Diritto dell’emergenza Covid-19 e recovery fund
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La Corte costituzionale salva i dpcm e la gestione della pandemia. Riflessioni e interrogativi a margine della sent. n. 198/2021

La Corte costituzionale salva i dpcm e la gestione della pandemia. Riflessioni e interrogativi a margine della sent. n. 198/2021

di Alberto Arcuri*

Sommario: 1. Inquadramento generale della pronuncia - 2. Due interrogativi su due scelte di percorso verso un esito condivisibile - 2.1. Il primo: sui criteri utilizzati per ricondurre i dpcm nell’alveo della discrezionalità amministrativa (può davvero bastare la tipizzazione e la natura esecutiva del potere?) - 2.2. Il secondo: sull’utilizzo della categoria degli “atti necessitati” (era necessario ed è corretto qualificare in questo modo in dpcm “del covid”?) - 3. Nota a margine: ancora sulla non riconducibilità dei dpcm del covid-19 al potere d’ordinanza (di protezione civile).

1. Un inquadramento generale della pronuncia

Con la sentenza n. 198 del 2021 la Corte costituzionale si è pronunciata su una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il meccanismo di gestione della crisi pandemica sollevata in via incidentale dal giudice di pace di Frosinone[1], che si era trovato, a sua volta, a decidere sull’opposizione contro una sanzione di 400 euro inflitta ad un cittadino per aver disatteso il divieto - imposto da uno dei dpcm “del covid-19” - di uscire dalla propria abitazione senza giustificato motivo. Secondo il giudice rimettente la sanzione inflitta avrebbe rappresentato il prodotto finale di una catena viziata a monte da una delega sostanziale di funzione legislativa, realizzata ad opera di un decreto-legge in favore di «meri atti amministrativi» del Governo. Questa interlocuzione tra decreto-legge e dpcm avrebbe violato, sempre secondo la convinzione del giudice a quo, il principio di tipicità delle fonti primarie del diritto (posto che l’esercizio della funzione legislativa può essere delegata al Governo solo per mezzo di una legge-delega e che deve essere esercitata attraverso decreti legislativi) «al di fuori dell’unica ipotesi di emergenza costituzionalmente rilevante, quella dello stato di guerra». Questo dubbio è confluito in una denuncia di incostituzionalità per violazione degli articoli 76, 77 e 78 della Costituzione, da parte, in particolare: [1] degli articoli 1, 2 e 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6 e [2] degli articoli 1, 2 e 4 del decreto-legge 25 marzo 2020, n.19.

La questione ha dunque rappresentato per la Corte costituzionale la seconda occasione per occuparsi della gestione della pandemia, dopo che sette mesi prima (con la sentenza n. 37 del 2021) aveva già avuto modo di risolvere una questione concernente i rapporti, e il riparto di competenze, fra Stato e Regioni, riportando le misure adottate con dpcm alla materia di esclusiva competenza statale della «profilassi internazionale» (art. 117, co. 2 lett. q). A dire il vero, già in quell’occasione la Corte costituzionale lasciò tra le righe della propria decisione almeno due indicazioni che in qualche modo proiettano un ponte ideale con la sentenza che ora si sta commentando: (1) da un lato il tema della legittimità delle misure adottate, seppur non era oggetto di quella questione, fu comunque sfiorato[2]; (2) dall’altro, la stessa riconduzione delle misure adottate alla materia della “profilassi internazionale” produsse l’effetto di vanificare una delle principali conseguenze applicative del problema della natura (normativa o amministrativa) dei dpcm, che invece si sarebbe posto quale interrogativo ineludibile nel caso di riconduzione alla “tutela della salute” (art. 117 co. 3) che, in quanto materia di competenza concorrente, avrebbe comportato l’attivazione dell’art. 117 co. 6, ai sensi del quale: «la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia».

In ogni caso, l’ordinanza di remissione del giudice di pace di Frosinone, seppur (come vedremo) sollevando molte perplessità sul suo contenuto, ha avuto senz’altro il merito (per certi versi storico) di portare la Corte costituzionale ad esporsi e a far luce sulla natura giuridica, prima e in funzione di un giudizio sulla sua legittimità, di un atto (il dpcm) che in questi due anni ha attratto e intersecato l’interesse accademico e quello popolare in un modo che, per certi versi, non ha precedenti. La questione da cui sorge la sentenza n. 198 del 2021 rappresenta infatti il momento in cui alla Corte è stato chiesto direttamente di esporsi sulla legittimità del meccanismo di gestione della pandemia in base alla natura degli strumenti utilizzati (e in particolare della filiera decreti-legge e dpcm).

Il quesito che ha interrogato la Corte ha, dunque, una struttura diretta unitariamente alla natura del potere attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri, che si rivolge, però, ad un oggetto duplice: (1) il decreto-legge n. 6 del 2020 e (2) il decreto-legge n. 19 del 2020. Per questo motivo duplice è stato anche il dispositivo della decisione. Quanto al primo segmento (decreto-legge n. 6 del 2020) la Corte si è espressa con una dichiarazione di inammissibilità per difetto di rilevanza, accogliendo quanto era stato eccepito dell’Avvocatura generale dello Stato, e cioè che, poiché il fatto da cui era scaturito il giudizio a quo era stato commesso il 20 aprile 2020, esso non doveva ritenersi soggetto al dpcm del 22 marzo 2020, ma al dpcm del 10 aprile 2020, e dunque - per quanto importa l’oggetto del giudizio di costituzionalità - che non era soggetta alla sfera applicativa del decreto-legge n. 6 del 2020 ma a quella del decreto-legge n. 19 del 2020 (a cui il dpcm del 10 aprile ha dato espressamente attuazione). Ad essere rimasta in piedi oltre la soglia dell’ammissibilità, pertanto, è stata unicamente la seconda parte della questione, ossia quella che ha riguardato il decreto-legge n. 19 – che d’altra parte ha rappresentato il fondamento del modello che è stato detto standard[3] di gestione della crisi.

