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Sul d.l. 168/2016: critica della ragion “pura” di un neo-magistrato

Il19 ottobre 2016 il d.l. 168/2016 è stato convertito in legge.

Si tratta di un provvedimento importante, che, apportando modifiche esternamente avvertite per lo più come insignificanti,apre, in realtà, una nuova pagina nella vita di ogni magistrato.

Sono vari i momenti della vita professionale di ognuno che vengono toccati: dall’ingresso in magistratura (caratterizzato dal periodo del tirocinio), passando attraverso le vicissitudini che normalmente si pongono nella vita – lavorativa e non – di ciascuno (con la necessità di trasferimenti di sede, specie nell’ambito di una professione che spesso, agli esordi, costringe a spostamenti rilevanti ed a rivoluzionari mutamenti di vita), per arrivare alla pensione.

Soprattutto i primi due aspetti oggetto di restyling (tirocinio e trasferimenti) appaiono strettamente interconnessi e rischiano di essere dati per acquisiti, quali modifiche tutto sommato non più di tanto rilevanti, laddove non se ne vedano le reali implicazioni; in particolare, le nefaste ricadute tanto sul piano della lesione di principi di matrice costituzionale (ad esempio, indipendenza ed inamovibilità dei magistrati), quanto sul piano degli effetti pratici,rischiando di ingenerare tanti maggiori problemi di quanti siano intese a risolvere.

A ben vedere, l'imprinting della riforma pare essere, ancora una volta, la velocità; una velocità che, con connotati quasi di matrice futuristica, fagocita l’attualità in vista del cambiamento.Si tratta di una velocità che caratterizza lo strumento prescelto (la decretazione d’urgenza), il modo di provvedere (inaudita altera parte, senza attendere il confronto, pur risultando già fissato un incontro tra Governo e rappresentanti di categoria a distanza di una manciata di giorni dalla data di conversione), la ratio della riforma (l’aumento della produttività, anche negli Uffici “di confine”).

Tralasciando di considerare i primi due aspetti, già stigmatizzati in ampi e reiterati dibattiti, preme in questa sede evidenziare alcune discrasie cui la mancata ponderazione degli effetti della riforma rischia di portare.

Il nucleo autentico della questione risiede nel fatto che i problemi oggetto del d.l. 168/2016 vengono affrontati “a bocce ferme”.

L’operazione, intesa ad un miglioramento dell’efficienza – in buona sostanza, questo essendo il fine ultimo della riforma – non incide, infatti, sul piano né delle risorse (umane e di mezzi), né degli strumenti giuridici disponibili, tentando, invece, correttivi ad un sistema già al limite delle proprie potenzialità. Come a dire che, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia.

Uno degli ambiti di incidenza della riforma de qua è il termine di legittimazione per il trasferimento, che da triennale diviene quadriennale. La modifica in sé non appare rivoluzionaria, attese le pregresse oscillazioni già registrate (originariamente biennale, il termine divenne quadriennale nel 1991 ed, infine, triennale nel 1998), ma risulta in stridente contrasto con gli obiettivi cui il d.l. 168/2016 apertamente si richiama. Tra questi si delinea, in particolare, la necessità di stabilizzare le sedi – nei fatti – disagiate, ponendo fine a quell’esodo di magistrati che, maturato il periodo di legittimazione, ordinariamente si affollano in direzione di sedi più ambite, o magari soltanto meno impossibili da gestire.

Le ragioni per le quali il mezzo (l’aumento del periodo di legittimazione) appare incongruo rispetto al fine sono molteplici.

In primis , e forse banalmente, risulta illogico ritenere che la soluzione del problema passi attraverso un prolungamento forzoso – spesso indesiderato e, francamente, indesiderabile – della permanenza del magistrato nell’Ufficio. Si tratta di un approccio punitivo del singolo, che rischia di sortire effetti contrari a quelli auspicati, quantomeno in termini di umana frustrazione.

