GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    L’algoritmo e  la nuova stagione del costituzionalismo digitale: quali le sfide per il giurista (teorico e pratico)?

    L’algoritmo e  la nuova stagione del costituzionalismo digitale: quali le sfide per il giurista (teorico e pratico)?

    Conversando con Oreste Pollicino

    di Roberto Conti e Franco de Stefano

    L’intelligenza artificiale applicata al diritto. Il "tema del momento" in un momento particolare, in cui proprio a causa della stagione pandemica il mondo della giustizia vive da oltre un anno situazioni di stress particolari e particolarmente avvertite dagli operatori che vi gravitano.
    La consapevolezza, comunemente percepita, di affrontare parte dei nodi irrisolti della giustizia attraverso strumenti informatici apre dunque al giurista le porte di un mondo solo in parte conosciuto, nel quale l’orizzonte  rappresentato da modalità tecnologiche nuove di sviluppo dei rapporti negoziali e di svolgimento dei processi, in apparenza destinato a risultare neutro rispetto alle regole del diritto sostanziale, del processo e di giudizio, si interseca con quello che invece tende a prefigurare, con l’avvento sempre più marcato del digitale, ricadute niente affatto marginali sul ruolo del giudice.
    Per iniziare una riflessione ad ampio spettro sul tema, Giustizia insieme ha chiesto al Prof. Oreste Pollicino, che coniuga la sua vocazione di autorevole costituzionalista ora pure  impegnato come membro del Consiglio di amministrazione dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali quella di essere uno dei massimi esperti italiani in tema di diritto del digitale.

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    Professore Pollicino, secondo l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia Giovanni Pitruzzella, stiamo andando velocemente verso un’era, ancora tutta da scrivere,  rivolta al costituzionalismo di internet, nella quale il ruolo trainante dovrebbe essere dell’Europa alla quale il new deal della Presidenza Biden potrebbe dare grande impulso. Qual è il suo avviso in proposito?

    Condivido la posizione del prof. Pitruzzella. Credo che il costituzionalismo debba rimanere fedele alla sua vocazione originaria, quella di essere limite, ed a volte argine, al potere. Proprio per questa ragione, se le coordinate del rapporto tra autorità e libertà mutano geometria, e si spostano da una dimensione verticale ad una orizzontale, relativa al rapporto tra piattaforme digitali ed utenti, anche il costituzionalista deve essere in grado di cambiare prospettiva ed interrogarsi su come gli strumenti privilegiati di limitazione del potere, a cominciare dalla applicazione diretta dei diritti fondamentali, possano essere declinati su un piano, per l’appunto, verticale e non solo orizzontale. Il costituzionalismo digitale non è altro che il “vecchio caro” costituzionalismo impegnato in una fase di rinnovamento, non di stravolgimento, che sia in grado di fare fronte alle nuove sfide legate all’esplosione della dimensione digitale. Alla geometria variabile del potere segue la geometria altrettanto variabile del costituzionalismo.

     

    Nel Libro bianco della Commissione europea si dice che “è essenziale che l'IA europea sia fondata sui nostri valori e diritti fondamentali quali la dignità umana e la tutela della privacy.” Affermazione che entusiasma ed esalta ma dietro alla quale  si ha difficoltà ad individuare delle precise linee operative che possano indirizzare la policy in tema di Intelligenza artificale. Potresti farci quache esempio per rendere concreto il messaggio della Commissione UE e al contempo individuare almeno in parte le linee strategiche di un futuro digitale “degno” della persona umana?

    A mio avviso, l’intento della Commissione di adottare il Libro Bianco da voi citato citato e, più in generale il pacchetto di riforme  della dimensione digitale europeo presentato a dicembre, tra cui spiccano Digital Service Act e Digital Market Act, è duplice. In primo luogo, superare una delle più grand debolezze della strategia per il mercato unico digitale lanciata dalla Commissione nel 2015. Vale a dire il fatto che i segmenti più rilevanti alla base di detta strategia non fossero comunicanti, ansi spesso siano in contraddizione. E qui c’è ben poco di strategico. Si pensi, per esempio, a come, in questi anni, si sia affrontato in modo settoriale (solo a titolo esemplificativo, copyright, servizi media audiovisivi, normativa antiterrorismo) la questione del necessario aggiornamento della disciplina, datata 2000, in materia di esenzione di responsabilità dei providers, alla natura attuale, assai più evoluta, non solo da un punto di vista tecnologico, delle nuove piattaforme digitali. Consapevoli dei rischi conseguenti alla frammentazione evocata, tanto a livello nazionale quanto, in misura ancora più significativa, a livello europeo emerge la volontà di affrontare in modo finalmente unitario - la questione dell’adozione nuove regole che siano in grado di trovare risposte più adeguate per prevenire il predominio non sono di carattere economico, ma anche politico delle nuove piattaforme, definite testualmente “gatekeepers” nel documento della Commissione relativo alla nuova strategia dei dati. Il secondo elemento che caratterizza la riforma europea appena varata, per provare a concretizzare quanto mi chiedevate nella domanda, della nuova stagione europea del digitale è in qualche modo racchiuso  nella dichiarazione della Commissaria Verstager “poche grandi piattaforme online hanno un impatto enorme, ma dobbiamo riuscire a integrarle nella nostra democrazia”.  Quindi un passaggio dalla logica del mercato unico digitale, mantra della riforma della Commissione Junker, all’idea di fondo alla base della “controriforma” della Commissione Von der Leyen:  una democrazia digitale rapporto cui possa tendere il rapporto nuove tecnologie, diritti fondamentali e stato di diritto. Un passaggio, quello dalla dimensione esclusivamente economica a quella relativa alla tenuta complessiva del sistema democratico che è conseguenza diretta di una trasformazione o meglio trasfigurazione in corso. Si fa riferimento fatto che alcuni (i più grandi per riprendere lo spunto della Vestsagen) attori che forniscono servizi digitali a livello globale non esercitano più soltanto un diritto di iniziativa economica, ma ricoprono il ruolo di veri e propri poteri privati.  Ecco che ritorna la geometria variabile (da verticale ad orizzontale) che caratterizza la sfida principale per la nuova stagione del costituzionalismo digitale.

