GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La revisione delle piante organiche della magistratura: ancora un’occasione mancata di Marco Modena

    La revisione delle piante organiche della magistratura: ancora un’occasione mancata

    di Marco Modena

    Sommario: 1. Premessa - 2. I parametri scelti per dimensionare le piante organiche - 3. Il parametro più rilevante: le statistiche sulle iscrizioni - 4. Lo scostamento dalle statistiche nel dimensionamento delle piante organiche - 5. Conclusioni.

    1. Premessa

    Sosteneva Bismarck che meno le persone sanno come vengono fatte le salsicce e le leggi, e meglio dormono la notte. Lo stesso discorso si potrebbe fare per le piante organiche della magistratura. L’attuale presidente di una Corte d’Appello del Nord, che in passato ha ricoperto importanti incarichi al Ministero della Giustizia e al CSM, parlava qualche anno fa di “totale assurdità delle configurazioni degli organici che sembra rispondere più a sedimentazioni storiche e a ragioni casuali che a qualsiasi parametro razionale[1]. L’opinione è perfettamente condivisibile, come si dimostrerà in questo articolo.

    Negli ultimi anni, sono stati attuati due interventi di revisione in aumento delle piante organiche: limitando l’orizzonte agli uffici giudicanti di primo grado, il primo è avvenuto tramite il D.M. 1° dicembre 2016, che ha distribuito 136 nuovi posti[2], ed il secondo  col D.M. 14 settembre 2020, che ha ripartito altre 175 unità, tra quelle previste in aumento dalla legge.  Tali interventi potevano essere un’occasione per correggere quelle “assurdità” dovute alle sedimentazioni storiche o ad altre casuali ragioni. Il motivo, infatti,  per cui è difficile correggere tali storture, consiste nella difficoltà nel far accettare delle riduzioni agli uffici sovra-dimensionati, onde reperire le risorse da destinare a quelli più in sofferenza. Sia perché in qualche caso ciò potrebbe comportare dei trasferimenti d’ufficio, sia perché, comunque, nessun dirigente accetta volentieri una riduzione del proprio organico. “Quando (…) per aumentare l’organico da una parte si decide di diminuirlo dall’altra, subito si manifestano innumerevoli opposizioni”, diceva sempre l’alto magistrato ricordato sopra[3]. L’aumento dell’organico complessivo consentirebbe invece, destinando le nuove risorse ai soli uffici che ne hanno davvero bisogno, di ripianare gradualmente le disparità evitando il fastidio di dover fare troppi tagli. Ma, anche questa volta come in passato, l’occasione sembra essere stata sprecata.

    Si sono già esposti in altra sede[4] i motivi di critica alla revisione del 2016, basati soprattutto su un confronto tra gli aumenti “a pioggia” disposti dal Ministero, e le esigenze del settore civile individuate attraverso una puntuale analisi della situazione dei singoli uffici evinta dai dati statistici. Sinteticamente, riprendendo i risultati di quel precedente lavoro, si è visto come, mettendo in ordine crescente di durata media effettiva delle cause civili i 140 tribunali italiani, almeno in linea tendenziale (raggruppando i tribunali stessi in 4 quartili) la durata cresce in proporzione al numero di procedimenti iscritti per ciascun giudice effettivamente addetto al settore civile; solo nel passaggio dal secondo al terzo quartile sembra che la tendenza sia contraddetta, ma in apparenza, perché, se si guarda ad un altro fattore che determina il carico di lavoro (individuale e complessivo), e cioè la percentuale di cause che vengono definite con sentenza rispetto al totale delle cause definite, si vede che, anche in questo caso, la durata cresce al crescere del carico lavorativo (effettivo) pro-capite. Ne consegue un apparente paradosso: che la durata delle cause è mediamente più lunga (quindi la performance del tribunale è peggiore) proprio dove i giudici lavorano di più, e viceversa: il numero delle sentenze pro-capite emesse dai giudici di ciascun tribunale in un anno è infatti (almeno in linea di tendenza) inversamente proporzionale alla velocità delle cause. Questi primi risultati sembrano clamorosamente smentire le tesi (culturalmente egemoni negli ultimi 10-15 anni) secondo cui la crisi della giustizia civile non dipenderebbe da una mancanza di risorse, bensì solo da un difetto di organizzazione. Si erano anche formulate due proposte alternative di revisione delle piante organiche: una a “a saldi invariati”, ossia redistribuendo l’organico esistente in proporzione ai carichi di lavoro effettivi, come sopra individuati; ed una attribuendo a tutti i tribunali una forza lavoro tale da garantire il medesimo rapporto tra carico di lavoro e personale, che si ha nel tribunale più “veloce” (Aosta); nella prima ipotesi, a costo zero, si era  visto che i tagli sarebbero avvenuti soprattutto nei tribunali con migliori performances, prevalentemente collocati al Nord, a vantaggio di quelli più “lenti” (ma non per questo meno efficienti, tenuto conto delle sentenze pro-capite), prevalentemente del Sud. Nel secondo caso, vi sarebbero stati egualmente dei tagli in alcuni tribunali sovra-dimensionati, ma in misura minore rispetto alla prima ipotesi, e sarebbe occorso un aumento di organico, limitatamente al settore civile, di 492 posti (che diventavano 890 rispetto ai posti effettivamente coperti)[5]

    Il più recente intervento del 2020 consente di riprendere l’argomento, approfondendo l’analisi critica della metodologia impiegata e dei suoi esiti.

    2. I parametri scelti per dimensionare le piante organiche

    Rispetto alla revisione del 2016[6], rimangono numerosi aspetti criticabili, che vengono emendati solo in parte. Anzitutto resta, non condivisibile, la scelta di indicare numerosi parametri (quantitativi e qualitativi) potenzialmente confliggenti tra loro, senza attribuire a ciascuno di essi un determinato peso specifico quantitativo-numerico sulla determinazione del risultato finale, al fine di rendere trasparente e non discrezionale la scelta operata. I lavori preparatori del decreto sono stati condotti da un comitato paritetico Ministero-CSM, come si legge nella relazione tecnica[7] all’ultimo decreto, e come peraltro era avvenuto anche nel 2016; e sia il CSM che la dirigenza ministeriale fanno parte di quel “sistema” di porte girevoli e vasi comunicanti che è governato dal correntismo associativo e consociativo della magistratura, recentemente balzato all’attenzione della cronaca. In un campo nel quale ognuno degli interessati (soprattutto i capi degli uffici giudiziari) fa pesare la propria influenza, condizionata dai legami correntizi dell’uno o dell’altro dirigente,  rinunciare a fissare criteri predeterminati e verificabili ex post (cioè a quelli che la relazione tecnica, pag. 22, definisce spregiativamente, per prenderne le distanze, “sterili calcoli matematici valoriali e di rapporti”) significa ridurre  fortemente la credibilità di tutta l’operazione. Come emerso tragicamente e di recente anche nella gestione della pandemia (specie nell’individuare i “colori” delle Regioni), il potere politico-amministrativo[8] in Italia è restio ad affidarsi a dati semplici e verificabili, anche laddove le scelte debbano essere tecniche, preferendo confondere le acque con una serie di parametri sovrapponibili e ingarbugliati tra loro, per poter avere le mani libere nell’operare discrezionalmente secondo la propria innata vocazione clientelare.

