Diritto e società
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Salvatore Veca: società giusta ed etica pubblica per una convivenza possibile di Baldassare Pastore

Salvatore Veca: società giusta ed etica pubblica per una convivenza possibile

di Baldassare Pastore  

Salvatore Veca (1943-2021) è stato un importante filosofo che, nel corso della sua intensa attività, ha sempre coniugato, con rigore analitico e passione argomentativa, l’impegno scientifico e quello civile, connesso alla divulgazione e alla presa di posizione nel contesto del dibattito più marcatamente politico.

Laureatosi nel 1966 con una tesi in Filosofia teoretica nell’Università statale di Milano sotto la guida di Enzo Paci e Ludovico Geymonat, docente in vari Atenei italiani, dal 1990 ha insegnato, come professore ordinario, Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia (di cui è stato, dal 1999 al 2005, preside) e successivamente, sempre a Pavia, presso L’Istituto Universitario di Studi Superiori. Ha inoltre svolto una significativa attività di consulenza e di direzione editoriale, fra l’altro come presidente della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e come componente dei comitati scientifici o delle direzioni di alcune tra le più prestigiose riviste di filosofia e di teoria politica e sociale.

Veca ha avuto il merito di introdurre nel dibattito italiano la teoria della giustizia di John Rawls (La società giusta. Argomenti per il contrattualismo, Milano 1982; Questioni di giustizia, Parma 1985), facendosi anche promotore della traduzione di A Theory of Justice (1971), pubblicata nel 1982.

Il libro di Rawls era un’opera imponente e complessa, quasi del tutto estranea alle maggiori tradizioni di ricerca in filosofia politica e sociale allora prevalenti in Italia, così come nel resto dell’Europa continentale. La convinzione che muove Veca è che la teoria della giustizia come equità rappresenti uno dei più rilevanti contributi che la filosofia contemporanea possa offrire per orientarsi nella controversia politica e nella discussione pubblica a proposito delle istituzioni, delle scelte collettive e delle pratiche sociali di una società liberal-democratica. La teoria rawlsiana – secondo Veca – offriva ragioni e argomenti per valutare l’ambito della politica alla luce di una concezione della giustizia sociale coerente con la prospettiva di un socialismo liberale, superando la stanca ripetizione di discorsi ideologici in cui si consumava il declino della vulgata marxista. Le idee centrali della giustizia come equità potevano funzionare come bussola per una politica riformista che aveva il proprio nucleo normativo nell’eguaglianza democratica centrata sui diritti di cittadinanza, all’interno della cornice dello Stato costituzionale.

La recezione delle tesi di Rawls come termine di confronto ricorrente, pur soggetto a critica e revisione, ha rappresentato un tratto peculiare della riflessione di Salvatore Veca che, comunque, con il passare degli anni, si è sempre più configurata come il giornale di bordo di una esplorazione in un gran numero di luoghi.

Non è possibile, in questa sede, dar conto in maniera esauriente dello svolgimento di un percorso di studio e di una varia e ampia produzione scientifica caratterizzati dalla curiosità intellettuale e dall’apertura verso territori di confine e discipline diverse, dove sono affrontate questioni riguardanti la teoria della conoscenza e la logica (Fondazione e modalità in Kant, Milano 1969), il pensiero di Marx in relazione alle scienze economiche, sociali e politiche (Marx e la critica dell'economia politica, Milano 1973; Saggio sul programma scientifico di Marx, Milano 1977), la teoria normativa della politica (Le mosse della ragione. Scritti di filosofia e politica, Milano 1980), il pluralismo (Una filosofia pubblica, Milano 1986; Etica e politica. I dilemmi del pluralismo: democrazia reale e democrazia possibile, Milano 1989), la cittadinanza (Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull'idea di emancipazione, Milano 1990), la verità, le forme della convivenza giusta, l’identità (Dell'incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Milano 1997), la lealtà civile (Della lealtà civile. Saggi e messaggi nella bottiglia, Milano 1998), l’interpretazione e la ricostruzione della teoria politica, principalmente contemporanea (La filosofia politica, Roma-Bari 1998), la natura dell’attività filosofica e l’importanza delle emozioni (La penultima parola e altri enigmi. Questioni di filosofia, Roma-Bari 2001), la giustizia senza frontiere (La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull'idea di giustizia, Milano 2002), il rapporto tra filosofia e pratica politica, il fondamento dei diritti umani, l’immagine della scienza e della tecnica, il principio di responsabilità (La priorità del male e l'offerta filosofica, Milano 2005), il paradigma dell’incompletezza in connessione con quello dell’incertezza e con il tema dell’immaginazione filosofica intesa come connubio tra esplorazione di connessioni e coltivazione di memorie (L'idea di incompletezza. Quattro lezioni, Milano 2011; L'immaginazione filosofica e altri saggi, Milano 2012), la laicità delle istituzioni e delle scelte sociali (Un'idea di laicità, Bologna 2013), i rapporti tra capitalismo e democrazia rappresentativa (Non c'è alternativa. Falso!, Roma-Bari 2014), il valore della democrazia e della libertà democratica, nonché la relazione tra diritti e giustizia ambientale come giustizia sociale (Libertà, Roma 2019; Il mosaico della libertà. Perché la democrazia vale, Milano 2021).

La ricerca di Veca ha riguardato temi che inevitabilmente si incrociano con il diritto, facendo riferimento all’idea di una società giusta, ben ordinata, intesa come schema equo di cooperazione nel tempo fra persone libere ed eguali, aventi pari dignità. Si tratta di temi riconducibili a ciò che si può designare come “etica pubblica”, volta a fornire criteri orientativi e ad attribuire valore a scelte tra alternative attinenti alla sfera giuridico-politico-sociale delle attività umane. Le tematiche del liberalismo politico e dei diritti umani ben esemplificano questo approccio.