Questa seconda parte della questione è stata giudicata dalla Corte infondata, in esito ad un’argomentazione costruita tutto attorno ad un perno: la tassatività delle misure di contenimento menzionate dal decreto-legge n. 19 del 2020 che, secondo la Corte, tipizzando il contenuto dei provvedimenti attuativi, avrebbe conformato in senso amministrativo la discrezionalità attribuita al Presidente del Consiglio. In questo la pronuncia ha trovato un supporto comparativo molto utile – seppur celato per lo più nel non detto della decisione - nelle misure contenute dal suo predecessore (decreto-legge n. 6 del 2020) nei cui riguardi, per converso, sembra potersi ricavare un implicito (e non così pacifico[4]) giudizio di incostituzionalità.

L’elemento centrale del ragionamento della Corte è, comunque, la tassatività degli interventi. E’ attraverso di essa infatti che la Corte definisce la natura giuridica dei dpcm escludendo (implicitamente) la natura normativa del potere attribuito e (esplicitamente) la riconducibilità dello stesso alla categoria del potere d’ordinanza, smentendo in questo non solo la tesi dell’Avvocatura dello Stato (come vedremo) ma anche un’interpretazione che, soprattutto in un prima fase, era stata prevalente in dottrina[5]. La tipizzazione delle misure non risolve però interamente la cassetta degli attrezzi usati dalla Corte costituzionale per salvare la normativa denunciata. Sono altre le garanzie introdotte dal decreto-legge n.19 del 2020 che, ponendosi a corredo di un contenuto più stringente, la Corte ha preso in considerazione: un’interlocuzione più frequente e strutturata con il Parlamento, l’introduzione dei requisiti di «adeguatezza e proporzionalità» quali criteri di esercizio della discrezionalità attribuita al Presidente del Consiglio, il coinvolgimento del Comitato tecnico-scientifico e la vigenza per «periodi predeterminati» dei dpcm.

In estrema sintesi, si può dire che la sentenza n. 198 del 2021 ha risolto la questione con una soluzione (duplice) che ci pare nel complesso condivisibile e che, nondimeno, lascia spazio a taluni interrogativi. Sono due, soprattutto, le scelte compiute dalla Corte su cui può valere la pena riflettere: (1) la scelta di assumere la tipizzazione delle misure e la natura esecutiva della funzione attribuita quali criteri sufficienti a qualificare come amministrativi i dpcm “del covid-19”; e (2) la scelta di ricondurre i dpcm “del covid” alla nozione di “atto amministrativo necessitato”.

2. Due interrogativi su due scelte di percorso (verso un esito condivisibile)

2.1. Il primo: sui criteri utilizzati per ricondurre i dpcm nell’alveo della discrezionalità amministrativa (può davvero bastare la tipizzazione e la natura esecutiva del potere?)

La prima scelta che ci interroga è stata quella di enfatizzare (in senso quasi risolutivo) gli elementi (a) della tipizzazione delle misure e (b) della funzione esecutiva del dpcm, nella riconduzione nell’alveo della discrezionalità amministrativa del potere attribuito al Presidente del Consiglio dal decreto-legge oggetto del giudizio. Questo secondo interrogativo assume evidentemente due presupposti: (1) che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice a quo il dpcm non è «pacificamente mero atto amministrativo», ma può essere tranquillamente (e peraltro è stato di frequente ed è sempre più spesso) la forma di esercizio di un potere normativo di tipo regolamentare[6]; e (2) che astrattamente potrebbe essere questo il caso, posto che - come noto - mentre il catalogo delle fonti di rango primario è considerato chiuso, nel senso che le fonti primarie sono tutte tassativamente previste in Costituzione (numerus clausus), quelle di rango secondario sono invece tradizionalmente ricondotte ad un sistema aperto e il loro riconoscimento passa anche per l’utilizzo – di volta in volta - di indici di natura sostanziale[7].

Su questi due punti preliminari vale la pena di soffermarsi un attimo.

Quanto al punto n. 1: un atto che porta la denominazione di dpcm non è necessariamente [tanto meno «pacificamente»] un atto [«meramente»] amministrativo. La formula di “decreto del Presidente del Consiglio dei ministri” non è nient’altro che la denominazione con cui si manifesta all’esterno la volontà del Presidente del Consiglio. E’, cioè, un “guscio neutro”: un contenitore che astrattamente può contenere e veicolare contenuti estremamente diversi. E infatti dpcm può essere un atto amministrativo o di alta amministrazione (auto-organizzazione della Presidenza del Consiglio, nomina o delega di poteri) ma, soprattutto, può essere anche un vero e proprio atto a contenuto normativo, estrinsecazione di un “atipico” (perché non menzionato dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988) potere regolamentare del Presidente del Consiglio dei ministri. Ora, se è vero che questa varietà sostanziale è stata tradizionalmente ricondotta ad una certa unità definitoria e funzionale (coerente con le attribuzioni di cui all’art. 5 della l. n. 400 del 1988 e, ancora prima, con il dettato dell’art. 95 Cost.) coincidente con la rilevanza interna delle funzioni, e quindi degli atti (organizzazione, direzione e coordinamento dell’attività del Governo e autorganizzazione della Presidenza del Consiglio) è vero anche che, a partire da questo, l’evoluzione sia proseguita nel segno di un forte consolidamento (quantitativo e qualitativo) del potere regolamentare del Presidente del Consiglio e, pertanto, del dpcm quale vero e proprio atto normativo secondario[8].

Quanto al punto n. 2: tra la disciplina costituzionale delle fonti primarie e quella delle fonti secondarie ci sono due importanti differenze che determinano la necessità di indagare il contenuto di un atto per escluderlo in tutti i sensi dalla categoria delle fonti secondarie. La prima è che la Costituzione contiene una disciplina organica degli atti “legislativi” e dei loro procedimenti di adozione (che determina, appunto, la “chiusura” della categoria). La seconda è che, mentre per gli atti con forza di legge del Governo, la legge n. 400 del 1988 ha imposto, con una scelta che è parsa risolutiva[9], la corrispondenza espressa tra nomen iuris e formula di pubblicazione dell’atto, per gli atti secondari è stata percorsa un’opzione diversa, perché è stata mantenuta la formula di pubblicazione generica di “decreto” (del Presidente della Repubblica, Ministeriale o del Presidente del Consiglio dei Ministri) ed è stato stabilito che il riferimento al nomen di Regolamento debba essere solo incorporato nel titolo dell’atto (co. 4 dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988). Ne deriva che, a differenza di quanto avviene per le fonti primarie, l’aspetto esteriore non è risolutivo per il riconoscimento dell’atto. Tanto è vero che tanto la Corte quanto il Consiglio di Stato hanno (anche se implicitamente e con atteggiamento evasivo la prima[10] e, seppur esplicitamente, in modo ondivago il secondo[11]) ammesso l’astratta possibilità del controllo sulla forma dell’atto alla luce del suo contenuto.