Non è una novità parlare di solitudine del magistrato, sovente costretto a misurarsi con una dotazione scarna di mezzi, del tutto inadeguata a fronteggiare le complesse questioni che è chiamato a risolvere; il congelamento nell’Ufficio di destinazione, quasi si trattasse di un novello sottotenente Drogo di buzzatianamemoria, risulta obiettivamente idonea ad innescare un aumento esponenziale nella percezione di questo aspetto, con inevitabili ricadute negative in termini di produttività: la sensazione dell’abbandono, quando non il vendicativo spirito di rivalsa di chi si sente dimenticato/costretto, sono dati che necessitano di essere adeguatamente ponderati prima di intraprendere riforme suscettibili di incidere in maniera così sensibile sulla libertà individuale del singolo. Non si può dimenticare, infatti, come le sedi – specie di prima nomina, ma non solo, essendo ben raro che il magistrato riesca ad arrivare a breve nella sede di elezione, dovendo più spesso accontentarsi di procedere per approssimazioni progressive – raramente corrispondano ai desiderata del neo-magistrato, implicando, anzi, rinunce ed una riorganizzazione della propria vita, quantomeno sotto il profilo della sfera degli affetti.

In secondo luogo, l’aumento propugnato dal Governo risulta inutile nei termini in cui è proposto, atteso che, di fatto, il termine di legittimazione soffre necessariamente un prolungamento, dovuto a variabili non preventivabili (quali l’uscita del bando, la disponibilità di una sede appetibile, la presenza di sufficiente punteggio di anzianità per ottenerla, la richiesta di ritardato possesso, etc.); cosicché, il termine quadriennale si avvicina, in effetti, al quinquennio.

Tale dato, peraltro, rischia di avere una negativa incidenza anche sul versante della mobilità dei magistrati in vista del mutamento di funzioni; se, infatti, la sussistenza di un termine triennale di legittimazione può indurre il magistrato ad optare per un ulteriore trasferimento, in attesa della maturazione del termine per il passaggio di funzioni, la modifica normativa comporterà una netta riduzione di tale eventualità, dovendo il magistrato attendere un ulteriore lustro prima di potere presentare una successiva domanda. Con ciò profilandosi, peraltro, l’ulteriore quesito se davvero la mobilità dei magistrati sia esclusivamente foriera di effetti negativi, e debba dunque essere ostacolata dal legislatore.

Ancora, l’innalzamento del termine induce, necessariamente, una maggiore ponderazione nelle scelte dei magistrati. Non tanto da parte dei mot, i quali, avendo a disposizione esclusivamente le sedi di prima nomina, sono chiamati obbligatoriamente a scegliere tra quel ventaglio di possibilità (anche se occorre prendere atto, alla luce dell’allungamento della permanenza coatta nell’ufficio, dell’importante aggravio di disparità che si verrà a creare tra concorsi “fortunati” e non, in termini di appetibilità delle sedi disponibili), quanto piuttosto dei magistrati che abbiano già maturato il termine di legittimazione, i quali, se in presenza di un termine triennale – che, tutto sommato, consente una programmazione della propria vita su di un arco temporale di media entità – potevano essere più propensi a scegliere sedi anche disagiate per le più disparate ragioni (esemplificativamente l’avvicinamento alla famiglia o l’esperienza in territori di confine), nell’attualità saranno maggiormente restii a tale scelta, dovendo, in ipotesi, ipotecare circa un quinquennio della propria vita.

Non convince, ancora, il prospettato beneficio dell’aumento della produttività del singolo al raggiungimento del quadriennio di permanenza: in generale, perché solo allora il magistrato avrebbe una piena conoscenza del ruolo e delle specificità dell’Ufficio; nello specifico, attesa la necessità del mot di formarsi e di acquisire maggiore dimestichezza con la professione.

Tale affermazione risulta, per come enunciata, quantomeno apodittica, quando non fuorviante. A prescindere, infatti, dalla palese soggettività del parametro, e dalla estrema variabilità dell’indice della produttività anche nella vita professionale dello stesso individuo, non può non rilevarsi come l’affermazione sia stata cesellata con mano ferma, ma in assenza di qualsivoglia richiamo a dati statistici.