     

    Come conciliare i valori, tutti europei, che la Commissione continua a richiamare quale humus per un nuovo umanesimo digitale con la dimensione transnazionale del web? L’Unione europea rischia di diventare una fortezza del digitale in cui manchino i ponti levatoi di internossione con la dimensione globale delle nuove tecnologie?

    Si tratta di una domanda fondamentale, specialmente alla luce della prospettiva transatlantica legata al necessario ponte di connessione digitale tra  Europa e Stati Uniti. Si pensi a quanto è successo dopo i fatti di Capitol Hill e al silenziamento sui social del ex presidente Trump. Se cerchiamo una convergenza sui valori sostanziali in gioco, le asimmetrie, con riguardo ai modelli di tutela di libertà di espressione e di privacy, difficilmente si assottiglieranno. Con riguardo alla prima libertà, come si è spesso avuto occasione di ribadire, il primo Emendamento della Costituzione americana ha un valore quasi sacrale ed un ambito di estensione a tratti sconfinato. In Europa, al contrario, la libertà di espressione si gioca la sua partita alla pari con gli altri diritti fondamentali. Ed è invece proprio la tutela della privacy a rappresentare il “primo Emendamento” del costituzionalismo europeo, assieme alla tutela della dignità, oggetto di sistematica umiliazione nel periodo nazi-fascista. Tale asimmetria si ripercuote immediatamente sulla differenziazione dei modelli di protezione dei diritti fondamentali in gioco. Basti vedere come la reazione giuridica alla disinformazione e ai discorsi d’odio trovi una geometria variabile tra le due sponde dell’Atlantico.

     

    Alla luce delle asimmetrie transatlantiche in termini di valori guida e normative di dettaglio, c’è un linguaggio comune che possa essere proposto per affrontare in modo, se non unitario, almeno meno divergente la sfida che pone il ground zero della regolamentazione digitale? 

     

    Forse sì. Ma tale linguaggio non va cercato in valori costituzionali di natura sostanziale (che non possono non divergere come abbiamo visto) bensì in meccanismi procedurali (che possono unire). È infatti proprio la procedura, al di  della retorica dei diritti fondamentali, la parola chiave della nuova stagione del costituzionalismo digitale. Si fa in particolare riferimento agli obblighi di trasparenza algoritmica per le piattaforme digitali e al data due process che comporterebbe il rafforzamento delle tutele degli utenti nel loro rapporto con le piattaforme. Se il costituzionalismo analogico è quello dei diritti sostanziali, quello digitale si fonda invece sulla dimensione procedurale. 

    Tutto ciò si concretizza in un due indicazioni. La prima è che la libertà (e il diritto) delle piattaforme a rimuovere quanto considerano non consono ai propri standard contrattuali deve accompagnarsi alla conseguente loro accettazione di una maggiore responsabilizzazione, prima di tutto sul piano delle procedure, di chi non si limita più a ospitare contenuti, ma assume decisioni para-editoriali sulla loro permanenza in rete. 

    La seconda indicazione è relativa all’ormai non più procrastinabile intervento del decisore politico. La stagione del liberismo tecnologico, in cui vi è stata una delega in bianco alle piattaforme che, di fatto, si sono fatte arbitri (svolgendo un ruolo, anche scomodo, di digital utilities) del bilanciamento tra diritti fondamentali, ha prodotto le storture che sono plasticamente rappresentate dalle vicende di questi giorni. Dopo il ground zero, deve aprirsi una stagione nuova, se non di umanesimo, quanto meno di un capitalismo digitale “mite” in cui i poteri pubblici siano in grado di portare avanti una visione non privatistica e tanto meno non proprietaria dello spazio digitale. Uno spazio che – lo si voglia o no – è ormai il luogo privilegiato di quel (non esattamente libero) mercato delle idee. 