    I parametri presi in considerazione, che sono “quantitativi mitigati da fattori qualitativi”, come avverte la relazione tecnica, sono rappresentati, per quanti concerne i primi, dai dati di flusso delle iscrizioni e delle pendenze, “accordando prevalenza al dato delle iscrizioni”; per quanto concerne i secondi , si possono suddividere in due ulteriori sotto-gruppi: A) fattori qualitativi di ordine sociologico, ossia 1) i city users, 2) lo IOC, ossia l’indice di criminalità organizzata[9], 3) la concentrazione di imprese sul territorio; B) fattori di statistica giudiziaria diversi da quelli considerati come “dati quantitativi”, ossia 1) la clearance rate (o, come si potrebbe dire, evitando il solito inglesorum[10],tasso di ricambio), cioè il rapporto tra procedimenti definiti e procedimenti sopravvenuti in un anno; 2) la durata media dei procedimenti, misurata col metodo del disposition time (ossia col rapporto tra pendenti a fine anno, e definiti nello stesso); 3) il trend di riferimento delle iscrizioni (utile a verificare se il dato statico – media del triennio 2016-2018 - rilevato si inserisce in un andamento “calante” o “crescente”). Quindi, la relazione tecnica afferma che è stato dato un particolare rilievo alle sedi distrettuali, in quanto dotate di competenze aggiuntive. Infine, enuncia una serie di criteri “analizzati (più che altro ai fini dell’analisi del trend) ma non utilizzati ai fini distributivi”, ritenendoli più utili nel futuro intervento sulle piante organiche flessibili distrettuali, e che sono rappresentati dall’arretrato (inteso come pendenze di più antica data, indice di una durata superiore a quella “ragionevole” ai sensi della c.d. Legge Pinto), dal turnover dei magistrati, e dalla scarsa appetibilità della sede.

    Si vuole subito dire come sia da condividere la scelta di abbandonare, rispetto al precedente D.M. del 2016, l’utilizzo dei due fattori della popolazione residente, e della classe  dimensionale degli uffici, su cui sia consentito rinviare alla critiche già mosse in una precedente occasione[11], e che pertanto non si staranno qui a ripetere.

    Su tutto il resto, invece, numerosi sono gli aspetti critici che devono essere evidenziati. A parere di chi scrive, uno solo doveva essere il fattore quantitativo da considerare, ossia quello delle iscrizioni, e uno solo poteva essere quella qualitativo da tenere in conto (ma attribuendogli una specifica valenza numerica) come correttivo, ossia la presenza di criminalità organizzata. Tutti gli altri, come meglio si vedrà, sono fonte di distorsione perché implicano una duplicazione di analisi, cioè rappresentano degli “esaltatori di sapidità” che nulla aggiungono, nella sostanza, alla situazione di un determinato ufficio, rappresentando soltanto fattori che del rapporto procedimenti/magistrati sono o la causa, o l’effetto, e che quindi dovrebbero ritenersi assorbiti dai dati sui flussi.

    Cominciando dalle iscrizioni, che rappresentano il numero dei nuovi procedimenti introdotti in un anno in ciascun ufficio,si può ritenere che esse soltanto siano il dato rappresentativo della “domanda di giustizia” (ma meglio sarebbe dire del “bisogno di giustizia”), mentre il numero dei procedimenti pendenti, cioè quelli rimasti da definire a fine anno, se sproporzionato alle sopravvenienze, non può che essere il frutto o di situazioni contingenti  (assenze per malattie o altro impedimento, turnover, etc.), o, al limite, di una scarsa laboriosità dei magistrati. Nel primo caso, rappresentano una situazione destinata a essere riassorbita col tempo, e che pertanto richiede non una modifica dell’organizzazione stabile dell’ufficio (le piante fisse), ma provvedimenti di carattere temporaneo, come le supplenze e le applicazioni, anche avvalendosi di strumenti quali le nuove piante organiche flessibili a livello distrettuale, oggetto di altro provvedimento. Nel secondo caso, pur potendosi accompagnare anche a misure come quelle appena descritte per far fronte all’emergenza, i rimedi dovrebbero essere principalmente di tipo sanzionatorio (in senso lato, comprendendo anche la mancata conferma dei dirigenti).

    Si vedrà in seguito come anche il criterio delle iscrizioni (o sopravvenienze), che deve ritenersi l’unico accettabile, in realtà, per come adottato dal Ministero, presti il fianco a pesanti critiche. Per comodità di esposizione, è opportuno passare ora brevemente in rassegna gli altri criteri, cominciando da quelli qualitativi. Anche stavolta, il Ministero insiste nel voler prendere in considerazione, come criterio correttivo, quello dei city users, che possono essere definiti come le persone che utilizzano una città a vario titolo, senza esservi residenti: le categorie che vengono subito in mente sono quelle dei pendolari, dei turisti, degli studenti fuori sede[12]. Orbene, il criterio dei city users sembra plausibile soltanto come correttivo del criterio della popolazione residente: se, per ipotesi, si dovesse organizzare un nuovo servizio pubblico di cui non si sappia ancora quanti saranno gli utenti e come saranno distribuiti sul territorio, un criterio approssimativo ma pur sempre razionale, in mancanza d’altro, potrebbe essere quello di distribuire le risorse sul territorio in proporzione alla popolazione che astrattamente avrebbe diritto di beneficiarne; ma, se l’uso del servizio non fosse condizionato alla residenza anagrafica, allora sarebbe altrettanto razionale correggere il dato dei residenti considerando anche la presenza di chi, a vario titolo, trovandosi sul territorio, potrebbe alimentare la domanda (che ancora non si conosce)di quel servizio. Nel caso che interessa, invece, è la stessa relazione tecnica 17.12.2019 a dirci (pag. 24) che questa volta si è scelto di utilizzare le iscrizioni dei nuovi procedimenti, civili e penali, come fattore principale di dimensionamento degli organici “senza considerare il criterio tradizionalmente usato della popolazione che, come già evidenziato dall’analisi dei risultati dei precedenti interventi, si è rivelato fallace e comunque recessivo rispetto al criterio delle iscrizioni”. In altre parole, il Ministero constata finalmente che gli uffici giudiziari non possono essere dimensionati sulla base del numero dei potenziali fruitori (la popolazione interessata), essendo evidente che sia la litigiosità che la criminalità non sono rigidamente proporzionali al numero degli abitanti, ma sono influenzate da fattori sociali, economici e culturali di vario genere, e che pertanto per distribuire i magistrati sul territorio occorre avere riguardo al numero dei procedimenti, più che alla popolazione. Ma, se così è, quale correttivo può comportare al numero delle iscrizioni quello dei “city users”? Se questi ultimi alimentano il contenzioso o la criminalità, si è già tenuto conto del loro effetto contando i procedimenti di nuova iscrizione; e se non lo alimentano, è perfettamente inutile contarli (ammesso che si riesca a farlo in modo preciso).

    Un discorso perfettamente identico va fatto in relazione al numero delle imprese sul territorio. Anche questo potrebbe essere un dato utile a prevedere il potenziale ricorso alla giustizia qualora il servizio giudiziario fosse (per assurdo) di nuova istituzione, e non si conoscesse il dato di esperienza dei procedimenti iscritti; oppure qualora di questi ultimi (sempre per assurdo) non si tenesse il conto, e mancassero le statistiche giudiziarie. Ma poiché nessuna delle due ipotesi è reale, allora non si vede cosa possa aggiungere la densità delle imprese sul territorio (che è solo un potenziale fattore di alimentazione del contenzioso, dei fallimenti, dell’esecuzione forzata, della criminalità economica, e così via) al numero dei procedimenti che già sconta il fatto di essere alimentato dalla presenza delle stesse imprese. Insomma, è un contare lo stesso fattore due volte, con un palese effetto distorsivo.

