PSICHE, COLPA E GIUSTIZIA IN SCENA: recensione al film “TRE PIANI” di Nanni Moretti
di Lara Vernaglia Lombardi
Trarre un film da un libro è impresa ardua quanto alla resa visiva di immagini che la lettura rende sicuramente più intellegibili in tutte le sfaccettature e le interpretazioni rese possibili dalla capacità del lettore e dello scrittore.
Quando il libro (“Tre piani” edito in Italia da Neri Pozzi) è scritto da Eshkol Nevo, laureato in psicologia e nato a Gerusalemme, la difficoltà è accresciuta dalla impossibilità di riprodurre, in ambientazione italiana, la storia di Israele facendola coincidere con tante piccole storie familiari e interne come fa lo scrittore senza mai cadere in un’evocazione politica.
Ciò è paradossale se riferito a un regista, quale Nanni Moretti, che ha fatto dell’ideologia politica, con sapiente ironia, l’icona del suo stile e la traccia distintiva della sua filmografia; ironia che, tuttavia, si arresta in occasione del primo Moretti che si cimenta in un soggetto non originale che diventa privo di sarcasmo, denudandosi sino alla narrazione visiva asciutta e distaccata.
La storia è quella di tre famiglie, accomunate da una infelicità latente e pronta a divampare, che abitano tre piani di un condominio borghese romano.
Il primo piano è abitato da un padre, Lucio, una madre, Sara, e una bambina che sovente viene affidata ad una coppia di anziani vicini di casa, al secondo piano vive Monica che si trova a gestire una gravidanza, il parto e la crescita di sua figlia da sola tra videochiamate al marito che lavora in altri luoghi e visite alla propria madre ricoverata per problemi mentali.
Al terzo piano dimora una coppia di magistrati, Dora e Vittorio, e il loro figlio.
La prima scena, muovendo dall’immobilismo e dall’ordine della palazzina, è rappresentata da una deflagrazione, che forse ci preannuncia quella interiore che sconvolgerà i protagonisti del film, causata dall’impatto dell’automobile di Andrea, il giovane figlio dei magistrati, contro la parete dello studio dove svolge la sua attività Lucio, condomino interpretato da Riccardo Scamarcio.
Questo evento dirompente e traumatico, la rottura della parete che “copre” un interno, investe i personaggi e lo stesso fabbricato che li contiene lasciando che i tre piani si disvelino come i tre piani freudiani della personalità.
Così Riccardo Scamarcio, Lucio nella finzione, rappresenta l’ES, il piano istintivo, animalesco e rabbioso, ossessionato da una realtà che il proprio senso di colpa gli crea presentandosi come esclusiva.
L’occasione per dare sfogo a questo aspetto della personalità si invera quando la figlia, affidata per l’ennesima volta agli anziani vicini di casa, Giovanna e Renato, si perderà dopo essere andata a fare una passeggiata con l’anziano e sarà ritrovata dal padre in un parco insieme al vecchio, disarmato, decaduto e debole di fronte al quale Scamarcio creerà un suo mostro personale accusandolo di aver molestato la bambina e scagliandosi a più riprese contro di lui.
L’ossessione e la ricerca di una verità che non esiste se non nella sua mente lo indurranno a commettere nei confronti della giovane nipote dell’anziano lo stesso reato di cui lo accusa e da cui una giustizia (più aderente alla realtà di quanto non sia quella esercitata in privato) lo assolverà per essere risultata la ragazza consenziente al rapporto sessuale.
Monica, invece, rappresenta l’IO, il ponte tra le due altre istanze freudiane, sospesa tra realtà e apparenza, tra la minaccia della malattia mentale e il dovere materno che svolge con esattezza pur tra mille difficoltà.
Confiderà al medico della madre di avere delle visioni, ma verrà rassicurata sulla impossibilità di trasmissione ereditaria della malattia da una scienza che si rivelerà forse fallace, di fronte alla imprescrutabilità della mente umana e al cospetto del corvo nero che spalanca il becco a minaccia del ruolo di madre e dello svolgimento instintivo (ES) e doveroso (SUPER IO) del compito di crescita di un figlio.
Monica, e noi spettatori insieme a lei, verrà avvolta da una dimensione onirica in cui dare sfogo a impulsi trattenuti e repressi anche a causa di una assenza prolungata del marito e sarà alla fine rapita e strappata via dalla malattia o forse dal suo bisogno di vivere appieno solo attraverso la malattia-follia intesa come liberazione e libertà di pirandelliana e shakespeariana memoria.
Infine, Dora e Vittorio, il SUPER IO, il controllo, il divieto, l’inflessibilità, il revisore interno accentuato a tal punto da farne un mestiere che, fin quando viene esercitato nelle aule di giustizia, dove pure è richiesta una buona dose di equilibrio, è gestibile attraverso l’applicazione delle norme e controllabile attraverso la gerarchia delle giurisdizioni.
Quando però si esplica all’interno delle mura domestiche, nei confronti di un figlio che deve affrancarsi dalla strada impostagli per intraprendere la sua strada, rischia di deragliare dai binari dell’equilibrio e della sana educazione per essere travolto da regole etiche soggettive e influenzate da fattori personali.
Così, la giustizia amministrata dal padre Vittorio mette nel mirino un bambino di otto anni che subisce una sorta di processo, per chissà quale marachella, e fatalmente non può non produrre effetti devastanti.
