questioni sollevate nel ricorso e per permettere alla Corte di cassazione di decidere senza dover consultare altri documenti, affinché essa possa preservare il suo ruolo e la sua funzione, che si risolvono nella garanzia, in ultima istanza, dell’applicazione uniforme e della corretta interpretazione del diritto nazionale (nomofilachia). Considerati questi elementi, la Corte europea è giunta alla conclusione, come si è anticipato, che il principio di autosufficienza persegue un fine legittimo, giacché esso tende a semplificare l’attività della Corte di cassazione e, allo stesso tempo, ad assicurare la certezza del diritto (sécurité juridique) e la buona amministrazione della giustizia (Succi, cit., § 74 e 75).
Ci sembra quindi che la sentenza Succi – sebbene si sia espressa in un caso, il primo dei tre ai quali si fatto cenno, caso sul quale subito torneremo, nel senso della violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione – rappresenti un autorevole avallo della giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di autosufficienza del ricorso ad essa, con il riconoscimento della meritevolezza dell’esigenza che la giurisdizione di vertice dell’ordinamento italiano sia posta in condizione di assolvere il suo primario compito nomofilattico.
Nei due casi nei quali la Corte europea è giunta ad una conclusione di non violazione dell’art. 6 § 1 essa ha constatato, nell’esame della proporzionalità della restrizione, che ha fatto seguito all’accertamento della legittimità del fine perseguito, accertamento, lo si ripete, che è stato positivo per tutti e tre i casi, che il principio di autosufficienza era stato correttamente applicato.
Se nel primo caso (n. 55064/11) essa è pervenuta ad una soluzione diversa, questo si deve ad un esame in concreto dell’applicazione del principio di autosufficienza, che in questa vicenda è stato impiegato secondo la Corte europea, per l’appunto, “con eccessivo formalismo”.
Perché? Come si ricorderà, nel caso in questione la Corte di cassazione aveva ritenuto inammissibile il ricorso all’esame essenzialmente per due ragioni. Da una parte, perché mancava la rubrica dei motivi, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui essi erano stati proposti e, d’altra parte, perché difettava la “specifica indicazione” degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso. Procedendo all’esame in concreto degli atti, la Corte di Strasburgo ha invece constatato da un canto che le doglianze relative agli errores in procedendo e in judicando denunciati erano state esposte con sufficiente chiarezza e, d’altro canto, che la lettura del ricorso dimostrava che i passaggi pertinenti della sentenza impugnata erano stati riprodotti e che, nel citare i documenti della procedura di merito utili per sviluppare il suo ragionamento, il ricorrente aveva trascritto i brani pertinenti e indicato i riferimenti ai documenti originali, così permettendone l’identificazione tra quelli depositati con il ricorso.
4. Qualche riflessione
Quindi, compatibilità convenzionale del principio di autosufficienza e violazione dell’art. 6 § 1, in concreto, per la sua applicazione con “eccessivo formalismo”, non giustificabile proprio alla luce della finalità del principio di autosufficienza e dunque del fine perseguito, cioè quello della garanzia della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia (Succi, cit., § 92).
Tutto bene dunque? Fino ad un certo punto, perché se si può ritenere che la violazione constatata a Strasburgo non metta in discussione la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione sull’autosufficienza del ricorso davanti ad essa, questa sentenza è comunque un campanello di allarme, specialmente se si considera il monito contenuto nel § 82 della sentenza. Pur senza trarne conseguenze ai fini della decisione, la Corte osserva che “almeno fino alle sentenze n. 5698 e 8077 del 2012,” l’applicazione del principio di autosufficienza del ricorso “rivela una tendenza dell’Alta giurisdizione a porre l’accento su aspetti formali che non sembrano rispondere allo scopo legittimo identificato”, “in particolare per quanto attiene all’obbligo di trascrizione integrale dei documenti considerati nei motivi, e all’esigenza di prevedibilità [corsivo aggiunto] della restrizione.”
In un commento “a caldo” della sentenza Succi Bruno Capponi nota come – probabilmente perché il punto non era stato sollevato nei ricorsi – la pronunzia europea lasci nell’ombra un altro aspetto sovente coltivato nelle decisioni di inammissibilità della Corte di cassazione, quello della esigenza di specificità dei motivi, pure questo strumento di creazione giurisprudenziale e, secondo l’Autore, di applicazione non sempre prevedibile, e che Capponi pure colloca, insieme all’autosufficienza, in una dimensione sanzionatoria e di deterrenza alla quale a suo giudizio la giurisprudenza della Corte di cassazione indulgerebbe eccessivamente e che sarebbe cosa diversa dal formalismo giuridico[2].
Sia come sia, crediamo che questa sentenza europea, che pure, come dicevamo, non mette in discussione, a nostro sommesso avviso, la giurisprudenza della Corte di cassazione, induce comunque alla riflessione, soprattutto a proposito della esigenza di assoluta chiarezza e prevedibilità delle ragioni poste dalla Corte di legittimità alla base delle sue decisioni di inammissibilità.
Come si potrebbe non essere d’accordo con Bruno Capponi quando egli lamenta l’oramai ineludibile e stucchevole messe di eccezioni di inammissibilità che accompagna ogni gravame e le conseguenti, altrettanto stucchevoli, parti delle decisioni che vi rispondono prima di poter passare al merito della causa[3]? E come non sostenere il suo appello al legislatore perché sia lui, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso alla Corte di cassazione, magari con una valutazione scientifica e non approssimativa risorse necessarie[4]?
Nel frattempo, vorremmo dire dunque adelante, ma, beninteso, con juicio, senza mai dimenticare che il processo è uno strumento che deve permettere l’affermazione del diritto, e non una potenziale trappola per i suoi utenti.
[1] F.KRENC, L’État de droit: une exigence à clarifier, un édifice à préserver, in Revue trimestrielle des droits de l’homme (RTDH), 2021, p. 787 ; R.SPANO, Rule of Law: la Lodestar della Convenzione europea dei diritti dlel’uomo. La Corte di Strasburgo e l’indipendenza della magistratura, in questa Rivista, 4 marzo 2021; K.LENAERTS, The Two Dimensions of Judicial Independence in the EU Legal Order, in Fair Trial: Regional and Internaztional Perspectives. Liber Amicorum Linos-Alexandre Sicilianos, Anthemis, Limal, 2020, p. 333-348 ; F.BILTGEN, L’indépendance du juge national vue depuis Luxembourg, in Revue trimestrielle des droits de l’homme (RTDH), 2020, p. 551-566.
[2] B.CAPPONI, Il formalismo in Cassazione, in questa Rivista, 31 ottobre 2021.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.