    Del correttivo rappresentato dalla presenza di criminalità organizzata invece si è detto bene, e lo si ribadisce, perché (e qui si comincia ad introdurre un concetto che andrà ripreso in seguito, come si vedrà), tra i procedimenti giudiziari non si può dire che “uno vale uno”: la criminalità organizzata non solo comporta un maggior numero di procedimenti (e neanche sempre, poiché talvolta il suo controllo sul territorio può contribuire persino a tenere a freno la micro-criminalità), ma soprattutto comporta procedimenti più complessi. Un maxi-processo per mafia non richiede lo stesso impiego di tempo e di energie di un processo per guida senza patente. E’ corretto, pertanto, attribuire alla presenza di criminalità organizzata una funzione correttiva dei puri dati quantitativi. Anche qui, però, se l’operazione non vuole essere arbitraria, si dovrebbero adottare dei criteri di quantificazione oggettivi, anzitutto per dimensionare il fenomeno, e poi per attribuire allo stesso un preciso valore incrementale rispetto alle altre grandezze considerate. Si è visto sopra, alla nota  9, quanto siano divergenti i dati che il Ministero ha utilizzato in due occasioni ravvicinate (2016 e 2019) attingendoli da diversi istituti di ricerca privati. Forse sarebbe più razionale utilizzare dati già a disposizione dell’amministrazione, come le iscrizioni di procedimenti provenienti dalla DDA, attribuendo loro un valore percentualmente più alto (ad esempio del 10, del 20, o del 30%, anche qui tenendo conto di dati oggettivi, come il numero di udienze per ogni processo, o il numero dei capi di imputazione o degli imputati) del normale.

    Passando ora all’esame dei correttivi di natura statistica, si può dire che clearance rate (rapporto tra definizioni e iscrizioni) e disposition time (rapporto tra pendenze e definizioni) altro non sono che la risultante di altri indicatori statistici già presi in considerazione, quali le iscrizioni e le pendenze, con l’aggiunta del dato di risultato, rappresentato dalle definizioni. Orbene, del motivo per cui non si dovrebbe tener conto delle pendenze nell’elaborare le piante organiche si è già detto. Quanto alle definizioni, si tratta di un dato che non dovrebbe essere utile a dimensionare gli organici, poiché dipende principalmente dall’impegno individuale nell’espletare il carico di lavoro assegnato, salvo considerare (nel settore civile) il  dato offerto dalla distinzione tra definizioni con o senza sentenza, e che può servire come correttivo delle iscrizioni, secondo quanto si spiegherà meglio in seguito. Il disposition time (che indica, con molta approssimazione, la durata prevedibile; la Direzione di Statistica, da qualche anno, elabora anche i dati relativi alla durata effettiva dei procedimenti, ma i decisori hanno preferito non avvalersene) dovrebbe servire da correttivo, nel senso di far assegnare maggiori risorse laddove i tempi siano più lunghi: ma se la lunghezza dei tempi trovasse ragione nella minor produttività, la considerazione di tale fattore rischierebbe di premiare l’inefficienza (mentre, come detto in generale per il dato delle pendenze, se trovasse la propria ragione in situazioni contingenti, assenze e simili, il rimedio dovrebbe essere di tipo temporaneo). Il tasso di ricambio (o clearance rate) poi, sta ad indicare un buon funzionamento dell’ufficio: un tasso di ricambio superiore a 1,  che si ha quando le definizioni superano le iscrizioni, quindi, potrebbe far considerare in modo riduttivo le esigenze dell’ufficio, e viceversa. Ma se tale dato dovesse dipendere da un impegno superiore (o, nel caso opposto, inferiore) alla media, rischierebbe anche in questo caso di premiare l’inefficienza e penalizzare la laboriosità. 

    Quanto poi al trend, ossia all’andamento tendenziale, fermo restando che, come avverte la stessa relazione tecnica, i flussi possono comportare mutamenti nel tempo, cosicché si afferma il  “principio innovativo rappresentato dalla ‘revisione permanente’ delle piante organiche del personale di magistratura, inteso come esigenza di maggiore dinamicità delle medesime e di costante revisione temporale”, l’aver preso in considerazione i dati statistici di un arco di tempo abbastanza ampio (il triennio 2016-2018) sembra già soddisfare l’esigenza di tener conto dei dati in una prospettiva dinamica. Semmai, si potrebbe attribuire all’anno più recente del periodo preso in considerazione un maggior rilievo, moltiplicandolo per un dato fattore numerico (ad esempio, 1,10, o 1,05), e correlativamente all’anno più risalente un analogo fattore di demoltiplicazione. O, in un’ottica più riduttiva, tener conto del trend solo in funzione degli arrotondamenti dei decimali che risultassero dalla proporzione tra iscrizioni e piante organiche, nel senso di arrotondare il risultato per eccesso nel caso di trend in aumento, e per difetto nell’ipotesi opposta.

    Venendo infine alla “particolare rilevanza” riconosciuta alle sedi distrettuali, per le maggiori competenze che le riguardano, e limitando lo sguardo ai tribunali, la valutazione deve essere articolata. Per quanto concerne il settore civile, le maggiori competenze previste da leggi speciali, come il cosiddetto “foro erariale”[13], o la sezione specializzata delle imprese[14], le considerazioni da fare sono simili a quelle svolte circa i city users o la concentrazione delle imprese: anche in questo caso ci si trova di fronte (stavolta grazie a un dato normativo, anziché sociologico) ad una fonte di maggior carico di lavoro, che viene già conteggiata nel numero delle iscrizioni. Attribuire un valore aggiuntivo a queste situazioni significherebbe contare due volte  un medesimo fattore. Diversa è invece la considerazione da fare per quanto concerne le competenze del cosiddetto “tribunale del riesame”, che decide in secondo grado sulle misure cautelari emesse da tutti i giudici del distretto di corte d’appello. Qui, infatti, di tali maggiori (e gravose) competenze, le statistiche penali non tengono conto, perché, come si apprende dalla “Guida alle statistiche – area penale” della Direzione di Statistica del Ministero[15], nessun rilievo statistico è attribuito alla richiesta di misure cautelari penali, né tantomeno alle relative impugnazioni, in quanto i procedimenti del GIP-GUP vengono calcolati solo quando giungono con richieste “definitorie” (di archiviazione, di decreto penale, di rinvio a giudizio). Di conseguenza, per rimediare a tale lacuna, è condivisibile attribuire una maggior rilevanza a queste sedi, anche se: 1) la relazione tecnica, anche in questo caso, non spiega in che misura (quantitativa) si traduca tale maggior rilevanza che si afferma di riconoscere; 2) sarebbe più semplice, anziché enunciare formule di riguardo che sembrano ispirate anche al “prestigio” della sede,  aggiungere un paragrafo alle statistiche penali per tener conto anche di questo tipo di lavoro (spesso duro e scomodo, anche per le polemiche mediatiche che spesso attira, oltre che per il fatto di affrontare casi delicati, e dover essere svolto entro termini giugulatori). E questo anche per un parallelismo con le statistiche dei procedimenti civili, che, come si vedrà,  salvo le richieste di copie alla cancelleria, conteggiano di tutto.