Nella sentenza n. 198 del 2021, la Corte costituzionale ha svolto esattamente questa operazione, escludendo però che i dpcm “del covid” siano atti normativi di rango secondario (non lo dice, ma lo si ricava agevolmente dalla loro qualificazione quali provvedimenti amministrativi) e lo ha fatto con una spiegazione che ruota tutto attorno alla tipizzazione delle misure e alla natura “esecutiva” del potere esercitato tramite i dpcm. Al fatto cioè, che il decreto-legge si limita ad autorizzarlo a dare esecuzione ad una serie di misure nominate e tipizzate nel contenuto (punto 6.3 del considerato in diritto). Il punto però è questo: non avvertendo l’esigenza di approfondire il percorso che ha condotto da questi due elementi alla natura amministrativa della discrezionalità esercitata, la Corte sembra aver sfumato in modo davvero eccessivo (secondo qualcuno perfino escluso[12]) la distinguibilità tra norme e atti amministrativi, posto che è assolutamente comune (anche se non inevitabile[13]) che il potere regolamentare sia funzionalmente predisposto all’attuazione e all’esecuzione di rinvii contenuti in fonti primarie. Certo, rimane l’elemento della tipizzazione, ma fondare solo sul quantum di questa variazione la natura dell’atto è davvero estremamente problematico, posto che la tipizzazione del contenuto e la conseguente riduzione dello spazio normativo attribuito alla fonte secondaria è connotato tipico della sua posizione esecutiva (così è, infatti, per i c.d. regolamenti di esecuzione e, ancora più chiaramente, per quelli definiti di “stretta” esecuzione). A voler insistere su questa strada si dovrebbe pertanto poter individuare un criterio-soglia comprensibile e replicabile nella realtà multiforme e complessa che si incontra quando se ne vorrà fare un qualche altro uso pratico.

L’interrogativo nasce, dunque, non tanto della decisione in sè di ricondurre il potere esercitato dal Presidente del Consiglio al paradigma del “provvedere”, quanto piuttosto da quella di lasciare quasi interamente nel non detto i passaggi del percorso argomentativo che ha portato la Corte a questa convinzione, così da demandaare all’interprete il compito di capire se, effettivamente, gli elementi della tipizzazione e della natura esecutiva abbiano risolto interamente la riconduzione teorica dell’atto alla categoria o se invece abbiano rappresentato solo l’ultimo segmento di un percorso più ampio. Pur non essendo stati quasi mai menzionati nella pronuncia, quella svolta dalla Corte è infatti senza dubbio un’indagine a cui sono applicabili i tradizionali criteri di riconoscimento sostanziale della normatività: l’innovatività, la generalità e l’astrattezza. Criteri che in effetti parrebbero essere stati utilizzati (anche se solo ad adiuvandum) dalla Corte, posto che in un passaggio della sentenza (6.2 del considerato in diritto) ha avvertito l’esigenza di precisare che la discrezionalità attribuita dal decreto-legge sarebbe stata di tipo amministrativo, «ancorché ad efficacia generale». Non ci sono molti dubbi, in effetti, che i dpcm in questione siano atti generali (i cui precetti sono cioè riferibili ad un numero indeterminabile di destinatari). Notoriamente però, la generalità del precetto non è un elemento risolutivo. Nonostante quello della specialità sia tradizionalmente predicato quale carattere tipico dell’atto che provvede in concreto, infatti, si è nel tempo progressivamente formata, e ormai consolidata, la nozione di atto amministrativo generale, che ha tolto all’atto normativo “l’esclusiva” sul carattere della generalità[14].

Se, come sembra verosimile, la riconduzione è stata effettivamente condotta alla luce di queste categorie, essa non può che essere passata per gli altri due caratteri: l’astrattezza e l’innovatività. Quanto al primo: l’astrattezza è la caratteristica dell’oggetto della prescrizione, sta ad indicare la ripetibilità del precetto in un numero indeterminabile di casi, e dunque in riferimento ad un numero indeterminato di comportamenti. Una disposizione è astratta, in altre parole, quando si rivolge ad un tipo (inteso come classe indeterminata) di comportamenti. Quanto ai dpcm del covid-19, un elemento di impedimento per l’attribuzione di questo connotato potrebbe essere rappresentato dalla temporaneità delle misure previste, ma a rigore va detto che, affinché siano inquadrate come astrattamente ripetibili, le misure introdotte non devono essere necessariamente stabili. E in ogni caso, che la misura oggetto del giudizio a quo e (forse ancora di più) le altre demandate dal decreto-legge n. 19 del 2020 all’attuazione dei dpcm, non siano l’oggetto di prescrizioni applicabili ad un numero indeterminato di comportamenti non è affatto scontato. Si pensi, soprattutto, alla «limitazione o sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni altra forma di riunione o di assembramento in luogo pubblico o privato» (lett. g), alla «limitazione o sospensione dei servizi di apertura al pubblico o chiusura dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura» (lett. n), alla «limitazione o sospensione delle attività commerciali di vendita al dettaglio o all'ingrosso» (lett. u), alla «limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti» (lett. v) o alla «limitazione o sospensione di altre attività d'impresa o professionali» (lett. z).