Ma ciò che maggiormente colpisce e lascia perplessi è come questa enunciazione di principio confligga insanabilmente con un altro caposaldo del decreto 168/2016: la riduzione del tirocinio formativo da diciotto a dodici mesi.

Vero è che l’art.3 del d.l. limita detta riduzione a due soli concorsi (quelli indetti negli anni 2014 e 2015), ma appare ragionevole ritenere che si tratti di una previsione destinata ad entrare “a regime”, secondo il profetico aforisma di Flaiano per cui in Italia “ ..nulla è più definitivo del provvisorio..”.

Questo aspetto della riforma, passato tutto sommato sotto silenzio – forse anche in ragione della limitata voce associativa dei mot – risulta, in realtà, allarmante: la chirurgica amputazione di un terzo (cherichiama analoga, recente diminuzione, che tanto scalpore ha suscitato – i.e. in materia di ferie) investe quel percorso di formazione che dovrebbe fare del concorsista teorico un magistrato pronto a confrontarsi con la complessità tanto dell’Ufficio, quanto della realtà.

La novellacomporta, invece, che il giovane magistrato, nel volgere di un anno soltanto, debba affrontare il tirocinio generico negli uffici sia requirenti, sia giudicanti civili e penali – con tutte le relative specificità, esemplificativamente in termini di specializzazione – il tirocinio mirato, nonchè il periodo di formazione presso la Scuola Superiore della Magistratura. Quid pluris?

Tale modifica stupisce, invero, sotto molteplici punti di vista; a tal punto, da residuare il dubbio della effettiva sussistenza quantomeno di un aspetto positivo.

Che la durata del tirocinio formativo abbia subìto importanti oscillazioni nel corso degli anni, non è un novum. Se il precedente c.d. uditorato consisteva, infatti, di un biennio, da trascorrere pressoché interamente presso gli uffici giudiziari, successivamente i c.d. mot hanno dovuto confrontarsi con un periodo di formazione della durata di diciotto mesi, suddivisi tra uffici giudiziari – dodici mesi, non continuativi – e tirocinio presso la sede di Scandicci della Scuola Superiore della Magistratura – sei mesi, non continuativi –

Trascorso un decennio dal varo della riforma, è stata la Commissione Vietti ad intervenire in parte qua, traendo le mosse dall’esperienza maturata “sul campo” grazie ai mot che si erano avvicendati sui banchi della scuola.

Dalle conclusioni sul punto riversate nella relativa Relazione, si evince che, se il c.d. uditorato peccava di un eccesso di pratica, ad avviso della Commissione il nuovo (ma ormai previgente) tirocinio formativo risultava tanto frammentario, quanto eccessivamente teorico. Dal connubio di tali esperienze, la Commissione Vietti ha ritenuto di individuare il punto di equilibrio nella previsione – meramente propositiva – di un tirocinio della durata di quindici mesi, dodici dei quali da trascorrere negli uffici giudiziari, residuandone tre da dedicare alla formazione/approfondimento nelle sessioni presso la Scuola.

Come si inserisce in tale alveo il d.l. 168/2016? Non vi è solo una prepotente ed immotivata pretermissione dei risultati dello studio della Commissione; vi è, di più, un totale sovvertimento delle conclusioni – quelle sì motivate – raggiunte nella citata Relazione, in particolare di quella maturata sulla scorta dell’esperienza vissuta negli ultimi anni, in virtù della quale è stato ritenuto del tutto insufficiente un periodo di soli dodici mesi presso gli uffici giudiziari.

La riforma attuale va ben oltre, comprimendo nell’arco dei citati dodici mesi, non solo tirocinio generico e tirocinio mirato, ma anche periodo di formazione presso la Scuola.

Ancora una volta è possibile intravvedere, nelle pieghe di questa parte della riforma, l’imprinting della velocità, sotto un duplice angolo prospettico: da un lato, la novella ottiene un indubbio contenimento dei costi, attraverso una riduzione di un terzo del periodo di formazione (inteso, lapalissianamente, quale lasso temporale di non-produttività del magistrato), dall’altro, raggiunge l’obiettivo di immettere nel circuito-giustizia, con sei mesi di anticipo, centinaia di magistrati per ogni nuovo concorso bandito.