    3. Il parametro più rilevante: le statistiche sulle iscrizioni

    Anche se l’unico criterio adottato per dimensionare le piante organiche fosse quello delle iscrizioni, tuttavia, non tutti i problemi sarebbero risolti. Perché, esaminando  le statistiche allegate alla relazione tecnica del dicembre 2019[16], e comparandole con le statistiche che compaiono sul sito della Direzione di Statistica  www.webstat.giustizia.it , sorgono numerose perplessità. Anzitutto, pur essendo evidenziati separatamente, nelle schede distrettuali, i procedimenti civili e penali (sia per quanto concerne le iscrizioni che le pendenze), poi i due insiemi vengono sommati tra loro, ottenendo una cifra complessiva che, par di capire, è quella utilizzata come base per determinare le piante organiche. Così facendo, si attribuisce un’importanza sproporzionata al settore civile, dato che, a livello nazionale, si contano, come media del triennio 2016-2018, 2.315.032 iscrizioni civili e 1.161.367 iscrizioni penali (anche a causa delle diverse impostazioni delle due statistiche, come sopra si accennava). Poiché, tradizionalmente, in base alle disposizioni “tabellari” adottate per ciascun ufficio, la quota dei magistrati assegnati ai due  settori si aggira intorno al 50%[17], e tale distribuzione, essendo frutto di scelte che avvengono “sul campo” e da lungo tempo, può ritenersi in linea di massima aderente alle esigenze reali, prima di sommare mele e pere  (non solo un procedimento civile e uno penale sono due cose diverse, ma l’incommensurabilità delle due grandezze si accentua se nel civile si conteggiano i procedimenti sommari e nel penale, invece, non si computano le misure cautelari) si sarebbe dovuto predeterminare una quota per ciascuno dei due settori, e determinare le piante di ciascun ufficio per una parte (che si può ipotizzare prossima al 50%) in base al volume degli affari civili, e per l’altra parte in base al volume degli affari penali. Il diverso peso attribuito al civile rispetto al penale comincia già a configurare uno squilibrio territoriale a danno del Sud, dove gli affari penali pesano più che al Nord. Ma su ciò si tornerà ampiamente.

    Una seconda e grave criticità è data dalle modalità con cui sono state utilizzate le statistiche civili, che sommano non mele e pere, ma “mirtilli e meloni”[18]. I dati genericamente riferiti nelle schede distrettuali ai “procedimenti civili”, sia come iscrizioni che come pendenze, rappresentano infatti la sommatoria di ben sette diversi  tipi di procedimento, ciascuno considerato secondo la regola “uno vale uno”: a) cause civili ordinarie; b) cause di lavoro e previdenza; c) procedimenti fallimentari e concorsuali; d) esecuzioni; e) procedimenti speciali e sommari (tra cui i monitori); f) volontaria giurisdizione; g) altri. La relazione tecnica del dicembre 2019 (pag. 24), che giustifica questo “minestrone” statistico-giudiziario con “la considerazione che la stima dei fabbisogni di personale vada parametrata al complesso delle attività svolte da ciascun ufficio viste in una prospettiva d’insieme”, precisa che sono stati computati anche i procedimenti del giudice tutelare, oltre agli accertamenti tecnici preventivi in materia previdenziale (ex art. 445-bis c.p.c., par di capire), “attività che per le loro specificità non sono normalmente incluse nelle statistiche sui flussi”; e che (nota 20) è stata esclusa soltanto “l’attività di ‘ricevimento e verbalizzazione di dichiarazione giurata’ trattandosi di attività di natura prevalentemente amministrativa” (infatti la svolge il cancelliere, non il giudice!). Ora, se i vari tipi di procedimento si distribuissero in maniera uniforme tra i diversi uffici, il danno potrebbe non essere grave. Ma così non è, perché, per una serie di motivazioni socio-economiche, l’incidenza di procedimenti-“fuffa” è molto maggiore al Nord, dove in questo modo gonfia le statistiche a dismisura, rispetto al Sud, dove è assai maggiore l’incidenza delle cause “vere”.

    Come afferma Mario Barbuto, il celebrato ex Presidente del Tribunale prima, e della Corte d’Appello di Torino poi, nonché successivamente capo del Dipartimento Organizzazione Giudiziaria del Ministero, “altro è l’impegno di un giudice per gli affari non contenziosi di volontaria giurisdizione o per i procedimenti di separazione consensuale (impegno minimo), altro è l’impegno per le cause in materia testamentaria, societaria e industriale, in materia di opere pubbliche (impegno massimo che si protrae per anni)[19]. Nel descrivere la propria esperienza organizzativa di Presidente di Corte, lo stesso Barbuto afferma che dalle tavole statistiche redatte per una relazione inaugurale dell’anno giudiziario aveva eliminato, sia pur conteggiandola a parte, “la cd ‘zavorra’ ovvero quella materia volatile che ha un tempo breve o brevissimo di giacenza negli uffici. Si pensi ai ricorsi per decreto ingiuntivo o ai procedimenti di volontaria giurisdizione, che spesso vengono esauriti ad horas[20]; aggiungendo che “occorreva maggiore coraggio nella riclassificazione delle pendenze (e dell’arretrato), distinguendo tra ‘cause contenziose’, che rappresentano il nucleo centrale dell’attività di un ufficio giudiziario (core business o nocciolo duro, si direbbe in altri contesti)…e ‘altri procedimenti’, tra i quali gli affari di volontaria giurisdizione. Si noti che in sede europea questi ultimi vengono conteggiati come non-litigious cases, distinti dai litigious cases”[21]. L’opinione di Barbuto[22], in questo caso, merita di essere incondizionatamente condivisa. Ed infatti “ce lo dice l’Europa” che “in linea generale, gli affari non contenziosi, se possono appesantire il carico di lavoro dei tribunali, sono raramente la causa di una mancanza di efficacia delle giurisdizioni[23]. E, se non ce lo dicesse l’Europa, basterebbe leggere le statistiche sulla durata dei procedimenti per comprenderlo: dal sito www.webstat.giustizia.it emerge, con riferimento al triennio considerato per la formazione delle piante organiche, il seguente quadro circa la durata media dei procedimenti espressa in giorni:  

    tabella-N

    È chiaro che procedimenti la cui durata si misura mediamente in due o tre mesi non possono essere sommati a procedimenti la cui durata si misura in anni. Altrimenti, per usare un’altra metafora di Barbuto, ne verrebbe fuori “l’immagine di un silos in cui entravano chicchi di riso in grande quantità, insieme con pannocchie di granturco, zucche e angurie di volume più consistente, con rapida fuoriuscita del riso ed estrazione più complessa per gli altri prodotti. In realtà, nessun agricoltore di buon senso userebbe un silos simile[24]. E comunque, essendo disomogenea nel territorio la distribuzione delle diverse tipologie di procedimenti, un tal tipo di misurazione ha effetti distorsivi sulla distribuzione delle risorse (a danno principalmente del Sud).

    Del resto, la summa divisio tra procedimenti contenziosi e non contenziosi è adottata dall’Istat, che da molto tempo, nell’Annuario Statistico Italiano, edito annualmente, distingue le due categorie, descrivendo dettagliatamente le classi di procedimento appartenenti alluna e all’altra (salvo conteggiare poi separatamente le esecuzioni, che per l’Istituto rappresentano un tertium genus). Tra i contenziosi l’Istat comprende: i procedimenti civili di cognizione; le separazioni giudiziali tra coniugi; i divorzi con rito giudiziale; i procedimenti di lavoro e previdenza (compresi gli ATP ex art. 445-bis c.p.c.); le istanze di fallimento. Nel “non contenzioso” annovera: le separazioni consensuali (così scorporando, giustamente, tale materia dal “civile ordinario” in cui è compresa nelle statistiche ministeriali); i divorzi congiunti; le procedure fallimentari, e le altre procedure concorsuali; i procedimenti speciali e la volontaria giurisdizione[25]. E la distinzione rappresenta la base per i dati da comunicare alla Cepej, che distingue nettamente le due classi di procedimenti nei noti rapporti biennali sulla giustizia nei paesi membri del Consiglio d’Europa.