Il liberalismo politico ha a che fare con i regimi di democrazia costituzionale e riguarda – come Veca sottolinea – l’indagine del campo di ciò che politicamente vale, di cui cioè apprezziamo e difendiamo le virtù, denunciandone nel contempo i vizi, le deficienze, le promesse non mantenute o i rischi involutivi di fronte alle sfide di un mondo che cambia. Il liberalismo è intrinsecamente costituzionalismo poiché consiste nella determinazione di regole che vincolano l’autorità politica in modo che il suo esercizio sia rispondente ai diritti dei cittadini e nella individuazione di una varietà di sfere che, in virtù delle idee di autonomia individuale e di pluralismo, caratterizzano la comunità politica. Il liberalismo politico rinvia ad una tesi sulla ragionevolezza della condivisione di un insieme di valori che modellano gli elementi costituzionali essenziali di una società democratica caratterizzata dal fatto del pluralismo e che si propongono come centro focale di un “consenso per intersezione” (l’espressione è mutuata da Rawls, Political Liberalism del 1993; trad. it. 1994) fra prospettive e visioni tra loro divergenti e confliggenti. Il consenso per intersezione verte sui minima moralia della cittadinanza, sottraendoli al calcolo e alle transazioni dei interessi e dei poteri nell’ottica della garanzia dell’eguale valore della libertà per chiunque e dell’eguaglianza delle opportunità per ciascuno. Centrale qui, appunto, è il ruolo dei vincoli costituzionali. Le costituzioni, infatti, incorporano princìpi di giustizia destinati a informare di sé l’intero ordinamento giuridico. “Politico”, in questo ambito di discorso, vuol dire essenzialmente “costituzionale” e rinvia alla domanda relativa alla possibilità di generare e riprodurre stabilmente nel tempo una comune lealtà civile.

Una siffatta condivisione, nell’ottica del liberalismo politico, riguarda soltanto i valori politici fondamentali (i princìpi costituzionali) riconosciuti per una varietà di ragioni e di motivazioni dipendenti da differenti lealtà e identità (memorie, religioni, culture). La presenza di plurali concezioni e visioni può produrre confronti pregnanti se si realizza una convergenza su ciò che è giusto, non su ciò che è bene. La giustizia è la virtù che dovrebbe modellare l’assetto delle istituzioni nel segno della reciprocità e del mutuo rispetto. Al diritto è affidato il compito di realizzare le condizioni di possibilità della vita comune.

I requisiti minimi di una concezione della giustizia per una società ben ordinata toccano l’assetto delle sue istituzioni basilari e riguardano: a) una lista di diritti, libertà e opportunità fondamentali; b) la priorità assegnata a questi diritti e a queste libertà rispetto alle pretese di benessere collettivo; c) la predisposizione di misure che assicurino a tutti i cittadini i mezzi per rendere effettivo il loro uso delle libertà. La specificazione di questi requisiti rinvia ad una società a democrazia costituzionale e implica l’accettazione di quella particolare classe di diritti che sono i diritti umani.

Tali diritti rappresentano condizioni necessarie per la legittimità di un regime politico e configurano il punto stabile, saldo, sottratto a variazioni, di convergenza su che cosa sia vivere vite umane.

Veca affronta questo tema fornendo una giustificazione dei diritti umani centrata sulla messa a fuoco della “priorità del male”. E invero, il riconoscimento dei diritti umani e l’impegno per la loro garanzia e promozione non possono prescindere da una giustificazione-fondazione, che serve a mostrare le buone ragioni che militano a loro favore, connettendosi alla ricerca della loro universalità.

Il linguaggio dei diritti umani, a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, è primariamente una risposta reattiva alla memoria recente dell’orrore e della crudeltà (la Shoah, in proposito, è e resta l’evento paradigmatico), grazie ad un’euristica della paura e ai criteri della prudenza. Il male è la crudeltà di esseri umani nei confronti di altri esseri umani. La priorità del male ci suggerisce la risposta alla domanda sul perché c’è bisogno dei diritti. Tale risposta è dettata dalla storia, non da idee religiose, metafisiche, etiche, e si basa sull’assunto secondo cui i diritti servono, alla fin fine, a ridurre, minimizzare e auspicabilmente azzerare il male che esseri umani infliggono, o possono infliggere, ad altri esseri umani in virtù di rapporti asimmetrici di potere e di forza. I diritti, dunque, funzionano come risorse di protezione contro la sofferenza socialmente evitabile, operando come vincoli normativi sull’esercizio dei poteri con riguardo alle vite delle persone, chiunque siano e ovunque siano. È, questa, una prospettiva che cerca di prendere sul serio le sfide connesse al rapporto tra universalismo dei diritti umani e pluralismo delle culture, nell’ottica della condivisione di un mondo incerto, in continuo mutamento, diviso, caratterizzato dal disaccordo e dalla varietà delle idee del bene umano, ma inevitabilmente interdipendente. Un mondo che sia un posto degno di essere vissuto, o almeno meno intollerabile per chi ci vive; un mondo che sia giusto, o almeno meno ingiusto, e che chiama in causa la responsabilità di chi ha a cuore la qualità della convivenza, nella necessaria consapevolezza dei limiti ma senza rinunciare al senso della possibilità, entro lo spazio che ci è concesso.

Proprio il lavoro filosofico praticato da Salvatore Veca è servito (e continuerà a servirci) per guardare la realtà in modi più perspicui e illuminanti, adottando la visuale della politica possibile, senza arrendersi alle cose così come sono e lottando per le cose così come dovrebbero essere.          

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