Quali le conseguenze, dirette ed indirette?

Certamente, una più immediata copertura di posti ed un (auspicato) incremento di produttività.

Ma è davvero così? Si tratta di una scelta lungimirante? E soprattutto, si tratta di un’opzione coerente con gli altri capisaldi della riforma?

Per quanto riguarda il primo dei due obiettivi strenuamente perseguiti, corre obbligo di segnalare come la tangibile copertura fisica di un posto non tenga conto della realtà dei fatti, ovvero della necessaria pregressa formazione del singolo, non solo dal punto di vista teorico e pratico, bensì pure nella sua identità di magistrato. La riforma, infatti, a ben vedere, sacrifica insanabilmente quell’unico periodo di crescita del giovane, nell’ambito del quale soltanto può estrinsecarsi e formarsi la personalità del magistrato in quanto tale; solo allora, infatti, il mot, scevro dalle preoccupazioni che ordinariamente affollano la quotidianità della professione (scadenze, urgenze, impegni da rispettare, etc.), ha la possibilità di misurarsi – e di prendere le misure – con una attività che gli richiederà, in prosieguo, decisioni vieppiù veloci ed, allo stesso tempo, ponderate.

Dunque, da parte del legislatore, una contraddizione in termini, con il concreto rischio dell’inceppamento dell’ingranaggio. E della conseguente vanificazione di quel mito,tanto perseguito, della velocità sia del sistema, sia dei singoli che lo compongono.

A tale dato, peraltro, necessariamente si associa la considerazione della frequente destinazione dei mot di prima nomina ad uffici c.d. “di frontiera”, ove alle ordinarie difficoltà della professione, si aggiunge la cifra (oscura) di emergenze, tanto sociali quanto criminali, di scopertura di organici, etc. Con il perverso effetto di riversare, su coloro che per ultimi hanno fatto ingresso nelle file della magistratura, sia le conseguenze di una formazione non adeguata, sia le difficoltà connaturate alle sedi (nei fatti, disagiate) cui sono destinati.

In secondo luogo,tale aspetto della riforma non tiene il passo con un altro degli obiettivi perseguiti, ovvero la produttività.

Per la semplice ragione che un magistrato non (sufficientemente) preparato è, fuor di metafora, lento. Irrimediabilmente.

Perché maggiore è lo spazio dedicato allo studio di questioni mai affrontate neppure teoricamente; perché maggiore è il tempo riservato alla ponderazione; perché, non da ultimo, maggiore è il timore di sbagliare.

Se tale è l’effetto della riduzione del tirocinio, non si può non vedere come la stessa collida, anziché incentivarla, anche con la prospettata – nonché perseguita attraverso l’innalzamento del periodo di legittimazione – maggiore produttività del magistrato al raggiungimento del quarto anno di permanenza presso il medesimo ufficio.Questo ipotetico circolo virtuoso soffre, in realtà, un vulnus in premessa, quantomeno per i magistrati di prima nomina: il magistrato impreparato non sarà affatto più produttivo al termine del quadriennio, né potrà vantare una produttività pari al mot formatosi secondo l’(ormai pre-)vigente sistema, scontando pur sempre uno svantaggio iniziale.

Ulteriore aspetto del tirocinio sul quale la riforma interviene a gamba tesa è il periodo deputato alla formazione c.d. teorica, di competenza diretta della Scuola Superiore.

L’intervento è a tal punto tranchant da ridurre, ipso facto, il semestre previamente dedicato a tali attività a soli trenta giorni.

L’equivoco che acceca il legislatore consiste, in realtà, nel ritenere le sessioni presso la Scuola momenti formativi di matrice eminentemente teorica.

In senso contrario, si evidenzia, in primis, come il predetto semestre fosse, invece, suddiviso in due tranches, l’una delle quali – pari a quattro mesi – da trascorrere presso la sede di Castelpulci, l’altra –pari ad un bimestre – già “decentrata” attraverso la previsione di una rete di stages dal taglio prettamente pratico (presso la Polizia Giudiziaria, gli Istituti di Pena, la Corte di Cassazione, etc.).