    Certamente, oltre al contenzioso ordinario e a quello del lavoro, settori particolari come il fallimentare (ed in certa misura le esecuzioni) potrebbero meritare una valutazione nel dimensionamento delle piante organiche. E ciò potrebbe valere anche per l’attività del giudice tutelare (ricompresa nella volontaria giurisdizione), nonché per alcuni procedimenti speciali. Ma quel che non è accettabile è ll’identico peso attribuito indistintamente a tutti i tipi di procedimento. Occorrerebbe pertanto, se proprio l’analisi dei carichi di lavoro deve perseguire un obiettivo di assoluta completezza, attribuire previamente un punteggio ad ogni tipo di procedimento, sulla base di un’attenta analisi dell’impiego di tempo e di energia occorrenti per definire ciascuna tipologia in rapporto ai tempi ed energie medi occorrenti per definire una causa (si potrebbe pensare, ad esempio, per i fallimenti, a censire, nei tribunali dove esistono sezioni specializzate in tale materia, il numero dei giudici che ne fanno parte, comparandoli col numero dei giudici assegnati alle altre sezioni civili, e, raffrontando poi il numero dei procedimenti definiti nell’anno dall’uno e dall’altro settore, divisi per ciascun addetto, valutare il peso specifico della tipologia speciale rispetto all’ordinaria, attribuendo un “punteggio”: ad esempio, se risultasse che i fallimenti definiti in un anno da un giudice fallimentare fossero il doppio delle cause definite in un anno da un suo collega della sezione civile ordinaria, il coefficiente da attribuire ai fallimenti sarebbe pari a 0,50). Ma, se dovessero prevalere esigenze di semplificazione, meglio allora tagliare il nodo gordiano, e prendere in considerazione soltanto il “core business” (cause civili ordinarie e di lavoro), seguendo le indicazioni di Barbuto, piuttosto che perseguire in apparenza un perfezionismo che vuol prendere in considerazione tutto, per giungere poi ad un risultato paradossale dove il mirtillo pesa quanto il melone.

    Ma non è finita qui, perché anche le cause (civili e di lavoro) non sono tutte uguali. Non solo perché tra le stesse sono conteggiati procedimenti come quelli di separazione consensuale o di divorzio congiunto che meriterebbero di essere computate (come fa l’Istat) nel non contenzioso. Non solo perché ce ne sono di più e di meno complesse, e qui soccorre la legge dei grandi numeri (si può presumere che la difficoltà media sia eguale in relazione a insiemi di grandezze omogenee sufficientemente ampi, come lo sono i gruppi di cause trattati in un anno da un tribunale; e comunque un’analisi più approfondita sarebbe praticamente impossibile da farsi). Ma perché, a seconda delle condizioni ambientali, diversa è la percentuale di cause che viene definita con sentenza, rispetto al totale delle cause che nelle statistiche vengono indicate come “definite”. Una notevole quota delle cause civili e di lavoro introdotte (pari, a livello nazionale, al 45% circa) viene definita senza sentenza, cioè, nella stragrande maggioranza di questi casi, con una cancellazione della causa dal ruolo per mancata comparizione delle parti, che nasconde una conciliazione stragiudiziale (preferita dalle parti a quella giudiziale perché evita loro il pagamento dell’imposta di registro). In questa categoria vanno poi ricomprese le cause di separazione consensuale, che, come è noto, non vengono definite con sentenza ma con decreti di omologazione. Le cause definite in questo modo non comportano, in genere, molto lavoro per il giudice (salvo che ciò non avvenga dopo l’assunzione delle prove), e possono considerarsi anch’esse “zavorra” statistica: da sempre è risaputo che il lavoro più impegnativo, per il giudice, è la stesura della sentenza. Al fine di valutare adeguatamente le esigenze dimensionali di ciascun ufficio, occorrerebbe pertanto considerare il numero delle iscrizioni nella sola percentuale in cui, in ogni ufficio, mediamente le cause vengono definite con sentenza. Tale percentuale si mantiene infatti abbastanza costante nel tempo per ogni ufficio, e dipende in gran parte da condizionamenti esterni di carattere economico, sociale e culturale, ivi comprese le attitudini del foro a questo riguardo (le conciliazioni sono infatti influenzate, almeno in parte, dal condizionamento che l’avvocato può esercitare a tale proposito sul cliente). Non è un caso che la percentuale di cause definite con sentenza salga man mano che si scende verso Sud (da un 40% circa al Nord ad un 50% circa al Sud)[26].

    Per avere un quadro, parziale ma significativo, di quanto il criterio “uno vale uno” penalizzi i tribunali del Sud e favorisca invece quelli del Nord, è sufficiente esaminare i dati aggregati, relativi al 2020, dei tribunali degli otto distretti principali (per numero di affari), circa la percentuale in cui le cause (civili ordinarie, e di lavoro e previdenza) vengano definite con sentenza, e il rapporto esistente tra decreti ingiuntivi emessi e sentenze relative alle due “macromaterie” (civile ordinario e lavoro e previdenza), evincibili dal sito della Direzione di Statistica del Ministero[27]. Per quanto riguarda il primo aspetto, nel 2020 la percentuale in questione oscilla tra un 38 % circa dei tribunali dei maggiori distretti del Nord, ed un 56% dei tribunali del distretto di  Napoli:

    Tabella-N
      Per quanto concerne il secondo, si va da un rapporto pari a 1,66 (ossia 1,66 decreti ingiuntivi ogni sentenza civile o di lavoro) dei tribunali del distretto di Milano, ad uno pari a 0,54 nel distretto di Napoli:
    Tabella-N
     
    I dati qui sopra riportati riguardano le definizioni, ma ovviamente sono una  riprova tangibile di quanto possa distorcere la rappresentazione dei carichi di lavoro il prendere a base le “iscrizioni totali”, senza distinguere se riguardino cause o ricorsi per ingiunzione, e senza tener conto di quale sia il tasso di definizione con sentenza anche delle prime (tra le quali ,peraltro, come si è visto, vengono conteggiate anche le separazioni consensuali). Il tutto, ovviamente, aggravato dal conteggio indistinto, nel medesimo calderone, di esecuzioni, mobiliari e immobiliari, affari di volontaria giurisdizione, e quant’altro.


