GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Recensione a Giuliano Scarselli, In devoto omaggio. Ricordo dei processualisti del passato, Pisa, 2021, pagg. 184

    Recensione a Giuliano Scarselli, In devoto omaggio. Ricordo dei processualisti del passato, Pisa, 2021, pagg. 184

    di Bruno Capponi

    Giuliano Scarselli è un apprezzato processualcivilista, ma soprattutto un avvocato. Ciò spiega l’immagine di copertina, che vede un difensore in toga (forse lo stesso Scarselli) camminare, da solo e con passo che sembra spedito, in un corridoio deserto del Palazzaccio. Chiunque di noi, recandosi verso una delle rare udienze pubbliche con la toga sulle spalle, ha avvertito il senso di isolamento e di superfluità che comunica attualmente la Corte al difensore, e che quell’immagine di copertina restituisce con l’efficacia fulminante di una tavola di Daumier. Nel risvolto di destra, Scarselli è anzitutto un avvocato (cassazionista dal 1999), e poi professore ordinario di diritto processuale civile a Siena.

    Il risvolto di sinistra avverte che abbiamo tra le mani non un «testo giuridico» ma un «libro di lettura», nel quale Scarselli ha raccolto le notizie «che è riuscito a riassumere» su alcuni grandi processualisti del passato (ma anche del presente: l’ultimo omaggio è al suo maestro Andrea Proto Pisani) che evidentemente Scarselli ha scelto, fra tanti altri, per affinità elettiva. Chiarissima nel caso di Andrioli e Proto Pisani perché frutto di esperienza diretta, non meno visibile nel caso di Calamandrei, figura che occupa tre capitoli del libro, di Carnelutti – forse il meno simpatico dei processualisti del passato, anche per quello che ci hanno tramandato le cronache – e poi nel caso dei due grandi che Franco Cipriani aveva chiamato affettuosamente Patres: Mattirolo e Mortara. Il secondo più celebrato anche dai contemporanei (rammentiamo il convegno del maggio 2019 tenutosi in Cassazione su Mortara, un padre del diritto e la bella relazione di Carmelo Sgroi, La «missione» del magistrato nella concezione di Lodovico Mortara, in questa Rivista dal 27 febbraio 2020 e in Riv. dir. proc., 2019, 1172 ss.), il primo sconfitto invece dalla Storia, perché esponente di una scuola e di un metodo che non avrebbero superato la prova “germanista” di Chiovenda. E, certo, nel volume compare (non poteva non comparire) anche il padre per eccellenza della materia (qualcosa anzi di più remoto per Scarselli, posto che Andrioli è stato l’ultimo allievo di Chiovenda e poi il maestro di Proto Pisani): ma con un risalto che certamente non lo pone al vertice della personale classifica dell’A.

    Dopo i notissimi studi di Cipriani, molti processualisti si sono ingegnati a ricostruire le vite dei vari colleghi del passato e questi contributi (ricordiamo, tra gli altri, quelli sempre ben documentati di Enzo Vullo, editi sulla Processuale) hanno spesso la caratteristica di presentare al lettore quante più notizie (e addirittura curiosità) si possano rinvenire nelle fonti, che ovviamente non sono soltanto quelle classiche del giurista. Non è questo il metodo adottato da Scarselli, al quale non interessa tanto la completezza dei dati quanto il riscontro tra i valori attuali (o forse più che di valori occorrerebbe parlare di esigenze) e quelli ancora vivi del più o meno recente passato, dei quali i maestri onorati sono stati interpreti: di Mattirolo viene esaltato il «liberalismo processuale» (altri direbbe il garantismo), di Mortara il valore dell’uguaglianza e della modernità, con le battaglie a favore delle donne e delle classi sociali meno abbienti, di Chiovenda i prezzi pagati per il suo essere antifascista, di Carnelutti la sua vasta esperienza di giurista (commercialista, processualista, penalista) ma soprattutto la sua «vita da avvocato», lasciando intendere che proprio l’avvocatura era stata la sua vera maestra di vita (come lo stesso Carnelutti ammetteva nella visione retrospettiva della sua esperienza). Quanto a Calamandrei (fiorentino come Scarselli), basta la nota che si estende da pag. 87 a pag. 89 per dar conto delle affinità che l’A. sente di avere col grande giurista e, direi, umanista e scrittore del passato recente, il cui nome è del resto ben noto anche oltre gli specialistici confini degli addetti ai lavori.