     

     

     

     

     

    Maria Rosaria Ferrarese, nella sua introduzione a “La giustizia digitale” di Antoine Garapon e Jean Lassègue si interroga sulla possibilità di conciliare il costituzionalismo e la cultura dei diritti con  la giustizia digitale. Lei pensa che il recupero di certezza e prevedibilità  che sembra cavalcare l’era digitale possa incidere sul tema del costituzionaismo facendo pendere il pendolo della bilancia in favore di chi si ostina a guardare con sospetto il principialismo?

    Proprio alla luce di quanto si diceva prima a me pare che la “giustizia digitale” , per riprendere il titolo del bel volume che avete citato, abbia ancora più bisogno di una cultura dei diritti e di un costituzionalismo attento alle nuove trasformazioni del potere. Vi è il passo di una intervista di Garapon che mi piace riprendere qui perché fa emergere chiaramente meglio di qualsiasi perifrasi perché non ci sia altra via che trovare quella conciliazione di cui parlavi nella tua domanda. “La tecnologia non potrà mai sostituirsi alla giustizia, perché carattere ontologico di quest’ultima è quello di dialogare con le passioni umane. Queste ultime prendono la forma, innanzitutto, di una aspettativa molto forte di giustizia, che poi altro non è che ciò gli americani chiamano to have one’s day in court, ossia la possibilità di essere ascoltati, unita alla sensazione che “giustizia è stata fatta”. Questo sentimento scaturisce da un evento sociale e la tecnologia digitale non può identificarsi in alcun modo con un fenomeno sociale: non vi è, al suo interno, uno spazio condiviso, non vi è alcun faccia a faccia, non c’è nessuna materialità. La tecnologia digitale potrebbe pertanto essere vissuta come una violenza eccedente: essa sarà cioè ben accolta dalla parte vittoriosa nel processo, che si è vista soddisfatta nelle sue aspettative, mentre sarà percepita come un atto ulteriore di violenza dal soccombente, perché elimina la presenza di un soggetto terzo ed estraneo al rapporto, che funge da intermediario nella risoluzione della controversia”.

     

     

    La paura della e dalla intelligenza artificiale. L’innovazione tecnologica ha sempre atterrito il mondo dei giuristi, spesso legato ad una concezione vagamente bohémien del proprio mestiere. Le ultime frontiere in materie e quelle che verranno quale effetto produrranno sul diritto scritto e sul diritto giurisprudenziale, secondo Lei.

     

    Secondo me è molto importante che l’operatore del diritto, sia esso giudice, avvocato o accademico, non si accosti all’intelligenza artificiale in modo né utopistico, né distopico. Vale a dire è fondamentale che il nuovo spazio digitale non sia percepito come un “altrove”, sconnesso dallo spazio fisico, in cui via sia o un’esaltazione o una demonizzazione del fattore tecnologico, ed in particolare di quello algoritmico.  La tecnologia, anche l’ecosistema costituito dalla intelligenza artificiale, rimane uno strumento che va guidato e non subito.

     

     

    Anche la Commissione europea per l’efficienza della Giustizia raccomanda l’impiego dell’Intelligenza Artificiale nella Giustizia, come grande opportunità applicativa per l’efficacia del sistema giudiziario; e si preoccupa di fissare i principi di fondo (rispetto dei diritti fondamentali; non discriminazione; qualità e sicurezza; trasparenza, imparzialità ed equità; controllo finale dell’utente). Come valuta questa presa di posizione, alla luce della Sua esperienza attuale presso l’Agenzia europea per i diritti fondamentali?

     

    Mi sembra una presa di posizione più che condivisibile. L’opportunità applicativa è significativa e sarebbe un peccato non cogliere il potenziale di innovazione che essa ha in seno. Allo stesso tempo, è però fondamentale, a mio avviso, avere ferma una bussola che eviti il disorientamento algoritmico. Una bussola che ha due basi portanti, che sono fatte proprie da un recente Rapporto (dicembre 2020) dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali di cui ho il privilegio di essere parte. La prima è la consapevolezza, come d’altronde ribadita dalla giurisprudenza rilevante del Consiglio di Stato, che si tratta spesso di modelli predittivi tutt’altro che neutri, e spesso caratterizzati da forti pre-orientamenti assiologici che possono condizionare pesantemente l’esito della valutazione. È quindi fondamentale che permanga, quale elemento fondamentale della valutazione stessa, l’insostituibile operazione di bilanciamento operata dal giudice. In secondo luogo, e qui mi riferisco a quanto richiamato in precedenza circa la dimensione procedurale quale humus costituzionale privilegiato della dimensione digitale, è attraverso gli obblighi di trasparenza, di accesso, di traducibilità ed esplicabilità dell’algoritmo che si può combattere l’opacità dello stesso. Opacità che rimane il tallone di Achille  più esposto della società digitale dei numeri, specie sotto una prospettiva che abbia come parametro conformativo le regole che presiedono lo stato di diritto.  D’altronde, già 40 anni fa, nel 1980, quel visionario di Norberto Bobbio, ammoniva, toccando anche i profili dell’informatica, come compito del diritto, e più in generale della società, fosse quello  di riuscire a far fare al potere, sia esso di matrice pubblica o privata, ciò che esso non farebbe mai autonomamente. Vale a dire essere il più possibile trasparente. “Il regno del potere visibile”

     

     

     

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