    Le statistiche del settore penale presentano un’impostazione peculiare, ignorando tutti i provvedimenti diversi dalla definizione del processo, e quindi trascurando  tutti i momenti di interlocuzione tra PM e GIP durante le indagini (richieste di intercettazione, di proroga delle indagini, di convalide di arresti e fermi etc.), tutte  le misure cautelari, sia personali che reali, e le relative impugnazioni, oltre agl’incidenti di esecuzione, e alle misure di prevenzione (le statistiche dei tribunali di sorveglianza, e quelle relative alle intercettazioni, sono riportate a parte, al di fuori dei flussi dei procedimenti). Inoltre, dalle statistiche dei flussi penali sono totalmente esclusi i procedimenti nei confronti di ignoti, evidentemente ritenuti (non a torto) semplice “zavorra”. Tali statistiche si attestano insomma su una nozione riduttiva di procedimento, che è forse preferibile a quella eccessivamente estensiva adottata nelle statistiche civili[28], ma che comunque andrebbe da un lato almeno moderatamente integrata (in relazione alle misure cautelari e ai riesami) e dall’altro coordinata con le statistiche dell’altro settore, onde evitare che le i numeri dell’uno soverchino per importanza quelli dell’altro.  Non sembra invece censurabile (anche se rappresenta un’anomalia, rispetto al civile) il fatto che un procedimento che giunga a dibattimento passando per l’udienza preliminare venga, in sostanza, contato due volte, una prima volta come iscrizione (e poi come definizione, con rinvio a giudizio) del GUP, e una seconda volta come iscrizione (e poi come definizione) del giudice dibattimentale (e lo stesso avviene, anche se con impatto numerico inferiore, per i decreti penali opposti), perché si tratta effettivamente di due fasi diverse che comportano ciascuna l’impegno di un giudice.  Anche nel settore penale, però, emerge qualche aspetto critico. Il principale riguarda, anche in questo caso, un fenomeno di “zavorra” (o comunque, di provvedimenti meno impegnativi che sono però – come nel civile i decreti ingiuntivi – estremamente numerosi) che riguarda non tanto i decreti penali di condanna (discutibilmente equiparati alle sentenze, ma relativamente poco numerosi), quanto i decreti di archiviazione, che  rappresentano grosso modo la metà di tutti i procedimenti definiti nei tribunali italiani (nel 2020, 392.304 archiviazioni su un totale di 838.157 definiti complessivamente nei tribunali, di cui 600.685 dai GIP-GUP; il peso dei decreti penali è invece trascurabile, essendo pari a 17.808). Anche in questo caso, per voler dare una più adeguata rappresentazione della realtà, si dovrebbe assegnare un coefficiente riduttivo ai decreti di archiviazione, calcolando quanto impegno richiedano mediamente rispetto ad un processo definito con sentenza. Oppure, per semplicità, si potrebbero anche espungere tali provvedimenti (come già lo sono quelli contro ignoti) dal calcolo ai fini delle piante organiche. Come già si è visto a proposito del civile, è meglio approssimare per difetto, limitandosi al “nocciolo duro” degli affari, che gonfiare le statistiche con procedimenti-zavorra, specie qualora ciò possa alterare la proporzione tra i carichi di lavoro degli uffici, e quindi tra gli organici. Per tornare agli otto principali distretti presi in esame, si osserva che il confronto Nord-Sud rappresenta disparità meno evidenti che nel settore civile, poiché ad avere più decreti di archiviazione, in misura superiore al 50% del totale delle iscrizioni, nel 2020, sono i distretti di Torino (51,18%) e Venezia (50,97%), mentre Milano, col 43,96%, riporta la stessa percentuale di Bari (43,48%), e gli altri si situano in un livello intermedio (Firenze, 48,87%; Napoli, 47,90%; Roma, 45,64%; Bologna, 47,39%). Un effetto distorsivo sussiste però anche in questo caso, anche se più causale (ossia meno dipendente da fattori socio-economico-culturali)  e meno vistoso che nel caso delle statistiche civili.

    4. Lo scostamento dalle statistiche nel dimensionamento delle piante organiche

    A questo punto, premesse tutte le critiche che si sono rivolte ai criteri utilizzati dal Ministero per conteggiare le sopravvenienze, si deve esaminare se, di tali dati così grossolani e approssimativi, nel definitivo disegno della pianta organica il Ministero abbia tenuto conto, oppure da tali risultanze si sia discostato, e perché. Esaminando le piante organiche dei tribunali, quali risultano dal D.M. 14.9.2020, e comparandole con quello che dovrebbe essere il risultato teorico, se si fosse tenuto fede alla premessa di dover dimensionare gli uffici almeno tendenzialmente in proporzione alle iscrizioni medie del triennio 2016-2018 (risultato ottenibile moltiplicando il dato delle iscrizioni totali, ossia civili più penali – media 2016-2018 – di ciascun ufficio[29] per 5.422, numero dei posti complessivamente assegnati ai tribunali ordinari, e dividendo il risultato per 3.476.399, dato delle iscrizioni totali della media del triennio in tutta Italia) si scopre che su 140 tribunali italiani appena 10, alla fin dei conti, hanno esattamente il numero che loro “spetterebbe” in base a quella proporzione, ossia appena il 7%  del totale (si tratta dei tribunali di Rovereto, Sciacca, Cremona, Vercelli, Alessandria,La Spezia, Gorizia, Spoleto, Tempio Pausania e Avellino, tutti, come si vede, di dimensioni medio-piccole). Il restante 93% si vede assegnato un numero di giudici diverso, maggiore o minore che sia. In 16 casi (l’11% del totale) lo scostamento è a due cifre, cioè superiore a 9. In un caso, quello del Tribunale di Napoli, lo scostamento è addirittura di 99, mancando solo di un’unità le tre cifre.

    A differenza che nel 2016, stavolta il Ministero non ha operato alcuna riduzione di organico, come chiarisce la stessa relazione tecnica, affermando (pag. 18) che “per scelta condivisa con il Consiglio superiore della magistratura[30], il presente intervento si caratterizza per l’assenza di riduzioni di pianta organica, in quanto, nell’ipotesi meno favorevole, non verranno assegnate risorse agli uffici che risultano adeguatamente ‘dimensionati’ sulla base dei parametri presi in considerazione”. Più marcatamente che nella precedente occasione, quindi, traspare la preoccupazione dell’apparato amministrativo, sottoposto ai condizionamenti ambientali di tipo correntizio, di non suscitare reazioni nei possibili destinatari di “tagli”, sempre sgraditi ai dirigenti degli uffici, a qualsiasi corrente essi appartengano. Anzi, in quei rari casi in cui nel 2016 erano stati operati timidissimi tagli, il D.M. del 2020 fa marcia indietro, “restituendo” alcuni dei posti ridotti allora: guarda caso, a beneficiare delle parziali “restituzioni” sono essenzialmente i tribunali di Torino (4 posti in meno nel 2016, 1 in più nel 2020), Milano (5 posti in meno nel 2016, 3 in più nel 2020), Roma  (12 posti in meno nel 2016, 3 in più nel 2020) e Napoli (9 posti in meno nel 2016, 2 in più nel 2020), tribunali che risultano, a seguito dell’ultima revisione, e in base alla proporzione tra iscrizioni considerate nei lavori del Ministero, eccedentari rispettivamente di 13 posti Torino, 36 Milano, e , come si è detto, 99 Napoli (Roma, invece, resterebbe tuttora deficitaria di 9 posti). I grossi tribunali, come già si è commentato in altra sede[31], sono importanti bacini elettorali, e conviene sempre, al “sistema” correntizio e ai suoi addentellati, tenerseli buoni. Per il resto, le eccedenze più vistose, oltre ai casi già visti, riguardano i tribunali di Genova (13 posti), Caltanissetta (19), Palermo (11), Locri (13), Reggio Calabria (31), Catania (14). Le “carenze”  (rispetto al risultato della sopra descritta proporzione) a due cifre riguardano invece i tribunali di Bologna (-12), Brescia (-20), Verona (-10), Velletri (-11), Tivoli (-11), Nocera I. (-11), Lecce (-15), tre dei quali capoluoghi di distretto, per i quali la relazione tecnica afferma anche di aver avuto un occhio di riguardo. Naturalmente, posto che il dato statistico preso a base (sommatoria delle iscrizioni di procedimenti civili e penali, piccoli e grandi, oves et boves, secondo la regola “uno vale uno”) è, come si è visto, estremamente grossolano, non deve troppo sorprendere che nel distribuire i posti non sia stato seguito rigidamente. Ma la sostanziale inattendibilità dei dati statistici utilizzati (non perché manchi un buon servizio statistico, ma perché i dati non vengono opportunamente filtrati e utilizzati in modo razionale) rende possibile tenerne conto in modo soltanto approssimativo, correggendone i risultati secondo le pressioni più o meno clientelari che vengono da una parte o dall’altra, con motivazioni che invocano ora l’uno ora l’altro dei parametri correttivi, ai quali non viene attribuito alcun valore predeterminato, in modo da torcerli all’occorrenza per assecondare la decisione che di volta in volta appare più “politicamente” opportuna.