Peraltro, la stessa impostazione della Scuola si è mossa nel segno di una crescente aderenza alle necessità via via manifestate dai mot, a volte proponendo percorsi tematici richiesti da questi ultimi, a volte introducendo specifiche esercitazioni pratiche, a volte semplicemente modificando i dettagli di quanto già proposto. Tanto è stato reso possibile anche in virtù del canale di comunicazione sempre curato (attraverso la garanzia dell’anonimato e la costanza degli interpelli rivolti alla giovane utenza della neonata Scuola) e mai disatteso (tanto nella pubblicazione dei risultati delle schede di valutazione, quanto nel feedback offerto dalla rimodulazione di alcune scelte organizzative sia formali sia sostanziali).

L’errore, dunque, nel quale è incorso il legislatore consiste nell’avere ritenuto la Scuola un istituto erogatore di mere esperienze didattiche frontali, destituita di qualsivoglia collegamento con la realtà pratica. Nulla di tutto questo. O meglio, non solo. Perché la Scuola ha, in realtà, inteso porsi quale complemento dell’attività presso gli Uffici Giudiziari, nonché quale collettore di esperienze comuni. A Scandicci è, infatti, stato possibile confrontarsi con tutto ciò che la pratica quotidiana presso i propri affidatari ordinariamente non è in grado di fornire, per motivi contingenti, ovvero per ridotte dimensioni della sede di CdA o per carente specializzazione.

Non ogni tirocinio è uguale all’altro, così come non lo è ogni affidatario, mot, ufficio, etc.

L’istituzione di un centro unico nel quale far convergere centinaia di giovani ha avuto, dunque, la funzione di attrarre plurime esperienze, consentendone una fruizione condivisa da tutti.

Con l’innegabile, duplice vantaggio, sia di dare maggiore uniformità alle esperienze dei neo-magistrati, sia di creare una rete comune tra costoro. Soprattutto quest’ultimo aspetto merita di essere valorizzato, perché, per la prima volta, magistrati provenienti da diverse latitudini hanno avuto l’occasione di trascorrere insieme periodi sufficientemente lunghi da consentire la nascita di quell’affiatamento che, solo, ha permesso una condivisione di esperienze inusitata, così veicolando una conoscenza migliore – reale e non più tralaticia – delle differenti realtà da cui è attraversata la Penisola.

Questa esperienza, che già aveva dato buoni frutti, è stata immantinente ed immotivatamente messa al bando. Di più: al di là delle cennate carenze della scelta operata dalla riforma, ciò che ne emerge è uno scarso coordinamento con una delle più recenti novità normativein tema di reclutamento dei concorsisti.

Costoro, infatti, possono ormai optare, quali titoli legittimanti la partecipazione al concorso, tra i due anni di Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali ed i diciotto mesi di Tirocinio Formativo presso gli uffici giudiziari; opzione, quest’ultima, che sta ottenendo la maggioranza dei consensi degli aspiranti magistrati.

Rebus sic stantibus , risulta evidente la necessità di differenziare le esperienze formative vissute dai giovani magistrati, conferendo maggiore pregio alla presenza di una formazione che, successivamente al superamento del concorso, si svolga (anche) in una sede differente rispetto al (continuum del) tirocinio presso gli uffici.

Luci ed ombre, dunque, di una riforma, i cui tratti essenziali, al di là delle enunciazioni di principio, non risultano ancora sufficientemente amalgamati, soprattutto nell’ottica del perseguimento di un fine ultimo, quale parrebbe – in premessa – essere la garanzia di un servizio giustizia efficiente per il cittadino.

Ma efficienza e velocità sono concetti distinti.

Ed il concetto di velocità, d’altra parte, non si conviene al maratoneta, quale è, a ben vedere, ogni singolo magistrato.

Silvia Zannini

Sostituto Procuratore

presso la Procura della Repubblica di Lecco

nominata con d.m. 18.06.2012

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