    Così, chi si accinge a leggere il libro di Scarselli comprenderà presto di non trovarsi dinanzi a una silloge di voci enciclopediche sulle vite di taluni grandi giuristi del passato (e del presente); si trova piuttosto tra le mani una viva testimonianza che parla dei valori propugnati da quegli illustri giuristi che tuttora riescono utili a noi, anche perché lasciano intravedere il fil rouge che lega l’esperienza del passato a quella presente. Percepisce il lettore che per Scarselli il massimo valore, la massima qualità del giurista è quella di essere una persona libera, che ragiona con la sua testa senza condizionamenti; è quella di avere la stessa indipendenza, assai spesso scomoda e abrasiva, che l’A. ha riscontrato nel suo protomaestro Andrioli (anti-diplomatico per eccellenza) e poi nel suo maestro Proto Pisani.

    Il libro di Scarselli, che si legge con grande facilità e immediatezza, induce anche a chiedersi perché – non mi sembra che ciò avvenga in altre discipline – i processualisti del presente mostrino tanto interesse per i colleghi del passato. A una simile domanda non può che darsi una risposta personale, rispetto alla quale il libro di Scarselli costituisce poco più di un’occasione. Provo a dare la mia: negli anni ’90, allorché apparvero i primi scritti di Cipriani (risalgono al 1991 le Storie di processualisti e di oligarchi), ebbi l’impressione di un interesse un poco eccessivo, introspettivo e tutto sommato non troppo producente rispetto alle opere e soprattutto alla vita (comprese le alterne vicende concorsuali, che sono patrimonio di tutte le epoche) dei grandi del passato. Ora capisco, e il libro di Scarselli è certamente tra quelli che mi hanno indotto a cambiare opinione, che attraverso l’esame delle esperienze dei Patres l’obiettivo che si intende perseguire è risalire alle radici essenziali di una materia, i cui valori tuttora faticano a venire recepiti nell’esperienza delle giurisdizioni. Credo che molti giuristi, di varia estrazione, percepiscano il diritto processuale civile come un insieme astruso, stantio e di scarsa utilità, col quale occorre misurarsi soprattutto per fugare il rischio di commettere errori. Al tempo stesso, fin dagli anni ’90 – e quindi in casuale concomitanza con l’inizio delle ricerche di Cipriani – sulle sue povere spalle è stato scaricato tutto il peso delle possibili riforme del nostro asfittico sistema di tutela dei diritti sul presupposto, la cui avventuristica erroneità è oramai a tutti nota, che cambiando qui e là qualche regola del processo quel sistema potesse magicamente rimettersi in moto per raggiungere uno standard “europeo”. Ciò non poteva certo avvenire e puntualmente non è avvenuto, e tale fallimento ha finito per moltiplicare le scarse simpatie per la materia, del resto ostica di per sé, e di tali scarse simpatie è dato oramai di vedere testimonianza non soltanto nel Foro ma addirittura nelle Accademie. Le cattedre sono rimaste poche, i dipartimenti su di esse non investono: altri sono gli insegnamenti di tendenza, sui quali puntare per le speranze dei giovani laureati. Del processo non ne parliamo: il c.d. diritto giudiziario, soprattutto in sede di legittimità, ha spesso fatto strame della legge processuale, sino al punto di affermare – qui e là vediamo ora qualche piccolo ripensamento, ma ci vorrà molto per risalire la china – che la stessa sua violazione è indifferente perché non esiste un diritto astratto al rispetto delle regole del processo e chi ne denunzia le violazioni deve anche dimostrare lo specifico pregiudizio che da quelle violazioni gli sia derivato. Non parliamo poi delle norme “processuali” la cui funzione è quella di respingere i contenziosi o consentirne la definizione con pronunce non di merito: qui la scarsa simpatia non può che essere corrisposta, perché norme di tal fatta finiscono per tradire quello che è il fine ultimo e più nobile del processo civile.

    Credo quindi che il libro di Scarselli, nel ricordarci l’opera di grandi processualisti del passato (e del presente), e di ricordarcela sul presupposto «che nel pensiero e nella vita di questi giuristi vi siano non solo alti valori di civiltà, bensì insieme temi e aspirazioni ancora attuali» (così si legge nella bandella sinistra), sia in realtà una difesa dei valori alti e nobili del diritto processuale civile, che sono sempre stati gli stessi ma che da qualche tempo risultano offuscati per responsabilità diffuse, non ultime proprio di quei “processualisti” che hanno voluto indulgere in troppo involuti tecnicismi; valori tuttavia che un giorno, che ci auguriamo non troppo lontano, dovranno pur tornare a risplendere.

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