    Da ultimo, si accenna brevemente al fatto che la revisione ha previsto l’aumento di 25 posti nella magistratura minorile (18 giudicanti e 7 requirenti) e di 20 posti nella magistratura di sorveglianza, nonostante che dal 1971 (anno in cui gli uffici minorili si configurarono come uffici autonomi rispetto ai tribunali ordinari e alle relative procure) al 2017 la magistratura minorile avesse già visto aumentare i propri organici del 140%, nello stresso tempo in cui l’organico della magistratura nel suo complesso era aumentato del 78%, e quello degli uffici giudicanti di primo grado del 39%; la magistratura di sorveglianza, invece, dal 1976 (anno in cui anch’essa si articolò in uffici autonomi) al 2017, era passata da 70 unità a 233, con un aumento del 232%. Per gli uffici minorili, la relazione tecnica riporta soltanto i dati statistici del quinquennio 2014-2018, che mostrano una situazione sostanzialmente stabile, con una contrazione del 6,7% degli affari penali, e un temporaneo aumento di quelli civili nel 2017, seguiti da un calo nell’anno successivo. Ancora più netto il calo delle iscrizioni nelle procure minorili (-14%). Per quanto concerne la sorveglianza, i dati mostrano un calo fino al 2017, seguito da una ripresa nel 2018. Più significativo sarebbe però un confronto con epoche più risalenti, cioè quando gli organici erano, come si è visti, molto più ridotti: nel 1971 i “provvedimenti circa la patria potestà” furono 68.854, e le dichiarazioni di adottabilità 3.261; nel 2010 gli interventi sulla potestà dei genitori, sommati ai provvedimenti di urgenza a protezione del minore sono stati in totale 20.346, e le dichiarazioni di adottabilità 1.177. Nel 1971 i procedimenti nei confronti di minorenni iscritti nelle procure furono 36.872, nel 2014 sono stati 37.402. I detenuti in Italia erano 31.081 alla fine del 1976, 53.364 alla fine del 2020[32]. Senza nulla togliere all’importanza e delicatezza delle funzioni in questione, occorrerebbe che gli interventi in tali settori non fossero considerati delle variabili indipendenti, e facessero i conti con le compatibilità del sistema (di cui anche gli uffici minorili e di sorveglianza fanno parte), nella consapevolezza che ogni posto aumentato dove non risulta strettamente necessario rappresenta un posto sottratto laddove necessario lo è, e senza prescindere da una pur difficile (per la diversa tipologia degli affari trattati) comparazione coi carichi di lavoro degli uffici ordinari.

    5. Conclusioni

    La conclusione è amara. La logica che prevale nella distribuzione dei posti in aumento negli organici della magistratura è simile a quella che presiede alla ripartizione di risorse tra diversi ambiti territoriali in relazione a molti servizi pubblici, cioè quella della “spesa storica”. Vale a dire che chi ha sempre avuto di più, continua ad avere (in proporzione) di più, e viceversa chi ha sempre avuto di meno continua ad avere di meno. L’occasione per ripianare le disparità anche attraverso riduzioni, laddove sia il caso, viene ripetutamente sprecata, un intervento dopo l’altro, tramite continui interventi “a pioggia”, mossi soprattutto dalla preoccupazione di non scontentare nessun ufficio, specie se grande e quindi importante come bacino elettorale, ma senza risolvere davvero i problemi degli uffici più gravemente sottodimensionati, e ciò potrebbe dar ragione a chi paventa che l’aumento di risorse “rischia di essere l’alimentazione di un buco nero che tutto assorbe senza alcuna resa”[33]. Nel frattempo la vulgata corrente, influenzata dai pregiudizi degli economisti neo-liberisti che nulla sanno di giustizia, propone l’immagine di una giustizia inefficiente perché insufficientemente organizzata secondo criteri aziendalistici e manageriali, per introdurre i quali sarebbe necessario divulgare le best practices, diffuse negli uffici del Nord, soprattutto tra i pigri magistrati del Sud, refrattari all’organizzazione, come sembra presupporre il recente decreto interministeriale, del Ministro della Giustizia e di quello per il Sud, in data 14 maggio 2021, che ha istituito una Commissione per la giustizia nel Sud.  L’opinione è stata nel tempo confortata dalla nota esperienza del “progetto Strasburgo” del Tribunale di Torino, la cui immagine non tiene conto della favorevole situazione in cui si è sempre trovato e si trova tuttora tale Tribunale, che, come molti altri tribunali del Nord, gode di dotazioni organiche sovrabbondanti, il che permette a quegli uffici di fare bella figura con poco sforzo. La base tecnica di tutto ciò sta, come si è visto, nell’adozione di criteri statistici questi sì davvero incompatibili con una visione organizzativa razionale, che lasciano spazio alla discrezionalità più assoluta di Ministero e CSM. Se è vero che l’organizzazione è importante, essa lo è anche a livello di amministrazione centrale, e non può esserlo solo nel microcosmo degli uffici periferici. La più importante riforma di cui necessita l’amministrazione della giustizia è l’introduzione di criteri razionali e rigorosi per la distribuzione delle risorse, non la divulgazione di pur utili accorgimenti, come ad esempio quello di mettere ai fascicoli copertine di diverso colore per notare meglio qual è più risalente. Ma tutto ciò ha anche a che vedere con quel “sistema” associativo-correntizio che influenza non solo il CSM ma anche il Ministero, e che difficilmente potrebbe tollerare una redistribuzione che elimini privilegi e rendite di posizione sui cui molti elettori, e grandi elettori, campano. Se tale situazione dovesse perdurare, allora, nonostante la diffusa sfiducia nella politica, sarebbe paradossalmente preferibile che il Parlamento si riappropriasse del potere di legiferare nel dettaglio sulle piante organiche degli uffici giudiziari, in tal modo adottando decisioni trasparenti e alla luce del sole, anziché delegarle alle chiuse e ovattate stanze dei palazzi governativi.                                                                                         

     

    [1] Claudio Castelli, Standard, carichi esigibili, carichi sostenibili, in Questione Giustizia, 24 giugno 2015.

    [2] L’originaria proposta riguardava 118 posti, che sono poi saliti a 136 per accogliere alcune richieste avanzate nel parere del CSM.

    [3] In un’audizione presso la Commissione Parlamentare Antimafia l’11 marzo 1997 (resoconto stenografico, pag. 53), da cui era stato convocato in qualità di presidente della commissione per l’organizzazione degli uffici giudiziari del CSM.

    [4] Modena, Giustizia civile – le ragioni di una crisi, Aracne, 2019, in particolare pagg. 208-210, e 236-237.