Genera un figlio rabbioso, violento verso il suo stesso padre, richiedente l’intervento del padre-magistrato per eludere una pena sicura contro ogni dettame razionale, legale e morale e che non trova altra via di uscita che la carcerazione e il successivo allontanamento volontario dai genitori.
Il personaggio di Vittorio lascia intravedere un magistrato irreprensibile, fermo e rigido applicatore delle leggi.
Emblematica è la figura di Nanni Moretti in toga sovrastata dalla scritta: la legge è uguale per tutti.
Non si dubita, conoscendolo nel corso delle riprese, che egli incarni, nell'amministrare giustizia, quei caratteri di obiettività e imparzialità che com'è noto sono alla base della professione giurisdizionale.
La questione, che può rivelarsi interessante per chiunque abbia scelto di intraprendere la strada della magistratura, si incentra sul come modulare nella vita e nelle relazioni sociali e familiari quella propensione al giudizio inflessibile che talvolta è connaturato alla persona per svariate ragioni caratteriali, educative, familiari.
Vittorio è giudice implacabile prima di tutto di se stesso e di riflesso del figlio e annienta il senso e il concetto di colpa non solo infliggendo adeguate condanne nelle aule di giustizia, ma anche privando se stesso di qualsivoglia macchia quale può essere un figlio disobbediente.
Non conosce elasticità, flessibilità, comprensione e capacità di mitigare il giudizio e la condanna quando si trova nel perimetro delle mura domestiche e deve seguire un suo codice personale.
Eppure nelle aule del processo penale ci si muove tra scriminanti, attenuanti o aggravanti, strumenti per dosare la pena a seconda del grado di colpa cosi come nelle aule del processo civile la condanna pecuniaria risente di minimi, medi e massimi valori e altre opportunità di azione e variazione nell'irrogazione della sanzione.
Vittorio ne è forse capace quale giudice (non ci è dato osservarlo all'opera, ma solo dedurre le sue modalità professionali), certamente non ne è capace come padre e come giudicante di se stesso.
E ancora, nella giustizia esistono tre gradi di giurisdizione, nella nostra individualità quanti piani abbiamo per controllare gli errori, emendarli e raggiungere la verità?
Ebbene, il mancato appello da parte della ragazza, presunta vittima del reato, alla sentenza di assoluzione di Lucio-Scamarcio ce ne mostra una realizzazione suggellando la verità questa volta non con un provvedimento, ma con una scelta individuale e cosciente che segue regole non codificate in un intreccio tra giustizia formale e sostanziale che si inseguono e si avvicendano nella coscienza umana e, talvolta, anche nelle aule giudiziarie turbando l’apparente inscalfibile serenità nella pur doverosa applicazione della legge.
Sullo sfondo, ma non troppo sullo sfondo, si staglia una magistrale Margherita Buy, Dora, una donna divisa tra il marito e il figlio, tra l’amore materno e quello coniugale, tra l’espressione della propria personalità e quella impostagli dal rigore di suo marito che, pure, lei ama a tal punto da mantenere con lui un collegamento oltre la morte attraverso telefonate indirizzate alla segreteria telefonica di casa in cui la voce di Vittorio riecheggia rendendolo sopravvissuto, ma in maniera diversa, incapace di replicare, fermo e cristallizzato nell’atto della presentazione della famiglia e della casa in cui squilla il telefono e risponde la segreteria.
Così assistiamo, dopo la morte di Vittorio, alla emancipazione dal SUPER IO della parte femminile dello stesso SUPER IO, osserviamo Dora ricongiungersi al figlio, indossare un vestito dalla promettente e germogliante fantasia floreale in luogo delle tuniche di colore scuro e a tinta unita da lei sempre indossate in precedenza in linea con uno stile rigoroso e opaco che caratterizzava la famiglia del terzo piano perché il controllo, il divieto, l’eccesso razionale possono rendere tutto meno trasparente e visibile.
Anche Dora è un magistrato, ma la consapevolezza del suo ruolo professionale è sfocato così come sottordinato rispetto al marito è l’intero personaggio interpretato dalla Buy che acquista un’autonomia solo alla scomparsa del coniuge.
La scena finale è un’altra deflagrazione che tuttavia si ricompone, si colora di allegra anarchia ordinata, di illegalità non punibile perché non dannosa: l’illegal tango che travolge i condomini non più collocati nei piani interni, ma en plein air, mischiati, indifferenziati, livellati dal sorriso che strappa loro un’immagine di ballo a coppie, dunque soggetto a regole di movimento e di linee, ma nello stesso tempo non controllabile, lasciato libero a significare un passaggio dall’interno all’esterno con maggiore consapevolezza delle proprie storie individuali, delle proprie paure, debolezze, dei propri desideri, delle proprie scelte e strade da percorrere, dei propri errori….eppure, mentre si svolge lo spettacolo del ballo, a Beatrice, la bambina neonata che ritroviamo a questo punto cresciuta dal padre dopo l’allontanamento di Monica, appare proprio Monica sorridente, impermeabile alla realtà, libera, se stessa e noi ci chiediamo se non sia l’immaginazione poetica e istintiva della bambina che materializza la figura materna in un momento di gioia o la malattia mentale foriera di visioni che segnerà anche il futuro della piccola……
Così, dopo la speranza liberatoria del ballo, rispettoso delle figure del tango e nello stesso tempo incontrollato nonostante sia “illegal”, ci sovviene la constatazione che forse anche il ballo è una visione alla quale Moretti ci avvicina per alleviare la possibilità di un finale più realistico, duro e ineluttabile….