Veniamo allora all’altro carattere: quello dell’innovatività, inteso come capacità di produrre un effetto prescrittivo nuovo. Il punto in cui è più convincente che il carattere dell’innovatività potrebbe essere escluso è, evidentemente, la tipizzazione puntuale delle misure da parte dell’atto primario, che potrebbe (non necessariamente a torto) far pensare che l’introduzione delle stesse sia riferibile ad esso. Anche su questo punto però, potrebbero essere astrattamente sollevate alcune perplessità, posto che se la novità è da intendersi come introduzione di un effetto prescrittivo nuovo allora essa va intesa non solo in relazione all’atto introduttivo delle misure, ma anche quello produttivo dei loro effetti. Ed è noto, infatti, come la dottrina gradualistica del diritto, che non considera l’innovatività caratteristica esclusiva della norma giuridica, ha fatto emergere come un certo grado di novità, seppur progressivamente graduato dal restringersi dello spazio di decisione che si ricava dall’atto sovraordinato, sia in astratto propria di tutti gli atti che producono effetti (e quindi anche di quelli amministrativi e giurisdizionali). 

2.2. Il secondo: sull’utilizzo della categoria degli “atti necessitati” (era necessario ed è corretto qualificare in questo modo in dpcm “del covid”?)

Con la qualificazione in senso amministrativo della potestà attribuita al Presidente del Consiglio dal decreto-legge oggetto della questione, il dubbio sollevato dall’ordinanza di rimessione parrebbe aver trovato piena e definitiva soddisfazione. L’ultimissima parte del quesito infatti - quella per cui la delega di potestà legislativa sarebbe avvenuta «al di fuori dell’unica ipotesi di emergenza costituzionalmente rilevante dello stato di guerra» - dovrebbe, a rigor di logica, essere ritenuta interamente assorbita dalla rimozione del suo presupposto (l’avvenuta delega sostanziale di funzione legislativa)[15]. Nonostante questo, però, la Corte costituzionale ha ritenuto di aggiungere un pezzo in più (il punto n. 8 del Considerato in diritto) interrogandosi sulla riferibilità dei dpcm “del covid-19” alla nozione di atto (in senso lato, come vedremo) necessitato.

A questo punto occorre fare un piccolo passo indietro e introdurre nel discorso, seppur in modo essenziale, la nozione attorno a cui quest’ultima parte della pronuncia ruota. La nozione di “atto necessitato” nasce nella teoria generale del diritto ed è stata elaborata usando l’attributo “necessitato” nel senso letterale di accadimento che, dato un altro accadimento, non può non essere. Da questo significato originario se ne è tratto (soprattutto per merito della riflessione di Massimo Severo Giannini[16]), in ambito amministrativo, uno ulteriore, meno rigoroso e «più enfatico», con cui si indica un atto che «trova come presupposto una situazione di necessità che impedisce di seguire quella che altrimenti sarebbe la strada normale»[17]. L’elemento caratterizzante degli atti amministrativi necessitati rispetto a tutti gli altri “non necessitati” non è dunque la sua struttura bensì il suo presupposto: ossia il fatto di incorporare la necessità quale elemento di fatto che ne integra il fondamento giuridico[18]. L’atto necessitato si caratterizza, in altre parole, perchè incorpora la necessità quale fatto giuridicamente rilevante nel presupposto. Questo come detto (e come vedremo) non intacca la struttura dell’atto, che è del tutto assimilabile a quella tipica dei “normali” provvedimenti amministrativi, ma proietta sullo stesso una certa conformazione funzionale: negli atti necessitati, cioè, il legislatore si sostituisce all’autorità amministrativa a cui basta accertare in fatto l’esistenza di una situazione di necessità.

Per comprendere in termini più concreti il significato della nozione e dei suoi elementi caratterizzanti può essere utile menzionare alcuni esempi proposti. Massimo Severo Giannini ad esempio, indicava quale caso tipico di “atto necessitato” l’art. 71 della legge sulle espropriazioni (n. 2359 del 25 giugno 1865)[19], il quale disponeva che «nei casi di rottura di argini, di rovesciamenti di ponti per impeto delle acque, e negli altri casi di forza maggiore o di assoluta urgenza, i Prefetti ed i Sottoprefetti [...] possono ordinare la occupazione temporanea dei beni immobili che occorressero alla esecuzione delle opere all'uopo necessarie» e che «se poi l'urgenza fosse tale da non consentire nemmeno l'indugio richiesto per fare avvertire il Prefetto ed il Sottoprefetto ed attenderne il provvedimento, il sindaco può autorizzare la occupazione temporanea dei beni indispensabili per l'esecuzione dei lavori [...]». Altri casi più recentemente citati sono nel Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), e in particolare: l’art. 63, che disciplina l’aggiudicazione di appalti pubblici mediante una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara quando, «per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati» e l’art. 163 che dispone l’immediata esecuzione di lavori da parte del responsabile del procedimento e del tecnico dell'amministrazione competente «al ricorrere di circostanze di somma urgenza»[20] e nel t.u. espropriazioni (d.P.R. 8.6.2001, n. 327) e, in particolare, l’art. 22-bis, che regola l’occupazione d'urgenza preordinata all'espropriazione «quando l'avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza, tale da non consentire, in relazione alla particolare natura delle opere, l'applicazione del procedimento ordinario»[21].

La nozione di atto necessitato è stata poi accettata e ripresa anche dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 4 del 1977 (relatore Crisafulli) la utilizzò per operare una cesura tra il potere attribuito al prefetto dall’art. 20 del t.u. della legge comunale e provinciale 3 marzo 1934, n. 383 e la categoria delle ordinanze necessitate (in quel caso rappresentate dalle ordinanze ex art. 2 tulps). Il criterio distintivo tra “atti” necessitati e “ordinanze” necessitate - aventi entrambi come presupposto l’urgente necessità del provvedere – era già stato diffusamente chiarito dalla dottrina[22], e la Corte, nel farne applicazione, si è limitata (nel 1977 come nella sentenza che si sta commentando) a richiamarli in quella forma, dicendo che i primi, sono «emessi in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto», mentre le altre «nell’esplicazione di poteri soltanto genericamente prefigurati dalle norme che li attribuiscono e perciò suscettibili di assumere vario contenuto, per adeguarsi duttilmente alle mutevoli situazioni» (sentenza n. 4 del 1977).