    [5] Giustizia civile, cit., pagg. 222-236, e 299-300.

    [6] Illustrata nella relazione tecnica che accompagna la proposta: https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/organico_magistrati_dm1dic2016_relazione.pdf

    [7] https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/rideterminazione_pianteorganiche_relazione_tecnica_17dic2019.pdf

    [8] Sull’intreccio perverso tra politica e alta amministrazione, e su come “manine” e “manone” intervengano a manipolare anche gli atti normativi più importanti, si veda Io sono il potere – confessioni di un capo di gabinetto, raccolte da Giuseppe Salvaggiulo, Feltrinelli, 2020

    [9] Evinto da un rapporto dell’Eurispes, alle cui pagg. 135 ss. la relazione (pag. 26, nota 23) rinvia per illustrarne la metodologia: https://eurispes.eu/themencode-pdf-viewer-sc/?tnc_pvfw=ZmlsZT1odHRwczovL2V1cmlzcGVzLmV1L3dwLWNvbnRlbnQ-vdXBsb2Fkcy8yMDE5LzAyL-zIwMTZfYWdyb21hZmllXzRfcmFwcG9ydG9fY3JpbWluaV9hZ3JvYWxpbWVudGFyaS5wZGYmc2V0dGluZ3M9MDAxMTEwMTExMTAxMDAmbGFuZz1pdA==#page=&zoom=auto&pagemode. Al D.M. 1.12.2016 era invece allegata una tabella O, che riportava un indice di presenza mafiosa elaborata dal centro universitario “Transcrime” dell’Università cattolica di Milano, https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/organico_magistrati_dm1dic2016_allegato1.pdf, pag. 54, riferita agli anni 2000-2011 che contiene dati profondamente discordanti con quelli elaborati dall’Eurispes. Nella tabella Eurispes, riferita agli anni 2008-2013, figura in testa la provincia di Ragusa, con indice 100,0, alla quale nella tabella Transcrime viene dato il punteggio di appena 7,12. Napoli è in testa alla classifica Transcrime, con punti 101,57, mentre nella tabella Eurispes ha solo 78,9 punti (pur essendo al terzo posto). A Nuoro vengono assegnati 46,3 punti nella classifica Eurispes, che la vede al 21° posto, mentre nella tabella Transcrime riporta appena 0,10, trovandosi tra le ultime province in classifica (11.a dal basso).

    [10] L’abuso di anglicismi nel linguaggio corrente svolge oggi analoga funzione a quella che svolgeva l’uso del latino ai tempi di Don Abbondio: fare sfoggio di cultura, e porre uno schermo tra il linguaggio elitario e quello comune, al fine di rendere meno trasparente la comunicazione.

    [11] Giustizia civile, cit., pag. 209.

    [12] Una stima Istat dei “city users” è contenuta nella tabella M allegata al D.M. 1.12.2016, https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/organico_magistrati_dm1dic2016_allegato1.pdf, pagg. 48 ss., che però non sembra tener conto dei pendolari, ma solo dei residenti di fatto (occupati e studenti) oltre che dei turisti.

    [13] Si tratta della competenza territoriale sulle cause dell’amministrazione statale, attribuita al giudice del luogo dove ha sede il più vicino ufficio dell’Avvocatura dello Stato (ossia il capoluogo del distretto di corte d’appello), ai sensi dell’art. 25 c.p.c.

    [14] Istituite dal D.L.vo n. 168/2003, e riformate dall’art. 2 del D.L. 14 gennaio 2012 n. 1, con competenza in materia di proprietà industriale ed intellettuale, nonché, a seguito della riforma, in materia societaria e di appalti pubblici di rilevanza comunitaria, presso alcuni capoluoghi di distretto (tutti quelli che coincidono coi capoluoghi di regione, tranne Aosta, e oltre a Brescia, Catania, e Bolzano)

    [15] https://webstat.giustizia.it/SiteAssets/SitePages/StatisticheGiudiziarie/penale/Area%20penale/Guida%20alle%20Statistiche%20PENALE.pdf

    [16] https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/all3_rideterminazione_pianteorganiche_requirenti_giudicanti_17dic2019.pdf

    [17] Lo conferma un “censimento” del CSM riferito all’ottobre 2015, http://www.csm.it/documents/21768/137951/Numero+di+giudici/967db0db-c2b7-4392-aff0-1e5a1180b511 che indica nel 54,6% la quota dei magistrati di tribunale assegnati al civile; la percentuale sale al Nord (fino a raggiungere, nel distretto della Sezione Distaccata di Corte d’Appello di Bolzano il 76,9%), e scende al Sud (52,1%; mentre nel resto del Paese sale al 56,4%), dove in alcuni distretti è maggioritaria la quota di addetti al penale (Reggio Calabria 55,1%, Caltanissetta 54,5, Palermo 54,2%)

    [18] L’espressione, quanto mai efficace, è di Mario Barbuto, L’efficienza della giustizia passa da Strasburgo – Storia di un progetto organizzativo di livello europeo, Aracne, 2017, pag. 177

    [19] Barbuto, op. cit., pag. 177

    [20] Ibidem, pag. 183

    [21] Ibidem, pag. 184

    [22] dalla cui “narrazione” (oltre che dalla cui opera come capo-dipartimento ministeriale) si è in altra sede dissentito, trovando eccessiva l’enfasi posta sugli aspetti micro-organizzativi, cioè di organizzazione dei singoli uffici, piuttosto che sulle risorse ad essi assegnate, e reputando il successo del “programma Strasburgo” dovuta in gran parte alla favorevole situazione delle piante organiche del Tribunale di Torino; ma a cui comunque va riconosciuta una grande acutezza nell’analisi dei problemi gestionali degli uffici giudiziari.

    [23] Rapporto Cepej 2014, pag. 273.

    [24] Barbuto, op.cit., pag. 183

    [25] Annuario statistico Italiano 2020, pag. 223, tavola 6.4 e relative note

    [26] Cfr. la tabella 4.3 a pag. 224 in Giustizia civile, cit.

    [27] https://webstat.giustizia.it/SitePages/StatisticheGiudiziarie/civile/Procedimenti%20Civili%20-%20flussi.aspx

    [28] A rigore, anche nel computo dei procedimenti civili sono esclusi i provvedimenti interlocutori (cautelari in corso di causa, reclami, ordinanze istruttorie); tuttavia la vasta congerie dei “procedimenti civili” annovera, di fatto, molta più “zavorra” di quanto non avvenga nel penale.

    [29] rinvenibile nelle già menzionate schede distrettuali: https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/all3_rideterminazione_pianteorganiche_requirenti_giudicanti_17dic2019.pdf  

    [30] E non c’era da dubitarne: in occasione della precedente revisione il CSM nel suo parere interlocutorio del 23 novembre 2016 non aveva chiesto alcuna riduzione di organico rispetto al progetto ministeriale – salvo che per gli uffici di Salerno – chiedendo sempre, laddove avanzava osservazioni, soltanto aumenti (o minori riduzioni): si veda sul punto Giustizia Civile, cit., pag. 210

    [31] Giustizia civile, cit., pag. 211

    [32] Cfr. Giustizia civile, cit., tab. 2.31, pag. 104, e pagg. 106-107

    [33] C. Castelli, Un piano straordinario per la giustizia nel Sud, in Questione Giustizia, 1.10.2015; il che, però, può essere vero solo se si rinuncia preventivamente a contrastare con efficacia l’andazzo descritto.                          

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