Dopo la sentenza del 1977 la nozione di “atto necessitato” venne poi ripresa da altri studi, e in particolare da Aldo Maria Sandulli nel 1989[23] e Roberto Cavallo Perin nel 1990[24], che, a quasi mezzo secolo dalla prima elaborazione ritennero maturi i tempi per perfezionare la classificazione attraverso un’ulteriore sistemazione lessicale. Essi ritenevano infatti che il nome “atti necessitati” fosse stato originariamente scelto da Giannini perché al tempo la locuzione "provvedimenti di necessità e urgenza" era ancora di frequente utilizzata per designare le ordinanze di necessità e urgenza. Superata questa esigenza, ritenevano possibile e più opportuno riferirsi a quelli che Giannini aveva chiamato “atti necessitati” con il nome di “provvedimenti necessitati”, e di usare la locuzione “atti necessitati” per indicare il genus degli atti che hanno a presupposto legittimante l’urgente necessità del provvedere, al cui interno sarebbe pertanto pertanto possibile distinguere le species dei (a1) provvedimenti necessitati (quelli che Giannini chiamava “atti necessitati”), definiti come provvedimenti che, pur avendo anch'essi a presupposto una situazione di necessità, «trovano il contenuto della loro imposizione già predeterminato dalla legge»[25], e delle (a2) ordinanze necessitate, definiti come provvedimenti della pubblica amministrazione che hanno a presupposto una situazione d'eccezione e il cui contenuto è soltanto genericamente predeterminato dalle norme istitutive.

L’appartenenza al medesimo genus e il fatto che la nozione di atto necessitato sia stata usata per lo più per distinguere alcuni atti dalla categoria delle ordinanze necessitate, però, non deve indurre nell’equivoco di ritenere che la prima sia tratta “per derivazione” dalla seconda. L’identità comune del genus, infatti, vale prima di tutto a distinguere entrambe le categorie dagli atti amministrativi “non necessitati”. E infatti gli studi sull’atto amministrativo necessitato si preoccupano prima di tutto di distinguerlo dai provvedimenti amministrativi non necessitati e, solo dopo, di recidere il nesso che astrattamente potrebbe legarli alle ordinanze necessitate.

Nella sentenza in esame, invece, la Corte costituzionale qualifica i dpcm “del covid” quali atti necessitati curandosi per lo più di rilevare l’elemento distintivo della species rispetto a quella delle ordinanze necessitate (la tipizzazione) ma senza dar conto dell’esistenza di quelli che caratterizzano, a monte, il genus. E allora viene da pensare che possa essere questa la ragione per cui la stessa Corte ha lasciato nel testo una riserva che segnala l’esistenza di qualche dubbio su questa riconducibilità - accostando tali atti a quelli necessitati «solo per certi versi» (senza dire, però, per quali). Il dubbio della Corte infatti non può stare, verosimilmente, nella scelta tra la dicotomia atti-ordinanze necessitate, posto che in questo poteva fare un affidamento piuttosto solido nella tipizzazione puntuale operata dal decreto-legge n. 19 del 2020[26]. Se un punto fragile nella riconduzione esiste, esso non può che stare nell’individuazione dei criteri distintivi del genus. E la Corte, in effetti, nulla dice circa l’esistenza dei due elementi che lo caratterizzano: il presupposto e la conformazione funzionale. E la cosa sorprende, perché non sembra affatto scontato né (il presupposto) che per i dpcm del covid la necessità sia riconoscibile quale parte - di fatto - integrante il presupposto legittimante - di diritto - della loro adozione, né (la conformazione funzionale) che si tratta di provvedimenti la cui adozione è automatica conseguenza del riconoscimento in fatto di una situazione di necessità.

Quanto al primo punto (l’esistenza del presupposto tipico dell’atto necessitato), verrebbe da chiedersi che cosa distingua la catena di decreti-legge e dpcm dai meccanismi di interlocuzione “ordinaria” (in questo caso nella forma dell’esecuzione) tra fonti primarie e fonti secondarie o atti amministrativi. In questo senso, il presupposto legale dei dpcm sembra infatti prescindere totalmente da elementi di fatto e, in particolare, dall’esistenza di una situazione emergenziale: la loro base legale è costituita in modo autosufficiente dai vari decreti-legge emanati (lo stesso dpcm 10 aprile 2020, definisce le proprie disposizioni «attuative» del d.l. n. 19 del 2020). L’an della loro adozione non dipende dal riconoscimento in fatto di una situazione di necessità (tutt’al più essa è già stata riconosciuta a monte dall’atto primario) ma trova piena soddisfazione nel fondamento fornito dal decreto-legge. L’elemento fattuale interagisce certamente con il contenuto dell’atto, ma come elemento esterno, e in particolare come elemento di fatto che orienta la discrezionalità e, quindi, integra il parametro di giudizio, attraverso i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità. Riguarda, in altre parole, non il suo presupposto ma il suo contenuto, e in particolare il quantum delle misure introdotte dai dpcm che, ai sensi dell’art. 1 co. 2 del decreto-legge n. 19 del 2021, devono essere «adottate secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente».

Quanto al secondo punto (la conformazione funzionale dell’atto): l’indice della difficoltà di sostenere che i dpcm del covid siano provvedimenti la cui adozione è automatica conseguenza del riconoscimento in fatto di una situazione di necessità è rappresentato plasticamente dall’art. 2 co. 1 del decreto-legge n. 19 del 2021 che, secondo una formulazione introdotta in sede di conversione dispone che «il Presidente del Consiglio dei ministri o un Ministro da lui delegato illustra preventivamente alle Camere il contenuto dei provvedimenti da adottare ai sensi del presente comma, al fine di tenere conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati». Si tratta di una norma che dimostra una certa discrezionalità nella decisione demandata al dpcm, posto che la possibilità per le Camere di formulare indirizzi rispetto alla adozione degli stessi (ferma restando la disposizione primaria attuata), segna l’esistenza di un certo spazio di agibilità politica, in cui – a ragione - lo stesso legislatore ha ritenuto fosse cosa buona coinvolgere il Parlamento. Spazio di agibilità politica che sarebbe incompatibile con una lettura che vorrebbe costringere la discrezionalità del presidente del Consiglio al mero accertamento delle condizioni di fatto che ne impongono l’adozione.

3. Nota a margine: ancora sulla non riconducibilità dei dpcm del covid-19 al potere d’ordinanza (di protezione civile)

Dicendo che questi dpcm si distaccano concettualmente dal modello delle ordinanze contingibili e urgenti, la Corte ha contraddetto una posizione ripetutamente sostenuta in dottrina, fino ad essere condivisa dalla stessa Avvocatura dello Stato che, nel contestare la fondatezza della questione ha sostenuto che non vi sarebbe stata un’assunzione di poteri emergenziali in violazione dell’art. 78 Cost., proprio perché il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe «esercitato il potere di ordinanza conferitogli dall’art. 5 del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), previa deliberazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale, adottata in conformità all’art. 24 del medesimo decreto legislativo».

La posizione della Corte ci pare assolutamente condivisibile. I dpcm del “covid-19”, infatti, sono atti che non hanno né l’aspetto esteriore del sotto-tipo particolare e positivo (le ordinanze disciplinate dal Codice di Protezione), mancandone tutti gli elementi essenziali: il nomen, l’indicazione delle norme a cui si intende derogare e la motivazione (che a rigor di codice dovrebbe pure essere esaustiva), ne tanto meno hanno – ed è questo il punto davvero importante – la natura e la sostanza del tipo generale (ordinanze contingibili e urgenti), essendo atti (normativi o meno) che attuano fonti primarie senza derogare ad alcuna norma di legge. E il richiamo alla dichiarazione dello stato d’emergenza nel preambolo dei vari dpcm è apparso fin da subito sembrato un mero richiamo motivazionale ad adiuvandum e nonvla menzione del proprio fondamento[27]. Sono, d’altra parte, gli stessi dpcm a chiarire il proprio fondamento, dicendo espressamente che le proprie disposizioni sono «attuative» dei vari decreti-legge. Ma il punto che può essere interessante far emergere non è tanto la condivisibilità in astratto della posizione della Corte, quanto piuttosto l’assoluta comprensibilità in concreto del fatto che la gestione dell’emergenza non sia stata realizzata attraverso il sistema di protezione civile ma (anche e soprattutto) attraverso un meccanismo diverso e alternativo. A scanso di equivoci, sappiamo bene che il sistema di protezione civile non ha mai smesso di funzionare e che il Capo del Dipartimento di protezione civile ha continuato ad emanare ordinanze, ma ad un certo punto – molto vicino all’origine – dell’emergenza il sistema di gestione è stato articolato in questi termini: sul sistema di protezione civile è stata scaricata la funzione (dalla natura marcatamente tecnica e amministrativa) del coordinamento tecnico, mentre le decisioni politiche sono state adottate nell’ambito di un’architettura nuova: la filiera decreti-legge-decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri[28].

La “deviazione” dal sistema di protezione civile non deve stupire: quel sistema, e dunque anche il potere d’ordinanza di protezione civile (che ne è un segmento) non è stato pensato per aderire indistintamente ad ogni fatto materiale possibile. La cosa, di per sé, non è troppo strana: tutti i modelli prescrittivi scontano un margine di inadeguatezza rispetto ai fatti imprevedibili, e d’altra parte è proprio dalla componente di eccezionalità insita nei fatti emergenziali che può scaturire l’imprevedibilità che non consente l’aderenza del dettato prescrittivo al fatto. Detto brutalmente: posso dire oggi come mi comporterò domani fintanto che domani accadono eventi che oggi posso prevedere. È normale, insomma, che quando un fatto imprevedibile sposta il piano su cui il diritto vorrebbe agire impedendo l’incastellatura concettuale e quella prescrittiva, al diritto si impone la necessità di conformarsi al fatto imprevisto, con soluzioni adeguate alla sua fisionomia.

Il presupposto di questa lettura è, ovviamente, che esiste un tipo di fatto emergenziale attorno a cui il sistema di protezione civile è stato pensato, la cui fisionomia può essere verificata nell’identità dei fatti a partire da cui si è sviluppata (prima) la riflessione teorica e (poi) la prassi applicativa: i terremoti, ovviamente, ma anche eventi meteorologici d’altro genere, come alluvioni, frane, ed emergenze provocate da attività umane come il crollo di edifici e infrastrutture. Tutti questi fatti hanno un’identità materiale comune: sono eventi, accadimenti che spezzano il tempo in un prima e dopo sufficientemente chiaro e netto da permettere l’operabilità di un meccanismo pensato affinché fino a quando il fatto non si realizza, si prevedano e si prevengano i rischi del suo verificarsi e poi, quando il fatto si è già realizzato, vengano gestiti gli effetti che ha prodotto. Questa potrebbe sembrare una divagazione teorica ma non lo è affatto: è esattamente questo che fa sì che il sistema di protezione civile (e le ordinanze quale sua parte) non possa funzionare quando si tratta di assumere decisioni volte alla gestione (dunque politica) dell’emergenza in medias res. Che il potere d’ordinanza di protezione civile è stato pensato per (o almeno a partire da) questi fatti non solo emerge dalla comprensione complessiva della sua natura, ma è scritto, e in almeno due punti del Codice. Il primo è l’art. 2 che, nello scandire l’attività di protezione civile ripercorre esattamente questa scansione temporale: prima che l’evento si verifichi l’attività è volta alla previsione, cioè all’identificazione del rischio (art. 2, co. 2 del Codice) e alla prevenzione, cioè ad evitare che in conseguenza dell’evento si verifichino danni o danni ulteriori (art. 2 co. 3 del Codice), e poi, una volta che l’evento si è verificato la gestione dell’emergenza è preordinata al soccorso e all'assistenza alle popolazioni colpite (art. 2 co. 6 del Codice). Il secondo è l’art. 25, che determina - al co. 2, lett. a)-f) - l’ambito di applicazione del potere d’ordinanza pensandolo esattamente in funzione del ripristino e della gestione tecnico-amministrativa degli effetti prodotti da un evento accaduto ed (in questo senso) esaurito[29].

Se così è, allora la filiera di decreti-legge e dpcm può essere compresa come un adattamento fisiologico alla conformazione materiale del fatto emergenziale. E a ben vedere non sarebbe un caso che questo sistema sia apparso, di fatto oscurando quello di protezione civile, non appena la realtà materiale ha cominciato a delinearsi secondo quella che poi sarebbe stata la propria conformazione. L’osservazione delle date restituisce, in effetti, un quadro piuttosto indicativo: il 31 gennaio 2020 è stato attivato – con deliberazione del Consiglio dei Ministri - il sistema di protezione civile, dopo che il giorno precedente si era registrata la notizia dei primi casi “importati”, e dunque localizzati e controllabili (si tratta di due turisti in Italia), di contagio. Tutto resta fermo fino al 23 febbraio - quando la filiera decreti-legge-dpcm è stata inaugurata – meno di 48 ore dopo aver registrato i primi casi interni di contagio. E’ proprio la presenza “incontrollata” del virus sul territorio ad aver rappresentato il momento in cui si è compiuto lo stravolgimento, anche qualitativo, dell’emergenza in un senso inedito, eliminando la dimensione territoriale (perché la prevenzione non è più stata legata al contenimento del virus in luoghi circoscritti) ma soprattutto modificando la struttura temporale dell’evento che, se fino a quel momento rendeva in qualche modo possibile (e replicabile) l’astratta distinzione tra prevenzione - intesa come attività di gestione ex ante volta ad evitare la realizzazione dell’evento - e gestione – intesa come intervento ex post sugli effetti prodotti dall’evento - di li in avanti prevenzione e gestione si sono confuse in un tutt’uno. Ma non è tutto: a guardar bene non stupisce nemmeno che il sistema normativo di gestione dell’emergenza si sia sviluppato proprio attraverso l’emersione del dpcm e l’esaltazione (lato sensu) “normativa” della figura del Primo ministro. La vicenda Covid-19, in questo senso, non ha fatto altro che portare ad un compimento esemplare una parabola che era già in atto da qualche tempo. Diversi commentatori (supportati peraltro da un rapporto del servizio studi della Camera[30]) hanno segnalato come la figura del dpcm sia uscita dal recinto funzionale della direzione e del coordinamento della politica generale del Governo, rivelandosi sempre più frequentemente la forma dell’esercizio di un vero potere di decisione amministrativa e normativa[31]. In un primo momento questo percorso si è realizzato attraverso una sorta di attrazione della figura del Presidente del Consiglio verso il modello ministeriale e in particolare il fenomeno dell’espansione degli ambiti di intervento attivo e della dilatazione del suo apparato burocratico (editoria, sicurezza, funzione pubblica, protezione civile ecc.)[32]. Successivamente, però, la valorizzazione del ruolo “decisorio” del Presidente del Consiglio ha assunto una conformazione più propriamente “normativa” (questa necessità di qualificare i dpcm come atti normativa deriva da un pregiudizio: che la discrezionalità politica, e la funzione di governo, passi sempre e comunque da un atto normativo) ed è passata per scelte politiche contingenti, attraverso leggi che - di volta in volta, ma finendo poi per sedimentarsi intorno ad alcune ricorrenze materiali e funzionali - hanno scelto di demandare la loro attuazione non al potere regolamentare del Governo, né a quello dei Ministri - singolarmente o nella forma inter-ministeriale - ma a quello del Presidente del Consiglio dei Ministri.

  

* Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Scuola Superiore Sant’Anna (alberto.arcuri@santannapisa.it)

[1] Con l’ordinanza di rimessione n. 27 del 23 dicembre 2020.

[2] Riconoscendo la possibilità che l’esecutivo potesse intervenire anche con «nuove risposte normative e provvedimentali».

[3] M. Rubechi, I d.P.C.m della pandemia: considerazioni attorno ad un atto da regolare, federalismi.it, n. 27/2021, p. 183.

[4] Rimandiamo a quanto espresso in A. Arcuri, Cose vecchie e cose nuove sui d.p.c.m. dal fronte (…dell’emergenza coronavirus), federalismi.it, n. 28/2020, p.251 ss.

[5] In questo senso E. C. Raffiotta, I poteri emergenziali del Governo nella pandemia: tra fatto e diritto un moto perpetuo nel sistema delle fonti, in Rivista AIC, n. 2, 2021, p. 64 ss.; e M. Cavino, Comitato per la legislazione e dPCM: il diavolo si cela nei dettagli, in Quaderni Costituzionali., n.2, 2021, p. 401ss.

[6] Lo rileva diffusamente, commentando proprio la sentenza n. 198 del 2021, M. Rubechi, cit., p. 191ss. Più in generale sul punto cfr. V. Di Porto, La carica dei DPCM, Osservatorio sulle fonti., 2/201 D. De Lungo in Nihil est in intellectu quod Prius non fuerit in sensu: considerazioni empiriche su decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri nell’esperienza recente, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019; M. Giannelli, I decreti “di natura non regolamentare”. Un’analisi a partire dalla prassi della XVI e XVII legislatura, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it F. Biondi Dal Monte, Dopo la legge, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; D. Piccione, Il Comitato per la legislazione e la cangiante natura dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Federalismi.it.

[7] Tra i tanti abbiamo già richiamato F. Sorrentino, Le fonti del diritto Italiano, Cedam, Padova, 2009, pp. 55-57.

[8] Lo rilevava già M. C. Grisolia, Osservazioni in tema di decreti del presidente del Consiglio a contenuto regolamentare, in Il potere regolamentare nell'amministrazione centrale, U. De Siervo (a cura di), Bologna, 1992, 155-184.

[9] Fino all'entrata in vigore della legge n. 400 del 1988, i decreti legislativi erano adottati nella generica forma di d.P.R. Problemi del tutto simili a quelli che oggi si pongono circa l’appartenenza (o meno) al sistema delle fonti di atti che si presentano con il medesimo nome (dm o dpcm), si sono posti fino al 1988 in merito alla riconducibilità ai diversi gradi del sistema delle fonti (primarie o secondarie) degli atti normativi del Governo emanati con la medesima formula di d.P.R. Peraltro l’autoqualificazione è accompagnata da ulteriori prescrizioni: ad esempio, per quanto riguarda i decreti legislativi, l’art. 14 della legge n. 400 del 1988 stabilisce che si debbano indicare, nel preambolo dell’atto, la legge di delegazione, la deliberazione del Consiglio dei Ministri e gli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione. In questo senso, la legge n. 400 del 1988 completa un percorso iniziato con il d.P.R. n. 1092 del 1985, sulla pubblicazione degli atti normativi.

[10] L’apertura più esplicita è quella contenuta nella sentenza n. 116 del 2006, in cui ha denunciato apertamente l’“indefinibile natura giuridica” di un rinvio operato da una fonte primaria ad “un decreto avente natura non regolamentare”, ma ha poi finito comunque per fondare l’illegittimità costituzionale della fonte primaria che vi rinviava sulla base del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.

[11] La decisione più importante sul punto è l’Adunanza Plenaria n. 9 del 2012, su cui si veda N. Lupo, Il Consiglio di Stato individua un criterio per distinguere tra atti normativi e atti non normativi, Giornale di diritto amministrativo, 12/ 2012.

[12] Si veda il commento di G. Guzzetta su Adkronos del 22 ottobre 2021: Covid, Guzzetta: "Motivazioni Consulta eliminano distinzione tra norme e atti amministrativi", consultabile in https://www.adnkronos.com/covid-guzzetta-motivazioni-consulta-eliminano-distinzione-tra-norme-e-atti-amministrativi_6UkuR89pKuGARz1XqxIam8.

[13] Il riferimento è alle categorie dei regolamenti indipendenti e attuativi e integrativi (lettere b e c dell’art. 17 co. 1 della legge n. 400 del 1988).

[14] Tra gli altri si veda M. Ramajoli-B. Tonoletto, Qualificazione e regime giuridico degli atti amministrativi generali, Dir. Amm. 1-2/2013, pp. 53-62.

[15] Secondo M. Cavino, cit., in federalismi.it, n. 25/2021, p. 82, ad esempio, quest’eccedenza argomentativa sarebbe indice sintomatico del fatto che «parametro del giudizio della Corte sono state in sostanza le norme che assistono i diritti di libertà e non quelle direttamente connesse ai rapporti tra le fonti, posto che la distinzione tra ordinanze e atti necessitati rileva essenzialmente per le materie coperte da riserva assoluta di legge (corsivo nostro)».

[16] A partire dallo scritto del 1948 Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1948.

[17] M.S. Giannini, Atti necessitati e ordinanze di necessità in materia sanitaria, ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 915 ss.

[18]M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1949, 949 e ss., ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 945 ss.

[19] M.S. Giannini, Atti necessitati e ordinanze di necessità in materia sanitaria, ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 915 ss.

[20] S. Palumbo, Le ordinanze in materia di protezione civile, tra potere di urgenza e urgenza di potere, P.A. Persona e Amministrazione n. 2/2020, p. 375 ss.

[21] F. Migliarese, Ordinanze di necessità, in Enc. Giur. Treccani, XXII, Roma, 1990.

[22] Da M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1949, 949 e ss., ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 945 ss..

[23] A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, XV ed., 1989, 74-75.

[24] R. Cavallo Perin, Potere di Ordinanza e Principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità e urgenza, Milano, Giuffrè, 1990.

[25] R. Cavallo Perin, cit., Milano, Giuffrè, 1990, p. 4.

[26] E infatti prima della decisione della Corte aveva già svolto questa riconduzione G. Trombetta, L’ordinanza prefettizia ex art. 2 TULPS. Una lettura “realista” dentro i principi costituzionali, federalismi.it n. 22/2021.

[27] Così già F. Sorrentino, Riflessioni minime sull’emergenza Coronavirus, inCostituzionalismo.it, n. 1/2020.

[28] In questo senso già C. Caruso , Cooperare per unire. I raccordi tra Stato e Regioni come metafora del regionalismo incompiuto, in Rivista del Gruppo di Pisa, n. 1/2021.

[29] Art. 25 co. 2, (…) con le ordinanze di protezione civile si dispone, nel limite delle risorse disponibili, in ordine: a) all'organizzazione ed all'effettuazione degli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione interessata dall’evento; b) al ripristino della funzionalità dei servizi pubblici e delle infrastrutture di reti strategiche, alle attività di gestione dei rifiuti, delle macerie, del materiale vegetale o alluvionale o delle terre e rocce da scavo prodotti dagli eventi e alle misure volte a garantire la continuità amministrativa nei comuni e territori interessati, anche mediante interventi di natura temporanea; c) all'attivazione di prime misure economiche di immediato sostegno al tessuto economico e sociale nei confronti della popolazione e delle attività economiche e produttive direttamente interessate dall'evento, per fronteggiare le più urgenti necessità; d) alla realizzazione di interventi, anche strutturali, per la riduzione del rischio residuo nelle aree colpite dagli eventi calamitosi, strettamente connesso all'evento e finalizzati prioritariamente alla tutela della pubblica e privata incolumità, in coerenza con gli strumenti di programmazione e pianificazione esistenti; e) alla ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture, pubbliche e private, danneggiate, nonché dei danni subiti dalle attività economiche e produttive, dai beni.

[30] «Appunti del Comitato per la legislazione “La produzione normativa nella XVII Legislatura”. Aggiornamento al 15 giugno 2016 n. 9 – Focus».

[31] V. Di Porto, La carica dei DPCM, Osservatorio sulle fonti., 2/201 D. De Lungo in Nihil est in intellectu quod Prius non fuerit in sensu: considerazioni empiriche su decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri nell’esperienza recente, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019; M. Giannelli, I decreti “di natura non regolamentare”. Un’analisi a partire dalla prassi della XVI e XVII legislatura, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it F. Biondi Dal Monte, Dopo la legge, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; D. Piccione, Il Comitato per la legislazione e la cangiante natura dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Federalismi.it.

[32] A. Sandulli, Il problema della Presidenza del Consiglio, ora in Scritti giuridici, Vol. I, Diritto costituzionale, Jovene, Editore, Napoli, 1990.

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